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Autore: Barbara Baumgarten    25/10/2015    0 recensioni
Os scritta per il contest "Trailer di carta" di Deidaradanna. Resoconto, sotto forma di diario della mia avventura in Oblivion.
Genere: Avventura, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~~Non so spiegare come giunsi a chiudere le porte dell’Oblivion. Ci riuscii e basta. Oggi, a distanza di molti anni da quell’ultima battaglia, ho deciso di scrivere la mia storia. Non sono una persona speciale, non ho doti particolari e, anzi, per lo più nella vita ho fatto scelte sbagliate. Ma il Fato, insondabile, ha deciso per me, inviandomi nelle braccia dell’immortalità.
Il mio nome è Ayrin, sono un elfo dei boschi, una ladra, un’assassina e, chissà perché, l’eroina che chiuse i cancelli di Oblivion.


Un bagliore, via via sempre più nitido mi segnalò l’uscita dalla Fogne. Procedevo cauta, con l’arco tenuto fra le mani, le nocche bianche per la presa ferrea. Un cancello mi separava dall’aria fresca che avvertivo flebile sulla mia bianca pelle. Inspirai: odore di libertà. La veste rossa mi impacciava nei movimenti, ma era l’abito che ero riuscita a strappare dal corpo esangue di un uomo che, poco prima, aveva cercato di uccidere l’imperatore. Misi una mano sul freddo metallo arrugginito e uscii. L’aria mi riempì i polmoni e respirai a fondo, lasciando che la leggera brezza del lago mi rinfrescasse le membra stanche. Era notte e il cielo era uno spettacolo. Decisi di lasciarmi alle spalle l’accesso alle Fogne, prima che qualcosa o qualcuno, potesse raggiungermi. Dubitavo che ciò sarebbe accaduto: non avevo lasciato nessuno vivo. Ma la prudenza non era mai troppa. Camminai furtivamente lungo il piccolo molo, guardandomi attorno: davanti a me vi era uno specchio d’acqua cristallina e, sulla sponda opposta, le rovine di un tempio. Non sapevo dove fossi, con esattezza, e non avevo nemmeno pianificato un singolo istante della mia vita, dopo essere stata rinchiusa, mio malgrado, nelle carceri. Ancora oggi, quando ripenso alla mia vita, mi scopro sorridere: è incredibile come fatti, apparentemente slegati fra loro, compongano in realtà una fitta trama, che sembra intrecciata a nostra insaputa. Mi trovavo nella Città Imperiale, quando le guardie mi arrestarono. Venni coinvolta in un arresto di massa di ladruncoli al soldo di Volpe Grigia. Per la prima volta, forse, ero innocente, ma nessuno volle ascoltare le lamentele di un elfo, catturato con un quantitativo di monete tale, da potersi comprare l’intero negozio La caraffa d’orata. Soprattutto se qualche giorno prima si era intrufolata davvero a La caraffa d’orata per fare scorte gratuite di pozioni. Così, mi ritrovai in cella. Poi, un giorno, l’Imperatore in persona, seguito dalle Blades, mi diede la possibilità di fuggire e non solo… mi diede l’amuleto, chiedendomi di prendermene cura consegnandolo, al più presto, a Jauffre. Ecco come mi ritrovai fuori dalle Fogne e con un grosso amuleto nella tasca della tunica.

Quando giunsi sulla sponda delle rovine, mi accorsi immediatamente di alcuni briganti che pattugliavano la zona. Per una ladra come me, non c’era situazione più allettante: se facevano la guardia a qualcosa, doveva essere di estremo valore. Ma l’amuleto, in tasca, pesava. Non sono mai stata una donna dai saldi princìpi morali, per lo più, ho sempre creduto nel mio interesse. Ecco perché venni cacciata dal mio villaggio e perché dovetti imparare molto presto a cavarmela da sola. La voglia di esplorare le antiche rovine, mi accompagnò per il resto del lungo viaggio che feci per raggiungere Jauffre. Sapevo che sarei tornata indietro e che avrei dato una sbirciatina al tempio. Ma ancora oggi, mi chiedo cosa sarebbe accaduto se vi fossi entrata invece di portare l’amuleto a destinazione. Probabilmente, non avrei mai saputo dei cancelli di Oblivion, né dell’esistenza di Martin. Eppure…
Ricordo ancora, come fosse accaduto ieri, la sensazione di terrore che mi pervase, di fronte al cancello nei pressi della cittadina di Kvatch. L’aria era intrisa di fumo, mentre il cielo stesso sembrava avvolto dalle fiamme. La gente scappava dalla collina, esattamente dal luogo verso cui ero diretta. Io, con il mio arco e con le rudimentali conoscenze della magia, mi ritrovai, per la prima volta, faccia a faccia con l’immonda realtà parallela dell’Oblivion. Una torre si ergeva nel mezzo di una landa lavica, pattugliata da creature mostruose, a capo delle quali si trovavano i Daedra: demoni dalla pelle rossa e dalle dimensioni massicce, che brandendo mazze, avevano il solo scopo di uccidere a vista. Rischiando la mia stessa vita più volte, dovendo ricorrere ad un blando incantesimo curativo per sopravvivere, riuscii a chiudere quell’inferno, togliendo la Pietra del Sigillo. Credetti di aver finito. Per un attimo, mi convinsi che la mia dose di buone azioni si fosse conclusa. Mi sbagliavo: ero solo all’inizio.

Come in un turbine, mi ritrovai catapultata in una serie di avvenimenti che mi allontanarono sempre di più da quella vita da ladruncola, che avevo vissuto fino a poco prima.
Capii immediatamente che qualcosa di grande, enorme, si sarebbe abbattuto su di me nell’istante stesso in cui Martin mi rivelò la necessità di chiudere quelle bocche infernali, i cancelli dell’Oblivion. Come ho già detto, non sono mai stata una di quelle persone sulle quali si poteva fare affidamento. Ho sempre preferito il mio interesse personale, piuttosto che quello della collettività e, per questo, ignorai la richiesta di Martin per lungo tempo. Pensavo, non senza grande errore, che più mi fossi tenuta alla larga dall’Oblivion, più il Fato si sarebbe dimenticato della mia esistenza. Così, decisi di continuare la mia vita, finendo in guai sempre più grossi.
Come la notte nella quale stavo camminando nei pressi Bruma, una città situata a Nord, ricoperta perennemente da uno strato di gelida neve, e vidi un uomo, corazzato, che procedeva nella mia direzione. Ovviamente lui non avrebbe potuto vedermi, nascosta com’ero dall’oscurità e dalla vegetazione, tuttavia mi sentii in pericolo. Ancora oggi non saprei dire se fosse lo stress degli ultimi giorni o, semplicemente, la stanchezza, fatto sta che presi bene la mira e gli conficcai una freccia con una precisione tale, da ucciderlo sul colpo. Lì per lì fui soddisfatta e continuai la mia camminata, dopo aver accuratamente esaminato gli oggetti dell’incauto esploratore e preso ciò che ritenni più utile. Ma le cose accadono sempre per un motivo e lo imparai a mie spese. Giunta presso una taverna, decisi di trascorre la notte in una stanza. Nel cuore della notte, un’ombra si fece strada fin nella mia camera e mi svegliò. Ricordo che misi a fuoco una figura incappucciata, nera che mi osservava. Ciò che mi disse, mi lasciò senza fiato: mi invitò ad unirmi alla Gilda degli Assassini. Avevo ucciso un uomo innocente e lo avevo fatto a sangue freddo. Mi sentii dannata per il gesto, non mi diedi pace. Avevo ucciso. Impiegai diverse settimane prima di accettare il fatto che, ormai, ero un’assassina e recarmi alla Gilda. Non posso rivelarvi il sito, sebbene siano anni che non frequento più quelle persone, ne andrebbe della mia stessa vita: non sono persone che lascerebbero correre.
Così, dopo essere stata una ladruncola occasionale, divenni un’assassina di professione. Uccidevo dietro compenso e, a mano a mano che lo facevo, mi pesava sempre meno. Era strano, sembrava che mi fossi liberata dai sensi di colpa. Ovviamente, l’idromele e la skooma mi aiutavano parecchio, ma qualcosa si era rotto, in me. Non solo portai a termine le tantissime missioni che, di giorno in giorno, mi venivano date, ma giunsi, addirittura, ad uccidere molti membri della Gilda stessa. Ricordo ancora la tensione dei muscoli, i nervi tesi e il sudore freddo che mi bagnava la fronte, mentre uccidevo i miei compagni. Dopo quello scempio, capii che dovevo cambiare aria. Presi il mio cavallo e vagai senza meta, per mesi interi. Avevo soldi a sufficienza per vivere e una mira tanto buona da permettermi carne fresca ogni giorno. Ero uno spettro e non solo in senso metaforico. Mi vergogno quasi a raccontare questo, ma sono qui e ciò basta per darmi la forza di fare, per una volta, la cosa giusta. Nella Gilda degli Assassini scesi a compromessi con il diavolo stesso. La mia fame di grandezza mi spinse oltre i limiti della Natura e divenni un vampiro. Così aggiunsi maledizioni su maledizioni, condannandomi ad una mezza esistenza, in attesa di una cura. Imparai presto che la luce del Sole mi era nemica e che dovevo muovermi solo di notte. Cercai di sopravvivere, cibandomi di barboni e confidando nel fatto che avrei trovato il modo di tornare normale. Invano. Sebbene, infatti, conobbi una donna che mi svelò la possibilità di cancellare la mia maledizione, non sono mai riuscita a trovare l’occorrente per fare la pozione. Ahimè, ancora oggi combatto contro il vampirismo che mi incatena ad una vita che mi avrebbe restituito alla terra già da molti anni.
Ecco allora che, la giovane ragazza uscita dalle prigioni divenne presto un’assassina e una vampira. Ma la mia anima nera, richiamava il Male come le corolle richiamano api. Caddi sempre più in basso, tanto che nemmeno mi ricordavo più dell’Oblivion. Uccidevo solo se capitava ma iniziai a rubare, sempre più spesso. Ero, in un certo senso, tornata alle mie origini.
Un giorno, mentre camminavo nella Città Imperiale, un giornale mi volò davanti al volto, recando la notizia di Volpe Grigia. Non so perché pensai di mettermi alla ricerca del capo dei Ladri, ma lo feci. Con successo. In realtà, non fu difficile trovare informazioni su Volpe Grigia, anzi, con qualche moneta i senza tetto delle città rivelavano qualsiasi cosa. Così, la vampira assassina divenne ladra di professione. Non ho ricordi felici, eccezion fatta per uno: quando derubai quel vile di Umbacano. Ah, fu un vero spasso intrufolarmi nella sua sontuosa dimora a Talos e rubare tutte le statue e i manufatti di Ayleid che possedeva. In realtà, non credo che fosse un vero e proprio furto, visto che rubai cose che io stessa gli avevo procurato. Ad ogni modo, fu divertente. Molto.

Ecco dunque, riassunta, la mia vita. Una vita di errori e sangue, di pentimento e rancore. So che la chiusura dei cancelli non redimerà mai la mia anima e che, per quanto io ci abbia provato, non sarò mai degna di ammirazione.
Ricordo con orrore le orde di demoni che venivano vomitate dall’Oblivion, quel giorno nella radura. Rimasi qualche istante ferma, immobile, cercando una via di fuga. Dovevo proteggere Martin, ma cercavo di scappare. Poi, ciò che tutti chiamano coraggio e che io credo fosse pura follia, mi ha spinta a combattere. Evocavo e lanciavo frecce, mi curavo e ricominciavo daccapo. Furono ore, giorni, di sofferenza. Alla fine di tutto, quand’anche il corpo sembrava cedere sotto il peso della stanchezza rimasi lì, assieme ai pochi sopravvissuti, circondata da corpi esangui e fumo, ad ammirare il sacrificio di Martin. Mi ritirai a vita privata, se così si può dire, andando a vivere nelle regioni a nord di Chyrondill, a Skyrim. Sono trascorsi molti anni da allora, anni durante i quali non ho mai smesso di cercare di farla finita, senza successo. Sono troppo codarda per uscire alla luce del sole e morire così, come il mostro che sono. Eppure, ieri è accaduto qualcosa di diverso, qualcosa che mi ha dato nuova linfa vitale, nuova voglia di mettermi in gioco. Ero nel mio piccolo orto che raccoglievo le verze alla luce della luna, quando un tuono echeggiò nella valle. Erano i Barbagrigia. Il nostro mondo ha di nuovo un Dovahkiin. Credo che vivrò abbastanza per gustarmi anche questa battaglia.

   
 
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