Libri > Il Signore degli Anelli e altri
Ricorda la storia  |      
Autore: Ghevurah    25/10/2015    6 recensioni
Allora Tyelkormo aveva teso una mano nel buio, sino ad arrivare là, dove percepiva la presenza di Curufinwë. Aveva cercato la sua mano gelida, abbandonata fra le pieghe delle pellicce, e l’aveva conquistata un po’ alla volta, dito per dito, pelle su pelle, delicatamente ma con fermezza.
Il Doriath è una promessa di vendetta all'orizzonte, mentre Celegorm ricorda sprazzi della sua vita. Sua e di Curufin.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Celegorm, Curufin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Mí sercë, mí fëa - Nel sangue, nell'anima'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Questa storia è stata scritta senza scopo di lucro; personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne abbia acquisito o ne eserciti i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
 
Nomi Quenya con loro corrispondenza in lingua Sindarin:
Tyelkormo (Tyelko) - Celegorm
Melyanna - Melian
Curufinwë (Curvo) - Curufin
Irissë - Aredhel
Tyelperinquar - Celebrimbor


 
 






 
 

Oscillando tra luce e ombra
 
 
 





L’ombra delle nuvole si tende sul mondo, vestendolo a lutto. Scende l’oscurità, ma non è quella che ferve al di là dei monti, oltre il deserto di cenere: quest’oscurità s'annida in animi annichiliti da un Giuramento mortifero.
C’è odore di pioggia, nell’aria. Il vento soffia da est, intonando un memoriale di sciabordii e profondità abissali.
L’attesa si respira, s'insinua sotto pelle: è il preludio di un’ossessione che sonnecchia nei recessi del pensiero, l’inizio di qualcosa che forse non avrà fine.
E Lestanórë1 sorge all’orizzonte, anacoretico e decadente, protetto solo dal fantasma di un ricordo. La Cinta di Melyanna è leggenda raccontata dal frusciare delle foglie, dal gorgogliare dei torrenti, dal cinguettare degli uccelli. L’esercito che avanza, invece, è tragica immanenza.
Tyelkormo cavalca accompagnato dal desiderio di una vendetta che non ha colori né contorni, un marasma oscuro definito solo dalla sua impellenza. Quasi non rammenta il volto di quella principessa sfuggente, un acquarello confuso nel sangue. Ciò che rammenta è il tradimento. Il tradimento di chi considerava un compagno di vita, l’ultimo legame, l’unico che avesse deciso di non recidere, con un passato ormai ripudiato.
Tuttavia questo ha un’importanza relativa, fomenta le sua volontà di rivalsa, ma viene plasmato in forza del Giuramento. Perché in Lestanórë si cela un Re che conserva l’eredità di due ladri e tanto deve bastare.
Il resto è il vento che aizza i marosi di sentimenti torbidi, viscerali. Sentimenti in cui lui stesso non vuole addentrarsi.
E se yéni2, vite prima, si distoglieva da essi ricorrendo le ombre acquoree della Foresta, ora guarda la sua, di ombra, e la immagina tendersi in aule opulente, purificate dal sangue.
Sorride a un simile pensiero, perché sente la voce scettica eppure compiaciuta di suo fratello echeggiare nella propria mente3. Sei la solita belva, hánonya4.
Le piastre dell’armatura stridono, quando alza lo sguardo verso la schiera guidata da Curufinwë. Lo vede là, alla testa dei suoi guerrieri: è solo una sagoma in lontananza, ma lui riesce comunque a scorgere il pallore del suo viso, di quei tratti che tanto gli sono cari.
Lo guarda e ricorda la notte passata a vagliare la piana immobile dell’Estolad, ad ascoltare il lamento del vento che lambiva i drappi della tenda, insinuandosi fra le sue fessure.
Solo un lume in quell’eremo cupo, una lampada a olio che diffondeva un bagliore serico. Un alone dorato a galleggiare nel buio, a dividerli.
Poteva indovinare la figura di Curufinwë seduto oltre il lume, non lo vedeva chiaramente ammantato com’era di oscurità, ma riusciva a distinguere pennellate del suo viso. Tratti sfuggenti che quel singulto di luce faceva emergere dalle tenebre, velandoli di sfumature auree.
Il suo volto era immobile, scolpito nelle ombre, eppure Tyelkormo vi aveva scorto l’accenno di una quiete inusuale. Le labbra socchiuse, la mandibola distesa, lo sguardo sospeso tra il vuoto e la lampada: vi era qualcosa di onirico e terribilmente intimo nel modo in cui suo fratello si abbandonava, sereno, all’oblio dell’oscurità. Una fiducia infantile che lui non avrebbe mai creduto di rivedere.
Così gli parve di avere ancora dinnanzi a sé quel bambino che con indolenza lo seguiva per i sentieri mai battuti, lungo guadi senza nome. Uno sbuffo quando la strada percorsa diventava troppa, ma mai la richiesta di fermarsi.
Era Tyelkormo a insistere affinché respirasse aria fresca oltre a quella viziata delle fucine, affinché memorizzasse le proprietà delle piante oltre al grado di fusione dei metalli, i nomi degli uccelli oltre a quello degli elementi chimici. Curufinwë storceva il naso in un’espressione squisitamente indignata: Atto5 mi spiegherà tutto quando andremo in viaggio, diceva. E Tyelkormo non aveva mai ribattuto che in quel campo, per quanto potesse sembrare strano, era lui ad avere più conoscenze di loro padre.
Si limitava a ridacchiare, schernendo Curufinwë per la sua titubanza nei confronti di Huan, che andava e veniva come una presenza ferale evocata dalla foresta stessa.
Eppure vi erano stati momenti in cui anche suo fratello era sembrato affidarsi alla protezione intessuta da quelle fronde.
Lo ricordava addormentato in una radura, i tratti infantili permeati dell’ulteriore morbidezza del sonno, i capelli intrecciati a fili d’erba che lui, più tardi, avrebbe sfilato con inusuale pazienza.
Curufinwë appariva sereno, proprio come in quella tenda, e Tyelkormo non aveva potuto che sorridere a un simile paragone.
C’è forse qualcosa che ti diverte?
La domanda di suo fratello aveva attraversato le ombre, solcando la flebile aura della lampada per giungere a lui, roca e ovattata da quello spazio contratto. Parole che divenivano ponte fra realtà inconciliabili, fra passato e presente. Fra luce e oscurità.
Mi hai ricordato una cosa, aveva risposto, scorgendo l’inarcarsi di un sopracciglio nel chiaroscuro che modellava il viso di Curufinwë.
Per noi il ricordo non è mai un bene, Tyelko.
La voce di suo fratello era risuonata più sottile, simile al filo vacillante di una ragnatela. Allora Tyelkormo aveva teso una mano nel buio, sino ad arrivare là, dove percepiva la presenza di Curufinwë. Aveva cercato la sua mano gelida, abbandonata fra le pieghe delle pellicce, e l’aveva conquistata un po’ alla volta, dito per dito, pelle su pelle, delicatamente ma con fermezza.
Poi il vento era tornato a parlare per loro, increspando i paramenti della tenda. Fuori la notte assediava l’Estolad, dissodata dagli eserciti che la calcavano e ormai dimentica dell'antico splendore. Ma nella tenda nulla di tutto questo sembrava avere importanza.
Che il mondo si dissipasse nel Vuoto al di là d’ogni cosa o permanesse eterno e spettrale, consunto dai peccati di chi lo aveva calcato, non faceva alcuna differenza. Ciò che contava era quell’eremo in cui le ombre cullavano un seme di luce, in cui Tyelkormo poteva chiudere gli occhi e udire il respiro di suo fratello farsi un poco più pesante, il respiro del bambino che era stato durante i loro primi viaggi in Aman.
E mentre il sonno lo coglieva, inevitabile come l’eccidio affacciato al domani, nuovi ricordi guizzavano lungo le pareti della sua memoria.
Erano le ombre tese nella Foresta di Oromë, presenze che affioravano ai limi della coscienza, tra il reale e l’irreale, confondendosi con i muschi verdi dei tronchi e le loro cortecce umide. E là, dove la vegetazione si faceva più fitta e il riverbero di Laurelin scemava nell’oscurità, Oromë attendeva, immobile, come un gigantesco predatore in agguato. I suoi occhi esiziali fendevano la bruma trasudata dal suolo, gialli e piretici registravano ogni movimento, ogni respiro.
Perché la caccia era una stasi liturgica, scandita da azioni inconsulte, fugaci, violente. E Tyelkormo ne avvertiva l’impulso ancestrale fin sotto pelle.
Sei nato per questo, seldonya6.
Era il sussurro di Oromë alla sua anima, la seduzione della Foresta stessa.
Ma poi le ombre si confondevano e le voci mutavano; gli olvar7 di Yavanna divenivano pietra, fusti di colonne marmoree. Il chiarore di Laurelin dilagava fra le arcate di bianchi palazzi. E suo padre scendeva le scalinate della Mindon Eldaliéva coronato da una luce limpida e totalizzante, come se il firmamento intero gli si fosse posato sul capo. Il suo viso era sublimato da quel bagliore, mentre la sua voce si levava perentoria: Saremo liberi, diceva. Liberi dai dogmi dei Valar, padroni di noi stessi.
Infine anche quella luce si spegneva e oltre di essa Tyelkormo scorgeva i volti dei suoi fratelli, tutti e sei, in un mosaico di ciò che erano e di ciò che erano stati.
Tornavano le ombre, ma non appartenevano alla Foresta, erano gelide come il ripianto e assediavano i ricordi più antichi, più felici. Lui riusciva a coglierne meri accenni: la nascita dei suoi fratelli minori, un bagno nella Baia di Eldamar, una ridicola danza con Irissë, il sorriso di suo madre, le prime parole di Tyelperinquar.
Solo Curufinwë emergeva distintamente da quel coacervo di memorie; solo lui non appariva troppo distante.
Si era sposato da pochi giorni e camminava al suo fianco, carezzando gli steli d'erba che sussultavano al loro passaggio. Lui lo aveva sottratto alla tetraggine della forgia, a loro padre, alle attenzioni della sua sposa. Un sorriso enigmatico in risposta a ogni domanda, mentre Curufinwë lo scrutava con sguardo scettico.
Riguarda il regalo di nozze che ancora non ho avuto modo di mostrarti, aveva detto Tyelkormo infine. E anche se lo scetticismo era sembrato acuirsi, suo fratello lo aveva seguito in silenzio.
Si erano addentrati nella foresta, sotto cupole di rami e foglie, oltre cui si scorgevano solo lembi di cielo. E in quella conquistata oscurità, quando suo fratello aveva accennato a lamentarsi, Tyelkormo lo aveva anticipato: Chiudi gli occhi, Curvo. E dammi la mano.
Curufinwë aveva emesso un sospiro seccato, ma poi aveva acconsentito. Si era lasciato guidare da lui, per mano, come da bambino non gli aveva mai permesso di fare, e Tyelkormo aveva regalato il proprio sorriso alla foresta.
Aveva condotto suo fratello tra grovigli di piante antichissime, dove un avvallamento ricoperto di muschi sprofondava nelle ombre. Lì, dal suolo buio, si levavano una miriade di lucciole: una pioggia di baluginii che procedeva al contrario, risalendo il cielo invece di discenderlo. Una pioggia che sembrava sprigionata dalla vegetazione stessa, quasi ne fosse un’emanazione, il suo fëa8 rivelato.
Tyelkormo aveva invitato Curufinwë ad aprire gli occhi e li aveva osservati sgranarsi, mentre le iridi s'imbevevano d'oscurità per poi rischiarasi al bagliore delle lucciole.
Un regalo ben più sorprendente di qualsiasi gemma, dico bene?
Ora non esagerare, aveva sussurrato suo fratello, quasi temesse di disturbare le giravolte delle lucciole.
Poi i loro sguardi si erano incontrati e insieme avevano sorriso: quello scrigno di rami e foglie sembrava contenere l’essenza dell’universo. Le tenebre tutt’attorno erano il Vaiya, l’oceano nero oltre l’esistenza, e loro, coronati da quel firmamento di lucciole, erano Arda stessa.
 
 


Il vento che spira da est è una lama sul viso e lui stringe le dita attorno alle briglie della propria cavalcatura. Dinnanzi al suo sguardo la piana dell’Estolad si dispiega come un mare erboso sino al corso del Celon: l’ultima, vera, cinta che li separa da Lestanórë. Dal loro Silmaril, dalla loro vendetta.
Tyelkormo assottiglia lo sguardo per sondare l’orizzonte, e l’aria gelida sembra già permearsi dell’odore di sangue.
Un cavaliere galoppa al suo fianco; nonostante l’elmo che indossa lui può riconoscere lo sguardo smeraldino di Ilwaráto, uno sguardo in cui scivolano le ombre di una Foresta mai dimenticata.
Tyelko… Condonya9, si corregge subito Ilwaráto, assaporando un titolo che suonerà sempre alieno sulle sue labbra. Poi, prima di aggiungere altro, gli sorride come sorrideva al di là del Mare, quando ormai la preda si era tradita e loro tendevano gli archi, pronti a scommettere su chi per primo l’avrebbe trafitta.
Condonya, ripete mentre i suoi occhi scintillano. Sei pronto a prenderti ciò che ti spetta?
Tyelkormo solleva il capo per cercare la figura di Curufinwë alla testa dei suoi cavalieri. Ne carezza il profilo con lo sguardo e infine torna a rivolgersi  all’orizzonte, a quella foresta così diversa che costella le rive del Celon.
Sorride, passandosi la lingua sulle labbra screpolate dal gelo, e il suo sorriso racconta di una promessa sanguigna, confusa tra le ombre e le luci di un’eternità sprecata.
Lo sono.
 
 
 
 
 
 








 
Note:
1 - Termine Quenya per indicare il Doriath, qui lesta assume il significato di “cinta”/“recinzione” e non “misura”.
2 - (Q) Plurale di yén, lett. “lungo anno”, in realtà un periodo di centoquarantaquattro anni solari. Può concettualmente sostituire il nostro “secolo”.
3 - Riferimento all’ósanwe, “scambio di pensiero” che le creature di Arda, in particolar modo gli Eldar, sono in grado di esercitare.
4 - (Q) Lett. “fratello mio” (háno “fratello” e -nya “mio”)
5 - (Q) Alternativa informale del termine atar, “padre”; potremmo tradurlo con “papà”.
6 - (Q) Lett. “ragazzo/bambino mio”
7 - (Q) Lett. “cose che crescono con radici nella terra”, la parola adottata da Yavanna per indicare le sue creazioni.
8 - (Q) Lett. “spirito” contrapposto allo hröa, il corpo in un’eccezione un po’ più vasta.
9 - (Q) Lett. “mio principe/signore”
 
 
Il personaggio menzionato alla fine della storia è di mia invenzione, un amico di vecchia data di Celegorm, nonché uno di quei “crudeli servitori” che abbandoneranno Elurín ed  Eluréd nella foresta per vendetta. E per una neanche troppo sottile ironia il suo nome, Ilwaráto, è composto dai termini ilwë “cielo” e arata  “alto/nobile/altero”  (più il suffisso maschile –o). È un personaggi su cui rifletto da tempo, perciò tenevo ad inserirlo in questo contesto. Spero non abbia dato troppo “fastidio”.
 
 
Concludo ammettendo la mia ossessione per Celegorm e Curufin, ossessione che mi porta a scrivere cose inutili come questa e ad eludere ciò che accade nel Doriath (perché tanto non accade nulla, no?).
Poi mi rendo conto dell’assurdità di questo scritto, sostanzialmente un insieme di flashback all’interno di un altro flashback. Il fatto è che mi diverto ad “arrendermi” al fluire della coscienza di Celegorm (?). Spero comunque che il tutto non sia risultato troppo confusionario.
 
Grazie per aver letto.

 
 
   
 
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Il Signore degli Anelli e altri / Vai alla pagina dell'autore: Ghevurah