“Calma piatta e mari in tempesta”
di Lilly81
Far
tremare la terra, dissolvere le nuvole, ribollire il mare, contrastare e
dominare le forze della natura, contravvenire alle leggi gravitazionali, far
deflagrare pianeti, deciderne le sorti, conversare con gli dei, sconfiggere
demoni, morire e poi risorgere: i saiyan erano già
divinità e neppure lo sapevano.
Non
bastava questo, tuttavia, a compiacere l’eterna competizione di quell’alieno,
né a lenire la frustrazione che risaliva a galla, come un cadavere tra le onde,
alla fine di ogni scontro.
Non
proprio quel giorno e non su quell’oceano.
Sotto
un cielo stellato, di una bellezza da mozzare il fiato, i pensieri di un uomo
qualunque si sarebbero dipanati su sentieri più tranquilli. Qualcuno avrebbe
scritto poesie, qualcun altro avrebbe cercato una stella, altri si sarebbero
beati di quell’immenso, altri ancora avrebbero chiuso gli occhi ed assaporato
il sapore del mare.
Lui,
che poteva mettersi in tasca la profondità degli abissi e nelle scarpe la vastità del cielo, standosene ritto come
una statua votiva su quel terrazzino sospeso nel vuoto, era tradito, niente
meno, dall’esangue riflesso della luna tra lo sguardo inquieto e la mascella
indurita.
Irruente
per natura e bastonato nell’orgoglio da certi fatti della vita, Vegeta non
possedeva l’imperturbabilità degli dei e non l’avrebbe mai posseduta, per cui, accanto
alla ringhiera in ferro, ristabilite le dimensioni del mare e della terra -
giacché di tasche e di scarpe non ne aveva in quel momento - pure lui pareva da
vicino un uomo qualunque, ma col cipiglio di quei sognatori tormentati e poeti
maledetti.
Il
dorso nudo, già di suo sfregiato, fu tagliato in due dalla luce comparsa
d’improvviso alle sue spalle.
Bulma
avanzò a piedi scalzi ed aprì la porta finestra.
“Vegeta”,
mormorò assonnata. “Ma da quanto tempo sei qui fuori?”.
Un
venticello, insidioso e del tutto inaspettato, approfittando della mancanza del
consueto foulard, l’aggredì diritto alla gola, e a poco servì stringere un
lembo della scollatura.
Così,
tornò indietro e la prima cosa che trovò a tiro per mettersi sulle spalle, a mò di sciarpa, bella calda, fu la battle
suit, sprovvista di corazza, lasciata da Vegeta su un
pouf accanto al letto.
Il
suo tessuto elastico, appositamente brevettato da lei per essere confortevole
in qualsiasi stagione dell’anno, non solo era più costoso di qualsiasi altro griffato
sul mercato, ma all’immediato contatto con la pelle tirava la media tra la
temperatura corporea e quella esterna e si adattava di riflesso, in barba alla
lana nei capotti o ai filtri anti uv delle creme
solari.
In
una presunta etichetta, di quelle che spuntano nella fodera interna all’altezza
dei fianchi, si sarebbe letto che di quella stoffa solo il 40% era di manifattura
terrestre: 20% cotone e 20% poliestere, lavabile
in lavatrice a 60°, centrifuga e asciugatura normale, non candeggiare, non
stirare.
Per
il restante 60%, poteva essere smacchiato anche nella lava di un vulcano ed
uscirne indenne.
Il
costo di produzione equivaleva ogni volta a quello di un air-car, per cui bastavano
un paio di cassetti per fare del guardaroba di Vegeta un salone d’esposizione.
La
cabina armadio di Bulma, tra cappotti, scarpe e borsette
firmate, era in confronto un ripostiglio di vecchie cianfrusaglie in fondo al
corridoio.
In
ogni caso, era la prima volta che la scienziata ne faceva un uso personale,
riducendola ad un cencio da mercatino dell’usato.
“Come
fai a startene qui fuori così? Sei matto?”.
No,
non era matto - la fissò con ovvietà,
voltandosi - ma era un saiyan ed un saiyan poteva permettersi di starsene lì fuori con addosso
un paio di slip neri, senza rabbrividire per la brezza - pure questa era
un’altra delle loro prerogative ultraterrene - e farlo in assoluta privacy,
considerato che, lì dove si trovavano, all’ultimo piano, avrebbe potuto
sorprenderlo soltanto qualcuno piombato dal cielo.
“Che
ore sono?”, le chiese.
“Le
quattro”.
Per
la precisione le quattro e cinque minuti, ma a quell’ora della notte non faceva
differenza.
“Tutto…
tutto ok?”, chiese lei con l’esitazione di chi lo conosceva troppo bene.
Poteva
immaginare il suo travaglio interiore, doloroso, urlante, senza respiro, in
piena solitudine, mentre generava, a battaglia ultimata, la constatazione di
essere inciampato puntualmente, nella scala immaginaria delle sue ambizioni,
sul solito gradino più basso.
E
quel crac alla caviglia faceva male più
delle ferite aperte a sangue.
Bulma
sapeva anche questo, ma dov’era il ghiaccio per sfiammare la botta?
Non
certo a portata di mano, e neppure nel suo cuore, dove prima bastava sfiorarlo
per raggelarsi le dita.
Non
aveva tutti i torti, Vegeta, a ben pensarci: Goku si prendeva sempre il meglio
di ogni scontro, come se un intelletto superiore avesse deciso che egli era il
predestinato, o come se uno sceneggiatore avesse fatto di lui il protagonista
indiscusso di quella favola.
Non
importava che in questo racconto ci fossero altri personaggi, pure più
carismatici, perché Goku arrivava puntualmente dopo tutti gli altri, quando
questi erano già sfiancati, e sbaragliava il nemico di turno con i suoi urka, la faccia spensierata da bravo
ragazzo, ed il dono, assai raro quanto pregiato, della pace con se stessi.
Ora,
non fu per la battle suit
mortificata sulle esili spalle della donna che il saiyan
abbozzò un’espressione contrariata:
“Faresti
meglio a guardarti allo specchio”.
Istintivamente,
lei fece un passo all’indietro.
“Cosa…
cosa ho che non va?”.
E’
normale che quando una donna si alza dal letto abbia il viso struccato e la
frangetta senza garbo, ma Vegeta non era il tipo da squadrare certi dettagli e
sdegnarsi. Da questo punto di vista - e non è poco per una donna - l’ex
mercante sanguinario sapeva essere tra il più amabile dei mariti.
Oltretutto,
Vegeta conosceva talmente bene sua moglie da saperne anticipare le mosse;
perciò, pazientemente, chiuse le palpebre, mentre ella rientrava dentro ed
andava a sincerarsi davanti allo specchio delle proprie condizioni, ed attese
di sentirla urlare, come appunto avvenne.
Il
manrovescio di Lord Bills, dato con tanto di dorso, aveva
impresso sulla sua guancia destra un’ecchimosi violacea, a ricordo del suo
compleanno appena trascorso.
Il
sangue non era confluito da subito, forse tutto pompato verso l’apprensione con
cui aveva assisto alla battaglia disputata tra cielo e mare; ma con l’avanzare
delle ore, dopo il commiato pacifico da parte del dio e del suo accompagnatore
e la fine dei festeggiamenti, la pulsazione si era fatta più insistente.
Solo
adesso capiva la ragione della fitta avvertita nel soffiare la candelina - giusto una indicativa per camuffare bene il
numero dei suoi anni, su una grande torta condita di panna e fragoline di bosco
- o perché non fosse riuscita neppure a
sistemarsi sul lato destro del cuscino, quello che più le conciliava il sonno.
La
peluria da gatto antropomorfo con le orecchie di sciacallo, un po’ Sekhmet, un po’ Anubi di una
civiltà oramai estinta, non era servita ad attutire la schiocca sonora contro
il bel viso di Bulma, e Vegeta non avrebbe mai
dimenticato quel sock
per il resto dei suoi giorni.
La
distruzione della Terra, la morte di tutti ed anche la sua, non sarebbero state
niente in confronto, per lui.
L’impotenza,
all'opposto, di vedere con i suoi stessi occhi, a pochi passi da lui, quella
mano divina che si sollevava e puntava direttamente contro di lei, figurarla
già morta ancora prima di tutti gli altri e di se medesimo, anche solo per uno
scarto di minuti, lo avevano annichilito nel profondo del suo animo, laddove
non c’era orgoglio, né tormento, né competizione, ma soltanto l’innocenza dei
suoi sentimenti più umani.
E
Vegeta aveva per davvero il cuore puro, non fosse altro che l’amore di un saiyan vale più di quello di un uomo.
Da
pesare in carati, per quanti sono i suoi capelli forgiati nell’oro, perché un saiyan non è tenuto ad amare, non per la sua natura.
Calpestata
quest’innocenza, ignorata la supplica disperata, l’unica che fosse mai sfuggita
al suo orgoglio, di lui non era rimasto niente se non la furia più cieca.
Forse,
neppure per suo figlio avrebbe implorato a quel modo perché Trunks,
seppure bambino, era venuto alla luce per essere un guerriero.
Lei,
invece, era nata per destreggiarsi tra calcoli quantistici, cavicchie e
propulsori, era nata apposta per indossare una gonna e farsi spogliare da lui.
Le
sue guance potevano essere accarezzate con rudezza, sì, ma mai umiliate in quel
modo.
Bulma
ritornò fuori col passo malandato di pugile che ha appena incassato il colpo.
L’altra
Bulma, la Princess, invece,
rimessasi in viaggio già dal tardo pomeriggio, le aveva strappato la scena da
prima donna, fendendo le acque con la baldanza da bella signora, con le anche
tutte scintillanti, il passo spedito e intraprendente.
Né
la notte, né le profondità oscure le facevano paura, e le sue fiancate erano
fatte apposta per opporsi agli schiaffi spumeggianti del mare e all’azione
corrosiva della salsedine.
Quando
Bulma aveva avuto la faraonica idea di festeggiare il
suo compleanno su di una nave da crociera, nella tabella di marcia, redatta
qualche settimana prima con la scrupolosità di un tour operator, aveva incluso il
pernottamento a bordo di tutti i suoi invitati, in considerazione del rientro
in porto previsto a metà della mattinata successiva.
Lo
scontro con Lord Bills, invero, aveva fatto saltare
la capatina pomeridiana presso un’isoletta tropicale dalle spiagge bianche, ma la
torta, lo champagne, i fuochi d’artificio, i vassoi di daifuku e molte altre prelibatezze erano
stati programmati per fare il loro ingresso in scena soltanto a sera.
Dopo
l’attimo di sconforto in cui Bulma aveva pensato di
aver festeggiato il peggiore compleanno della sua vita, si era scoperto che il
personale di bordo, che stoicamente non aveva smesso di cuocere pietanze anche
nel mezzo del conflitto - manco fossero stati, per davvero, sotto il giogo di
un faraone con il nemes
a strisce - era riuscito nell’ardua impresa di salvaguardare la torta augurale
con la panna e le fragole di bosco.
Così,
il genetliaco di Bulma, talmente importante da far scendere
pure gli dei sulla Terra - guarda caso con paramenti egizi - era terminato
dignitosamente su di un tappeto da picnic tra gli applausi di tutti.
Gli
dei siano lodati! Alleluia!
Avesse
organizzato un picnic fin dall’inizio sarebbe stato meglio per tutti, e pure lo
sportello del bancomat, al saldo contabile, si sarebbe messo ad intonare tanti
auguri.
Del
resto, “Princess Bulma”,
che non voleva affatto essere un richiamo alla regalità del suo consorte,
quanto un incensamento più glorificante di se stessa, avrebbe dovuto lasciar
presagire già tutto.
Passassero
pure il bingo, il castello come secondo premio e persino Schenron,
ma a Vegeta era bastato leggere il nome di sua moglie sulla fiancata della
nave, quando l’aveva localizzata nel mezzo dell’oceano, per capire che quell’apparato
scenico tutto sarebbe stato tranne quello di una normale festa di compleanno con
le trombette ed i palloncini.
Non
era dato sapere, ahinoi, se qualcosa fosse andato già storto al momento del
varo e la bottiglia contro lo scafo fosse ritornata indietro con tutto lo
champagne, perché la nave era stata presa in affitto ed il nome appioppato all’ultimo
momento.
In
ogni caso, un compleanno così sarebbe rimasto nella memoria degli invitati
anche se fosse filato tutto liscio.
Vegeta,
il cui orgoglio da principe dei saiyan, senza scettro
né trono, impallidiva dinanzi alla facilità con cui Bulma
gestiva i proventi del suo impero aziendale, si era trattenuto a bordo, dopo il
tramonto, soltanto perché pure Goku era rimasto a galleggiare per inerzia su
quelle stesse acque, come un passeggero qualunque, come se quel giorno,
superata l’esosfera, non avesse mai contemplato la piccolezza del globo terrestre
sotto i suoi piedi.
Il
saiyan, infatti, con la bocca ancora sporca di panna
e di fragoline di bosco, con un’aria tutt’altro che divina, stava per
rincasarsene sui monti Paoz con tutta la famigliola, quando
la menzione, da parte del piccolo Goten, di
un’abbondante colazione al mattino aveva battuto sul tempo la velocità delle
sue dita.
“Te
la sei cercata. Ti avevo già avvertito, e neppure tempo fa, di non attaccar
briga con chi è più forte di te”, fece duro.
“Quel
gattaccio ha rovinato la mia festa di compleanno. Non è nel mio stile starmene zitta
davanti alla prepotenza degli altri. Dovresti saperlo. Si è presentato come tuo
amico ed io l’ho invitato a restare con molta gentilezza. Nel bel mezzo dei
festeggiamenti si è messo a scatenare il putiferio per colpa di un budino, senza
considerare che aveva già mangiato a sbafo, peggio di voi saiyan
messi assieme. E tu mi dici di non attaccar briga? Sei sicuro che, tra me e te,
il saiyan sia tu e non io?”.
Dopo
aver unto la piastra dei takoyaki
e fritto il suo orgoglio insieme alle polpette di polipo e all’erba cipollina,
cospargendo il tutto di maionese, Vegeta poteva permettersi di risparmiare il wasabi piccante pure
innanzi a quella provocazione:
“Avresti
avuto ben poco da festeggiare se avesse voluto fare sul serio. Davanti ad un
dio poco importa essere saiyan o terrestre, ma
evitare di dimostrarsi stupidi”.
“Quindi,
io sarei stata… stupida?”, appuntò i gomiti, ma con quella guancia malconcia, già
impegnata a fare a pugni con la limpidezza degli occhi, avrebbe fatto pena al
suo peggior nemico.
Perciò,
Vegeta si limitò a rispondere:
“E’
dire poco”.
“Cosa
c’è? Ti dispiaceva vedermi morire?”, altrettanto temeraria sapeva essere
davanti a lui, semplicemente cambiando registro di voce.
Eccola
Princess Bulma, in carne ed
ossa, con la sua baldanza da bella signora, sfidare l’oscurità delle acque in
tempesta e senza l’acciaio della carena.
Le
mani ricaddero lungo i fianchi, ma non in segno di resa. Anzi, c’era qualcosa
di molto sensuale lì, su quel morbido profilo increspato dal vento.
Con
la camicia di raso bianco, lunga di poco sopra al ginocchio, Bulma sembrava fatta di spuma di mare e Vegeta si ritrasse
appena, come a voler tenere i piedi asciutti.
Detestava
le domande retoriche.
“Il
cuore mi batte più forte se penso soltanto a come ti sei arrabbiato. Rifarei
quello che ho fatto soltanto per sentirmi… amata in quel modo”, si avvicinò
ancora.
Il
sapore del mare si fece più forte e a Vegeta sembrò che l’acqua gli
solleticasse le dita dei piedi ed il sale bruciasse tra ferite prima
insensibili.
Ora
che non c’era nessuno ad ascoltarli, sarebbe stato sciocco negare l’evidenza
dei fatti.
“Non
approfittartene”, disse soltanto.
“Approfittarmene?”,
sorrise lei, ambigua. “E in che modo potrei mai riuscirci? Mi piacerebbe
potermi… approfittare di te, ma credo
di non averne la forza. Questa battle suit sulle spalle non mi rende un tuo pari, purtroppo. Tu puoi
scavalcare questa ringhiera in tutta tranquillità ed andartene via, mentre se
lo facessi io, finirei per diventare cibo per pesci”.
No,
Vegeta non aveva voglia di scavalcare la ringhiera, non dinanzi a quelle labbra
senza rossetto che da sole bastavano a farlo prigioniero, e neppure davanti alla
sua uniforme da battaglia, pure questa piegata
sul quel corpo di donna come un cencio qualunque, che scivolata appena, aveva
lasciato scoperta una spalla.
Bulma
si fece ancora più vicina, lasciandosi scaldare da quel calore alieno che lui
sprigionava semplicemente… esistendo.
“E
così anche tu hai un cuore puro”, gli poggiò una mano proprio lì sul petto e le
parve che un ritmo solenne provenisse da dentro, come dall’abside di un tempio.
“Sono
orgogliosa di te”.
Un
alito di vento, appena più forte nella sua inconsistenza, si fece largo tra i
due, non come terzo incomodo questa volta, ma quale promotore di ardite carezze.
Glielo
poteva consentire, al vento e soltanto ad esso, di sfiorare l’intoccabile e di
anticiparlo appena di qualche mossa.
Sotto
la stoffa in raso della camicia, Vegeta vide i capezzoli indurirsi di riflesso,
e col dorso della mano andò a ristabilire, laddove nessuno avrebbe osato ribaltarlo,
il suo primato.
Ma
lo fece piano e cautamente, perché nonostante fossero trascorsi anni dalla
prima volta che l’aveva fatto - e all’epoca non le aveva chiesto alcun permesso
- c’erano momenti in cui quei seni riuscivano ancora a mettergli soggezione.
Davanti
a lei solamente, alla stregua di un dio della distruzione dai capelli cerulei, permetteva
alle mani nude e senza guanti di esitare, con la prospettiva differente che
questo tipo di battaglia era disputata ad armi più o meno pari: mai si era
battuto in ritirata davanti a lei, né sarebbe mai potuto morire nella morsa
tenace delle sue gambe dischiuse, non certamente di quella morte fisica.
“Puro
dici? In questo momento ho il cuore tutt’altro che puro”.
Bulma
sorrise, andando ad accorciare un’altra volta lo spazio tra loro, con quella
confidenza, rodata migliaia di volte, che solo a lei spettava.
Eppure,
ancora le succedeva nell’accostarsi a lui, di sentire quel vuoto allo stomaco
delle prime volte, simile - per restare in argomento - a quello scavato da una
nave nel mezzo di una tempesta.
Soltanto
che l’oceano pareva fatto di olio quella notte.
“Mmm… questa prospettiva…”, e con la punta infreddolita del
naso sfiorò quella dell’altro, “…direi quasi che mi piace di più”.
Allora,
gli afferrò la mano e lo indusse a ritornare in cabina, semplicemente avanzando
lei per prima.
Ormai,
bastava che lei lo chiamasse per telefono e lui accorreva, che gli chiedesse di
eliminare un dio della Distruzione ed egli provasse quanto meno a placarne
l’ira.
Vegeta
la seguì senza obiettare e, mano nella mano, raggiunsero la sponda del letto e
lì andarono a naufragare l’uno sull’altra.
La
battle suit, ancora più oltraggiata,
rimase alla deriva appena qualche metro prima, tra le onde vellutate della
moquette color rosa antico.
Con
le dita di lei aggrappate alla folta criniera, Vegeta piegò il capo e la andò a
baciare sulla bocca con quell’impeto di chi si è trattenuto già troppo.
“Ahi…
fa male”, gemette la donna, storcendo la mascella dolorante.
Quella
specie di ringhio soffocato, che l’altro diede in risposta, fu un modo come un
altro, tutto suo, per chiederle scusa.
Con
un dito poteva cancellare la Terra dalle mappe stellari e senza neppure essere
un dio di distruzione, ma con lei, nello spazio compreso tra la testata e la
pediera di un letto, aveva imparato ad essere gentile.
Adesso,
non importava che i cuscini, le lenzuola asettiche e la coperta con le frange non
fossero i loro, che la spalliera fosse intarsiata con legno di mogano in un
contesto di altri tempi, perché anche qui Vegeta ebbe la sensazione che quello
spazio fosse immenso, che poteva inabissarsi se non restava attaccato a lei, che
si potevano fare mille sogni e mille incubi, vivere tutte le esperienze dei
sensi, godere e far godere, combattere le più strenue battaglie mentali,
chiudere gli occhi e sentire il rumore del silenzio, stare su di un fianco o sull’altro:
era un’altra vita ogni volta che ci finiva sopra.
E
allora, tutto si amplificava tra quelle quattro sponde, sicché i gemiti
diventavano parole non dette, e le carezze ed i baci dichiarazioni d’amore.
Persino
quel ringhio, con cui abbandonò la sua smorfia di sofferenza per declinare con
calma verso la piega del collo, a Bulma parve un
gesto di estrema delicatezza.
Non
era un caso che l’unico essere in tutto l’universo che di Vegeta poteva avere
quella prospettiva, così a stretto contatto, fluttuante tra le gambe non ancora
completamente dischiuse, e senza armatura, si fosse resa conto da un po’ di
tempo che, soprattutto nell’intimità, lui non era più quello di una volta, non
quello egoista dei primi incontri, ma neppure quello cauto e prudente del
periodo successivo all’avvento dei cyborg.
Si
sentiva… amata - andava detto tutto - come
se quel sentimento, che prima era più grezzo, fosse stato incastonato nella sua
natura aliena con il bulino di un orafo.
Così
doveva essere, perché, altrimenti, non si sarebbe spiegata perché lui fremesse
di un desiderio non solo carnale, lì nell’incavo della sua spalla, tra la
bretella di raso e la giugulare pulsante, senza averle sfilato neppure la
camicia da notte, attardandosi a giungere in quel punto morbido e sinuoso dove
più di ogni cosa desiderava arrivare.
Nessun
terrestre avrebbe potuto amarla a quella maniera, e senza averglielo mai detto.
“Vegeta…”,
mormorò ad occhi chiusi.
Ma
lui non rispose, smarrito nell’imprevedibilità di quelle acque, divenute
d’improvviso torbide e trascinanti.
“E’
così strano, è come se stessi vivendo… una nuova… vita”, si inarcò contro di
lui, con l’andamento arrendevole di una prua.
“Possibile
tu debba aprire bocca nei momenti meno opportuni?”, sibilò col fiato già corto,
nel bel mezzo del suo mare in
tempesta.
“Cosa
ci sarebbe di inopportuno? Si possono dire molte cose in questi momenti”, singhiozzò
al contatto delle sue dita.
“Ma
io non voglio sentirle”, e per renderglielo più chiaro, andò di nuovo a
baciarla sulla bocca con irruenza voluta.
“Ahi…
ho detto che mi fa male se fai così”.
E
allora lui le mise una mano sulla bocca, come a farla tacere, per la seconda
volta in quell’interminabile giorno, benché lui non fosse un dio della
Distruzione e questa volta fosse per proteggerla da se medesimo.
Faccia
a faccia e senza guanti, il contatto fu questa volta più intimo, sensuale, caldo,
di quel caldo-umido che si trova altrove, scendendo con la mano più in basso.
“Prima
o poi troverò il modo di farti tirare la lingua”.
In
tutta risposta - ma di quelle che lasciano l’interlocutore di stucco - sentì il
palmo di quella mano inumidirsi, e proprio la lingua di Bulma,
tanto inopportuna e petulante, blasfema verso gli dei ed incurante dei nemici
più pericolosi, lambirgli le dita una ad una, come fossero state fatte di panna
montata e giammai fossero state intinte del sangue nemico.
Nessuna
replica avrebbe saputo metterlo a tacere quanto quella, e a Vegeta ci volle
qualche istante in più del dovuto per trovare la risposta giusta, ma non ne trovò nessuna, e in quel dialogo ora a
senso unico, calmo, silenzioso ed erotico, avrebbe avuto voglia di annegarci
per ore, fino in fondo all’oceano, trascinando con sé l’intero bastimento.
Peccato
che il suo corpo scalpitava a risalire in superficie e a farla finita subito.
Non
fece in tempo a raggiungere l’elastico grigio dei suoi slip - e per sua fortuna
- perché una voce ben nota irruppe nella stanza e loro due rimasero raggelati
nel sudore di quella passione bruciata a fuoco lento e appena divampata.
“Ehi,
Vegeta, sei qui?”.
Quella
voce, da subito ben nota seppure sommessa, non provenne dall’uscio d’entrata e
neppure dal balconcino dove la porta a vetri era stata solo accostata, ma giunse
dal bagno annesso.
Quando
Son Goku venne fuori, aprendo con circospezione la porta a scomparsa, vide che
Vegeta se ne stava seduto sul ciglio del letto con un cuscino sulle gambe e che
Bulma, da tutt’altro lato, poggiata alla spalliera,
leggiucchiava una rivista con una spallina abbassata e la frangetta
scompigliata.
Peccato
che fossero soltanto le 4.20 del mattino e che quel quadretto non sarebbe stato
molto convincente, tranne che per Goku, neppure per un bambino.
“Ah,
che sollievo sapervi svegli! Scusate l’ora”, si grattò il cespuglio da
extraterrestre che aveva sulla testa, ed ogni volta sembrava che tirasse fuori,
al posto di un concetto, qualche frutto di bosco.
“Si
può sapere cosa diavolo vuoi?”, l’apostrofò Vegeta, e la salvezza di Goku fu che l’altro non potesse
disfarsi ancora di quel cuscino.
“Ehm…
non sapevo quale fosse la vostra cabina, ce ne sono così tante. In più il tuo ki non era
assopito, ma completamente azzerato e non sono riuscito a localizzarti subito.
Non pensavo che di notte annullassi così tanto la tua aura, sai? O è una cosa
che viene naturale? Non ci ho mai fatto caso…”.
A
Vegeta gli sarebbe piaciuto tanto rispondere, mentre lo prendeva a schiaffi,
che per la precisione lui non stava dormendo e che la sua aura era azzerata
perché ci teneva alla pelle di sua moglie, ma restò soltanto con l’espressione
sconvolta di chi si figurò, per un istante, cosa sarebbe accaduto se l’altro si
fosse teletrasportato qualche minuto dopo, proprio mentre lui e Bulma si rotolavano su quel letto senza vestiti e senza ripari.
“Non
ti azzardare mai più ad usare quella tecnica nel mezzo della notte, anzi…”, ci
rifletté meglio. “Non la devi usare nemmeno se stesse collassando il pianeta!
Né per cercare me, né per cercare mia moglie! Ficcatelo nella testa, perché la
prossima volta che succede ti faccio secco!”.
“Dai,
non prendertela!”, ridacchiò. “E’ stato un caso che mi sia ritrovato proprio nel
bagno. Fortuna che a quest’ora non c’era nessuno, né sulla tazza, né nella
doccia. Giuro che non succederà più. E poi, mica mi scandalizzo se dormi senza
pigiama. Quanto a Bulma, sono sicuro che si
addormenta con le mutande al loro posto, o no?”, strizzò l’occhio all’indirizzo
della donna, facendola sussultare.
Ora,
non era il caso di rinvangare aneddoti di un passato lontanissimo. Ne valeva
della sua incolumità; quella di Goku, sia chiaro, non quella di chi si sarebbe
avvalsa dell’incapacità di intendere e di volere da bella addormentata nel
bosco.
Perciò,
la suddetta ebbe fretta di cambiare discorso, mentre Vegeta, ancora scioccato
da tanta sfacciataggine, non riusciva ad articolare parola.
“Ehm…
si può sapere cosa è successo da portarti qui?”.
“Urca!
Le dita di Lord Bills si vedono tutte adesso!”, si
sporse un po’ in avanti, ma non tanto da scorgere le mutandine incriminate
gettate a terra al letto.
“Smettila
di guardarmi a quel modo!”, gli gettò contro la rivista.
Se
non l’avesse scansata, avrebbe visto da vicino che si trattava soltanto del
piano di evacuazione in dotazione ad ogni cabina.
“Complimenti
sul serio, ho sempre saputo che avevi la testa dura. Con quel colpo avrebbe
potuto staccartela dal collo”.
“La
pianti sì o no? Che diavolo vuoi?”, fece Vegeta.
Son
Goku ritornò serio:
“Ho
bisogno di parlare con te”.
E
fu per quella serietà, più che per il bisogno sancito, che Vegeta si scordò di
tutto, della panna montata sulle sue dita, delle mutandine ricamate ai piedi
del letto, dei capezzoli induriti sotto la stoffa di raso della camicia da
notte, che neppure era riuscito a sfilare.
“Dammi
due minuti”.
“Cosa
potrà mai volere?”, domandò Bulma quando l’altro
scomparve alla sua maniera.
Vegeta andò a recuperare la battle suit rimasta alla deriva:
“Che
vuoi che ne sappia!”.
Il
legno di mogano parve diventare marmo gelido dietro la sua schiena, ma Bulma restò lì con la bretella scesa, la frangetta senza
garbo; e il livido sulla mascella, anziché sbiadire, si mise a pulsare più di
prima.
L’osservò
mentre, alla svelta, infilava prima una gamba e poi l’altra, ed il tessuto blu,
riacquistato pregio, aderiva come una seconda pelle fino al collo e fasciava di
quel corpo persino l’anima, dando la sensazione che egli fosse nato così, di
quel colore, di quella consistenza, di quella trama.
Non
era un caso che solo Bulma ne sapesse distinguere la
duttilità, ogni pregio e difetto di fabbricazione, persino i punti di
attaccatura, sicché - si sarebbe potuto dire - ella era in simbiosi con lui
anche quando questi credeva di aver fatto il vuoto attorno a sé.
Solo
e soltanto Bulma, in tutti gli universi noti e meno
noti, sapeva dove finiva l’uomo e dove iniziava il guerriero; e mentre pensava
che il blu elettrico incominciava a seccarla e che la prossima divisa l’avrebbe
confezionata di un altro colore, si sistemò meglio il cuscino e una volta tanto
preferì tacere.
***
Non
fu precisato il posto in cui incontrarsi. Per i saiyan,
come per gli dei, non occorreva farlo.
A
Vegeta bastò portarsi a prua per essere individuato da Goku in un batter
d’occhio.
Del
banchetto consumato il giorno prima erano rimasti dei tavoli senza tovaglie, e
l’acciaio nudo dei carrelli vuoti riluceva sotto le luci bianche del pavese issato.
Se
il grosso squarcio generato dalla caduta di Majinbu
sembrava il morso di uno squalo spuntato dalla pancia della nave, più difficile
era associare la decapitazione delle palme ad un altro animale guizzato dal
mare.
I
motori di propulsione montavano schiuma bianca, ronfando a tutta velocità sulle
acque lisce, e solo dall’aroma pungente e salmastro, nel punto in cui il buio
era più compatto, era chiaro fosse il mare ad essere tagliato e non il nulla
cosmico.
“Avanti,
spara!”, fece Vegeta senza preamboli, braccia incrociate e stivaletti
divaricati.
Goku,
continuando a mantenere la sua espressione più seria, l’accontentò subito:
“Mi
piacerebbe che ci allenassimo insieme. Dovevo dirtelo non appena mi è sfiorata
l’idea. Proprio non ce la facevo ad aspettare che si facesse mattino”.
Vegeta
non batté ciglio.
Per
un momento, e soltanto per un momento, la camera gravitazionale gli apparve troppo
stretta, ma quel nodo nello stomaco, che da sempre si materializzava al
cospetto dell’altro, non fece in tempo a sbrogliarsi. La sua avversione per
quel saiyan non avrebbe mai trovato rimedio, per
quante battaglie avrebbero combattuto l’uno al fianco dell’altro, per quanti
barbecue le loro rispettive famiglie avrebbero organizzato insieme allegramente.
“Hai
ben due figli con cui poterti allenare”.
“Non
è la stessa cosa e tu lo sai. Gohan non ha più voglia
di combattere e Goten è soltanto un bambino”.
“Trovati
un altro sparring, allora. Magari
Mister Satan, con le dovute precauzioni, potrebbe
andare bene”.
“Ma
perché la prendi come un’offesa? Non ti ho chiesto di farmi da cavia ma di
allenarci insieme. Guarda che anche io posso imparare da te”.
“Non
provare a farmi l’elemosina!”, l’apostrofò ed il mare sottostante schiumò d’improvviso,
come obbedendo ad un ordine.
Goku
sospirò e l’aria salmastra, così tonificante, diede alla sua amarezza un
retrogusto meno insipido.
“I
nemici non sono più quelli di una volta”, disse questi, mettendosi a guardare
l’orizzonte adesso meno compatto.
Né
poeta, né filosofo; né sognatore, né maledetto. Con quel cipiglio serio, Goku non
smetteva di incarnare il concetto metafisico della pace con se stessi, anche
quando metteva a punto pensieri tipo:
“Ma
ti rendi conto quanta forza abbia Lord Bills ancora
nascosta? Impazzisco al solo pensarci. Non hai pure tu l’impressione che
qualcosa attorno a noi stia cambiando, che l’universo sia ancora più infinito
di quanto potessimo soltanto immaginare?”.
“Cosa
c’è?”, sogghignò Vegeta. “Da quando sei diventato un dio, ti sei fatto più
intelligente? E’ ovvio che me ne sono reso conto. Quando si incontra una
divinità, c’è un nuovo mondo che si spalanca davanti agli occhi”.
“Spero
di tornare ad incontrare Lord Bills. Devo
incontrarlo. Ne ho davvero bisogno”.
“Ed
io più di te”.
Vegeta,
il quale a differenza dell’altro non aveva mai incontrato il favore degli dei,
sentiva che la sua vita non sarebbe più stata la stessa senza ritrovarsi di nuovo
al cospetto del dio della Distruzione, fosse anche solo per sentirsi ribadire
con disprezzo, sotto i suoi piedi, un’altra volta ancora, che ad un saiyan, per evolversi dallo stadio di primate, non basta
assurgere alla gloria di un dio.
“Se
solo riuscissi a localizzare il suo pianeta, forse...”, esclamò Goku, per poi
aggiungere, come colto da folgorazione, “pensi che quel Whis
possa aiutarci? Sembra che sia lui a scandire il sonno-veglia di Bills e che abbia una grande influenza nei suoi riguardi.
Non trovi?”.
Non
era ancora chiaro ad entrambi che natura avesse il fedele servitore del dio in
questione, né da quale forza gravitazionale fosse attratto l’anello planetario
intorno al collo. Con lo scettro sempre in pugno, poi, sembrava reggere
l’origine di tutto l’universo.
Vegeta
non fiatò, sospeso in bilico sulla corda di una nuova prospettiva, mentre
l’altro ragionava, accarezzandosi il mento: “Sembra un tipo accomodante e
gentile… sono certo che non sarebbe un problema per lui portarci sul pianeta di
Lord Bills”.
“E
come pensi di convincerlo?”, lo riportò con i piedi per terra.
Ancora
una volta sembrò che Goku stesse tirando fuori dalla chioma un frutto di bosco
piuttosto che un concetto. Non che i frutti di bosco andassero gettati alle
ortiche, visto che della torta di compleanno di Bulma
non era rimasta neppure una fragolina. “Ecco… l’ho guardato per benino quando si
è congedato da noi ieri e non credo che un tipo come lui… ehm… come dire… si lascerebbe comprare da una foto di tua moglie o da un appuntamento a cena con
lei”.
“KAKAROTH!
Io…!”.
“E
dai! Stavo scherzando!”, mise le mani avanti.
Orami
era evidente a tutti che Bulma era il suo punto
debole, e Goku si divertiva a sguazzarci dentro con l’esultanza di un bambino
sul bagnasciuga.
“Stai
tirando troppo la corda!”, tornò ad incrociare le braccia, e tutto ad un
tratto, più forte dell’odore del mare, gli giunse sotto al naso il profumo di Bulma di cui era impregnata la sua divisa; come se,
chiamata in causa, ella si fosse presentata a loro sotto forma di spirito.
Quell’aroma
di legno fruttato lo conosceva bene e per un istante temette che potesse andare
a stuzzicare anche l’olfatto dell’altro.
“A
proposito di cena”, fece torvamente Vegeta. “Ha un appetito più grande di
quello di noi due messi assieme”, e arretrò di un passo, per sicurezza.
“Sì,
anche io ho pensato che si potrebbe attirarlo qui da noi usando come esca del buon
cibo. Però c’è un problema. Quando si tratta di allenarmi o di combattere
contro qualcuno, Chichi mi fa sempre ostruzionismo. Accidenti!
Credi che Bulma ci possa essere d’aiuto in cucina?
Lei non ha mai fatto di queste questioni!”.
E
così era.
Bulma
costruiva camere gravitazionali e battle suit con la facilità con cui Chichi
rammendava i calzini di Goku.
“Bulma, dici?”, sogghignò l’altro. “Se si tratta di scaldare
cibi precotti lo fa bene, ma davanti ai fornelli sa bruciare solo i fondi delle
pentole. Ha i soldi, però, e può permettersi i migliori esperti del settore”.
Goku
ci mise qualche istante in più del dovuto ad incassare tutta quella franchezza,
più di sentire il principe dei saiyan parlare di cibi
precotti e di fornelli, ma alla fine gongolò:
“Perfetto!”.
Restò
ben poco di quell’entusiasmo, quando Vegeta gli fece perdere tutto ad un tratto
una spanna di altezza:
“Forse,
non hai considerato un fattore. Come pensi di metterti in contatto con lui? Semplicemente
alzando gli occhi al cielo e chiamandolo per nome?”.
“Ehm…
non ci avevo pensato. Suppongo che la procedura sia più complessa…”, eccolo
un’altra volta il frutto di bosco.
“Non
sei, forse, diventato un dio? Allora, spremi le tue sacre meningi!”, lo irrise.
Ma
in tutta risposta, Goku sentì lo stomaco brontolare.
“Io
non riesco a riflettere quando ho fame. A che ora è servita la colazione? Sento
già un profumo come di dolci…”, e la fonte occasionale di quell’odore bestemmiò
tra sé e sé il nome di sua moglie.
Un
barlume di luce compariva proprio adesso all’orizzonte, sovrapponendo al drappo
stellato un altro striato di azzurro, di pari bellezza.
Ne
aveva da scegliere la natura, su quel tavolo da artigiano, tra tessuti pregiati
di svariati colori. Dama di altri tempi, di bottega in bottega, perdeva le sue
giornate a scegliere vesti e profumi, gratuitamente elargiti.
“Dalle
sette in poi”, rispose l’altro, sdegnato.
Ad
ovest, intanto, si poteva già scorgere, nella foschia, un lembo indefinito di
terra.
“Ancora
tutto questo tempo? Allora credo che ne approfitterò per recuperare un paio di
ore di sonno. Incomincio ad essere stanco”.
Solo
ora sembrava che l’adrenalina dello scontro incominciasse ad evaporare dalle
sue membra, sospinta verso i pori dal pensiero che il loro cammino si sarebbe incrociato
con quello degli dei, in un modo o nell’altro, anche senza fare un bel niente.
Erano
saiyan.
Era
un altro mondo.
E
in quel mondo si poteva parlare con dio e prenderlo a pugni.
Vegeta,
pur avendo combattuto poco e niente il giorno prima, incominciava a sentire di
condividere con lui quella stessa sensazione di spossatezza.
Così,
le assi di legno non produssero scricchiolii quando uno si dissolse nella
consueta maniera e l’altro si sollevò con la leggerezza di una piuma, sicché,
nella desolazione di quel ponte, il loro colloquio parve quello di due fantasmi
su una nave derelitta.
Quel
passo felpato tornò a posarsi sul terrazzino della suite all’ultimo piano, dove
la luce era stata spenta, ma la porta-finestra lasciata accostata.
Bulma
dormiva supina, con un braccio incatenato al cuscino ed una gamba divaricata,
tra le lenzuola sgualcite.
Lì
nel mezzo si andò a sistemare Vegeta, senza spogliarsi, poggiando il capo sul
seno foderato dal raso.
Il
suo respiro, lento e regolare, dopo un sommesso mugugno, lo cullò più di quanto
potesse fare la Princess Bulma
sulle acque piatte.
Pensò
a Whis e all’anello planetario intorno al collo, alle
orecchie di sciacallo di Lord Bills e a quel sock sulla guancia
di sua moglie.
Poi,
ad un tratto, rivide suo padre, sottomesso brutalmente ai piedi del dio della
Distruzione, per colpa di un cuscino, il più morbido di tutto l’universo, che
non gli aveva procurato.
Nell’intrigo
del sonno che sopraggiungeva, pensò che il cuscino più morbido lo tenesse proprio
lui, in quel momento, sotto il capo: rivestito di raso bianco, caldo,
rassicurante, vellutato, come niente al confronto.
Allora,
spalancò gli occhi ed inquieto osservò il soffitto.
FINE
Dunque,
questo racconto, scritto in anticipo rispetto agli eventi mostrati nella serie
Super - tanta era la voglia di misurarmi con questi nuovi spunti - è stato
tenuto in caldo per un bel pezzo di tempo, almeno per un mese - di più e non di
meno - nell’attesa che i miei pronostici combaciassero con i recenti sviluppi.
Ero
certa che, a battaglia ultimata, Goku facesse ritorno sulla nave, quindi il
primo paragrafo era assicurato.
Sul
secondo, invece, nutrivo dei dubbi, ma intanto scrivevo senza riuscirmi a
fermare.
Avendo
come punto di riferimento “Battaglia degli dei”, il dialogo tra Goku e Vegeta,
nell’ultimo paragrafo, doveva riguardare già la possibilità di farsi allenare
da Whis. Immaginate la mia sorpresa quando nella
serie Super, a fine battaglia, la rivelazione sulla sua identità viene taciuta.
Per
un istante, ho immaginato che questa storia non avrebbe visto la luce e che
avevo sprecato gran parte del mio tempo a scrivere un racconto non attinente ai
fatti.
Poi,
fortunatamente, dopo la visione dell’episodio 16, sono riuscita a correggere il
tiro, modificando giusto una parte del dialogo.
Giuro
che il riferimento all’incompetenza di Bulma in
cucina esisteva fin dall’inizio, avendo ipotizzato - ma non ci voleva un genio
- che una donna in carriera come lei non amasse attardarsi in cucina.
Soltanto
che, per riscaldare i precotti, nella prima bozza avevo pensato ad un microonde
e non ad un bollitore.
Idem
per il teletrasporto nel bagno della cabina, che in riferimento alle
anticipazioni dell’episodio 17, mi sono divertita a calcare di più.
Precisato
ciò, ringrazio chi è arrivato a leggere fino a questo punto, sorbendosi pure l’inutilità
di questa nda.