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Autore: M4RT1    26/10/2015    2 recensioni
C'era un ragazzino nell'ufficio, più o meno della sua stessa età. Dal pavimento su cui era scivolato, Stiles riusciva a vedere bene il suo viso, lo sguardo basso: aveva un imbarazzante caschetto di capelli castani e occhi scuri piuttosto tristi. Le sue mani erano intrecciate attorno a un oggetto cilindrico blu, una specie di bomboletta spray, e indossava una grande felpa della Marvel. Chiunque fosse, non aveva l'aria felice.
[...]
"Io sono- sono Scott. Scott McCall."

Quello che successe prima del morso.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Melissa McCall, Sceriffo Stilinski, Scott McCall, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Chinese whispers
 
Prologue
 
E' il tempo che si è perduto per una persona a determinare la sua importanza.


 
A Fabiana (detta Fabyyy), che ha letto questa roba per prima.
A Barbara, che mi ha suggerito il titolo.

Una calma innaturale era calata sul cielo grigio e carico di elettricità: incombeva sui passanti, riempiva ogni spazio e fessura, si insinuava tra le sciarpe e i maglioni provocando la pelle d'oca agli incauti che avevano scelto di evitare un'ulteriore maglietta. Il grigiore era tale che alle cinque fu necessario accendere le luci per continuare a scrivere. Gli alberi si agitavano come dannati, proiettando ombre inquietanti sulle auto in sosta e producendo un lugubre fruscio.

Il venerdì era sempre un giorno piuttosto fiacco sul fronte lavorativo, alla stazione dello Sceriffo di Beacon Hills. Quel pomeriggio di metà gennaio, tuttavia, si era rivelato così privo di impegni che gli agenti in servizio erano stati costretti a rispolverare vecchi faldoni da catalogare pur di tenersi occupati. 

Il vicesceriffo Stilinski sedeva alla sua scrivania, intento a compilare gli ultimi fogli della giornata. "Sta arrivando un temporale" constatò, guardando fuori. Nonostante il turno poco impegnativo, aveva l'aria stanca di chi ha trascorso una notte insonne e la stessa camicia stropicciata del giorno precedente. Un paio di profonde occhiaie completavano la sua espressione distrutta. Accanto a lui, un ragazzino sui sei anni era impegnato a timbrare più volte un foglio vuoto.

"Hai sentito, Stiles?" domandò l'agente, voltandosi verso suo figlio. "Sta per piovere, dobbiamo andare."

Il bambino sembrò piuttosto incuriosito da quell'affermazione, tanto che smise momentaneamente di premere con forza il timbro sull'inchiostro e spostò lo sguardo sull'uomo."Come fai a sapere che tempo fa?" chiese, curioso. Nell'osservarlo, il padre si rese conto di una macchia di inchiostro sulla vecchia tshirt di Disneyland che indossava. "Hai un- un-" si sforzò di ricordare il termine adatto. "Un salletile?

"Nonostante tutto, il vicesceriffo rise. "Un satellite" lo corresse. Non era inusuale che il figlio provasse a ripetere parole sentite dagli adulti, spesso con risultati pessimi. "E comunque no, non abbiamo satelliti" aggiunse, consapevole del fatto che Stiles non si sarebbe arreso così presto.

"E allora come fate a conoscere il tempo?" domandò infatti, di nuovo. Aveva ripreso a imprimere la scritta "Polizia di Beacon Hills" sul foglio A4 rubato alla stampante, ora con meno forza di prima. Due ore trascorse in quel modo lo avevano annoiato, probabilmente, o forse era semplicemente stanco. Eppure, la sua iperattività lo costringeva a continuare a muoversi, in quel caso timbrando ripetutamente la carta e, contemporaneamente, tirando un lembo della giacca del vicesceriffo attirandone l'attenzione.

"E' come quando arriva la neve" spiegò allora l'uomo, trattenendo a stento uno sbadiglio. "Una sensazione, come se-" si interruppe di colpo, gli occhi che ruotavano automaticamente dal figlio alla finestra chiusa. Il cielo, che fino a poco prima era grigio, si illuminò per qualche istante di un bagliore bianco. "Dobbiamo andare, forza" ripeté.

Questa volta, Stiles si alzò, rassegnato: non aveva alcuna voglia di tornare a casa. Preferiva l'ufficio di suo padre, dove c'era quella ragazza che lo aiutava a fare i compiti e gli comprava la cioccolata calda alla macchinetta, e comunque ormai pioveva forte e non voleva bagnarsi. E poi c'era la faccenda della casa vuota, certo, dove nessuno avrebbe cucinato e acceso i riscaldamenti in tempo per accoglierlo nel tepore di una stanza allegra. Così, quando furono all'ingresso, il bambino si bloccò. "Papà" chiamò, un po' titubante. "La mamma non vuole farmi uscire senza cappello."Il vicesceriffo esitò, la mano già sulla maniglia. Il figlio era ben infagottato in un pesante cappotto blu, e in fondo non faceva così freddo, eppure la voce di sua moglie sembrò giungergli forte e chiara: "Vuoi farlo ammalare? Poi lo sopporti tu quando pretende di leggere tutto il foglio illustrativo dell'antibiotico!" Così, sospirò.

"Prendi il mio" disse in fretta, calcandogli un berretto rosso sulla testa. Il temporale si stava avvicinando, così soffio via un ciuffo di capelli che pendevano sulla fronte del bambino e lo prese per mano, correndo fuori.Il vento soffiava forte sul parcheggio asfaltato, illuminato a giorno dai fulmini. Il cielo era squassato da tuoni poderosi, la pioggia scrosciava a fiumi dal tetto e scendeva come una cascata proprio all'ingresso. Una volta sulle scale martoriate dall'acqua, il vicesceriffo esitò. "Ho dimenticato l'ombrello in ufficio" sospirò, stanco. Si voltò verso Stiles, che attendeva pazientemente, e gli porse la domanda che avrebbe cambiato per sempre la sua vita: "Ti va di correre a prenderlo?"

***

Quando Stiles tornò dentro, la stanza era vuota e buia. Gli agenti erano tutti andati via, sfilando uno dopo l'altro sotto la pioggia ormai torrenziale ed entrando in auto, diretti a case in cui c'era qualcuno ad aspettarli. Solo lo Sceriffo era ancora in ufficio.

Era un uomo strano, lui. Stiles lo aveva visto solo poche volte, eppure si era fatto un'idea ben precisa del capo di suo padre: era un uomo all'apparenza gentile, disponibile, eppure si rivolgeva sempre sgarbatamente ai suoi sottoposti e urlava spesso al telefono. Da quel comportamento, Stiles aveva dedotto che la gentilezza era probabilmente falsa, un po' come quando la sua mamma sorrideva ai vicini ma in realtà li detestava. Eppure, forse per quell'aria distinta che gli conferivano le camicie stirate e le cravatte dai colori sobri, il bambino era sempre stato attratto dalla possibilità di rivolgergli la parola.

Proprio per quel motivo, una volta nell'ufficio del padre, prese in fretta l'ombrello e corse fuori per poi fermarsi esattamente davanti alla prima porta a destra: uno spiraglio di luce proveniva da dentro, misto al rumore della pioggia e alla voce dell'uomo.

"Ho capito, Melissa" stava dicendo con quel timbro marcato. "Lo terrò con me fino a stasera. Va bene. Ne parliamo a casa."

Stiles avrebbe dovuto andarsene. Suo padre era sotto la pioggia, e comunque aveva promesso alla mamma di non cacciarsi nei guai mentre era via. Eppure, l'occasione era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Mosse un piccolo passo in avanti, poi un altro, poi un terzo. Al quinto arrivò a toccare la porta con la mano e la spinse quel che bastava per dare un'occhiata all'interno: l'ufficio era enorme e arredato con cura, i mobili di legno lucido totalmente diversi dalla plastica di quelli degli altri agenti. A terra c'era perfino la moquette. Di fronte, seminascosto ancora dal legno della porta, lo Sceriffo era al telefono.

"Non sto dicendo questo!" gridava, ora. Stiles osservò il suo braccio sinistro compiere dei gesti in aria, come se stesse mimando qualcosa. La sua camicia era bianca e stirata. "Non ho voglia di discutere, adesso. Ne parliamo a casa, ti ho detto, ora ho da fare."

Eppure, la scrivania davanti a lui era sgombra e tutti erano via, il turno ormai concluso. Quindi aveva detto una bugia. Perché lo Sceriffo avrebbe dovuto mentire? Non era il capo? Non poteva fare quello che voleva? Erano troppe domande per essere lasciate irrisolte a vagargli nel cervello quella notte, quando si sarebbe messo a letto, così Stiles si fece coraggio e sbirciò dentro.

Lo Sceriffo era seduto e aveva l'aria arcigna, come una vecchia strega. Ma non fu questo a sconvolgere il piccolo al punto da farlo inciampare nei lacci sciolti delle Converse e farlo capitombolare all'interno: fu il bambino.

"E tu che ci fai qui?"

C'era un ragazzino nell'ufficio, più o meno della sua stessa età. Dal pavimento su cui era scivolato, Stiles riusciva a vedere bene il suo viso, lo sguardo basso: aveva un imbarazzante caschetto di capelli castani e occhi scuri piuttosto tristi. Le sue mani erano intrecciate attorno a un oggetto cilindrico blu, una specie di bomboletta spray, e indossava una grande felpa della Marvel. Chiunque fosse, non aveva l'aria felice. "Ciao!" esclamò Stiles, rialzandosi. Si spazzolò i jeans con le mani, pulendoli dalla polvere, poi tese una mano bagnata e appiccicosa al ragazzino che gli stava di fronte.

"Mi chiamo Stiles, tu chi sei?"

L'altro sembrò incerto su cosa dire. Il suo sguardo incrociò quello dello Sceriffo e Stiles lo colse a scuotere impercettibilmente la testa.

"Io sono- sono Scott. Scott McCall."

McCall. Scott McCall. Sceriffo McCall. Il bambino impallidì.

"Quindi tu sei- cioè, lui è... insomma, siete parenti?"

"Sì, sono suo figlio."





N.d.A.: La citazione iniziale è tratta dal "Piccolo Principe".


 
  
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