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Autore: Helmyra    29/10/2015    3 recensioni
Chil’a: il giorno più caro a Molag Bal, il momento in cui il suo potere è più forte e le preghiere vengono ascoltate. A Varasa, sacerdotessa vampiro, spetta il compito di decorare il santuario coi fiori che simboleggiano il tormento e la tristezza. Un pizzico di gioia riuscirà comunque ad invadere il gelo di una giornata d’inverno.
Piccolo esperimento da leggere dopo "Il sonno della belva".
Genere: Fantasy, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Daedric Maidens'
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Il santuario si era riempito di falene.
Certo, rimaneva un mistero il fatto che si fossero addentrate fin lì, che lambissero liete la mazza arrugginita incastonata nel bacile. Di tanto in tanto una di esse le si posava sugli abiti d’organza e lei si divertiva a seguirle, a dar loro rifugio sulle dita.
Era cominciato l’inverno a Skyrim. Persino Markarth, solitamente un calderone caldo e ribollente, era stata tinta di bianco dalla neve. Le animette notturne si ritiravano sottoterra, per evitare il gelo e godersi un lungo letargo. Questo non impediva loro di abbandonare il giaciglio sicuro, in qualche anfratto delle pareti di roccia, e di giocare a volarle attorno.
Varasa si sentiva bene, in compagnia: viveva nel buio e nel buio era stata condannata a camminare fra i campi, a piedi nudi. Poi la corsa finiva e tornava dal suo padrone.
“Ancella.”
La voce proveniva dall’altare o scaturiva dal vuoto della sala. Quando accadeva, l’elfa oscura si prostrava fino a toccar terra con la fronte e cominciava a recitare poesie.
“Mio signore, Molag Bal.” Gli baciava le mani, i piedi. Gli lustrava i capelli e tergeva la pelle, lo invitava a prender posto sul trono. Inventava fiabe, storie fantastiche... lo amava, quando veniva costretta.
“Il momento è quasi giunto.” Attorcigliò una ciocca dei suoi capelli attorno alle dita, la strattonò all’improvviso solo per strapparle un gridolino. “L’inverno, il ghiaccio... il cielo che si dissolve in scaglie bianche. Sai che significa?”
“Certo, maestà” Gli sorrise leziosa. “Siete più potente e i seguaci  v’invocano...”
“Chil’a.” Scandì lentamente. “Solo i più arditi, i più coraggiosi, verranno a farmi visita al tempio. Il resto... preghiere vuote, manchevoli offerte. Ad ogni modo, devono onorarmi, i canti di gloria al mio nome si dovranno udire fino all’Aetherius!”
“E come sarà possibile tutto ciò?”
Sfilò la fibula che reggeva un lungo telo di stoffa, avvolto sulle ali come un mantello, e gliela infilzò tra i seni. Varasa lanciò un grido.
“Sei troppo sensibile. E dire che non è il punto migliore per torturare i mortali... poca carne, meno dolore”.
Piegò le spalle in avanti e lo guardò risentita.
“...Cosa devo fare per voi.”
“Ecco, è questo che volevo sentire.” Sorrise Molag Bal, conficcando la punta verso il cuore. “Voglio che uomini e mer si pieghino. La flora, la fauna. Il santuario non sarà da meno... ti concedo una notte di libertà, per raccogliere i fiori.”
“I... fiori?”
“Se vuoi mortificare la tua intelligenza ripetendo ciò che dico, fa’ pure.” Sollevò il mento di Varasa con le brutte mani, graffiandole il collo con quel che rimaneva. “Di tempo ne ho quanto vuoi, schiava... non la pazienza di starti a sentire.”
Le voltò le spalle, trovando terreno fertile per attuare un nuovo gioco di dominazione.
“Ti manderò nello Hjaalmarch: è lì che crescono quelli che preferisco. Belladonna, campanule della morte... e funghi bianchi: somigliano a tumefazioni, escrescenze bubboniche sulla pelle. Conosci il significato, suppongo...”
“L’inverno e il freddo dominano il nord, e voi siete la Stella della Sera.”
Un’espressione di gaudio sfacciata, ambigua.
“Ti sei guadagnata il premio.” Leccò il sangue dallo spillone, il sapore... delizioso. “Ora va’, e non tornare finché non saranno piene”.
Sacche di rete soffice, sottile. La sacerdotessa venne risucchiata nel portale daedrico, un mare blu cangiante che la inghiottì. Acque torbide l’avvolgevano, ma respirava e fluttuava in basso, verso l’abisso.
Riemerse in uno stagno ronzante. Alcune libellule si avvicinavano incuriosite, poi sfrecciavano via, spaventate dalla loro audacia.
“La prossima volta scegli un posto migliore!” Le avrebbe fatto rimangiare la frase, più tardi. Annotava le mancanze, una ad una, solo per mettere in atto le nuove, piccole torture con cui amava colpirla. Aveva le vesti zuppe d’acqua stagnante ed erba macerata, fortuna che vivesse in comunione con l’umidità del sottosuolo.
Secunda, dal volto sfuggente ed ombroso,  laccava gli sterpi sulla torba umida: s’incamminò verso la brughiera, saltellando sui ciottoli limacciosi che emergevano tra le pozze scure. Un compito facile, dopotutto... la regione pullulava di una vegetazione scarna, colorata. Aveva deciso di destinare a fiori e funghi sacche diverse: i grappoli di campanule, assieme alla belladonna, sarebbero finiti insieme. Invece, i funghi con i teschi di cervo e le ossa dei piccoli animali periti tra le acque.
L’aria era tagliente, meravigliosa... non respirava da quando Molag aveva reclamato la sua vita nel santuario, ma poteva sentire sulla pelle lo schiaffo della tramontana, l’odore di corteccia marcescente. I lupi la spiavano da lontano, poi andavano via: sembravano obbedire anche loro al comando del padrone, e lo temevano assieme alle altre creature della notte.
Solo le più innocue – e le più fragili – le si avvicinavano... le falene! Volavano in cerchio attorno a lei e la guidavano alla ricerca dei fiori, dell’oro nella palude spoglia. Varasa rideva, riuscivano a proteggerla, a farla sentire a casa. Sulle loro ali si riflettevano gli astri: che bello sarebbe stato vivere un solo giorno, ma saper volare. Trasformarsi ancora, purificarsi. Rinunciare al vampirismo e morire, appassire in una cripta e chinare il capo verso terra.
Si diceva che ogni farfalla notturna fosse un’anima in un corpo provvisorio, per chi non finisse subito a Sovngarde; o che fossero le verità degli eremiti nascoste in antiche pergamene. Cosa cercavano di dirle, perché l’accompagnavano ovunque andasse? Forse erano dispiaciute per la sua solitudine, però...
Sobbalzò all’improvviso... no, non poteva essere un lupo.  Mentre un fascio di campanule le scivolava via, alle orecchie giungevano frasi deliranti, lo sferragliare di un’armatura lucidata male. Il cespuglio, le sacche... forse l’avrebbero nascosta.
“Fatti avanti, cagna!” Qualcuno batteva un’arma sullo scudo. “Farò calare l’oscurità sul santuario del demone. Non merita offerte e lodi, il principe lo impedirà!”
“Non così, Ergarr. Se la spaventi fuggirà via, pensi che un topo come lei sappia combattere? Ah, ci ha avvertiti... questa piccola sanguisuga è la sua nuova conquista. Patetico, vero? Molag Bal che s’affeziona a un caso disperato...”
Tastò l’erba, strappò qualche filo e se lo portò alle nari, per gettarlo al vento in una smorfia di disgusto. Ora lo vedeva meglio, era una figura incappucciata e scura, più scura della tenebra attorno ad essa.
“...Tempo di draghi, di assurdità... perché non pensare che il principe si sia rammollito? Oh, sì. Per essere grande e forte devi aver bisogno di una schiera di deboli, di un oggetto da compatire...”
“È un vampiro, fratello Logrolf...”
“Ne abbiamo sterminati tanti, fatto un favore ad Arkay. Guardala in faccia, non vedi che non ha mai ucciso nessuno? Succhia dalla tetta del demone come un neonato spaurito. Sei più forte, onora Boethiah!”
“Lode! Lode!”
Come avevano fatto a trovarla? Che il principe mezzo uomo e mezza donna avesse intuito i piani del Signore? Varasa si fece avanti, la veste leggera seguiva il vento a ponente e gli occhi rosati brillavano al buio, atteggiando noncuranza.
“Lasciatemi compiere il mio lavoro.” Spiegò, attorcigliando lo stelo di un fiore. “Tornate da dove siete venuti, o questo sarà ciò che farò alle vostre teste.”
Staccò la corolla dal resto, coi denti. Nel farlo, mostrò deliberatamente le zanne.
“Non mi impaurisci, sgualdrina.” Spiegò il seguace, un altro elfo oscuro... si aspettava la tiritera. “Traditrice. Sei alleata col nemico dei dunmer, non meriti nemmeno di esser chiamata ‘sorella’...”
La giovane piegò la testa in basso, compassata.
“Molag Bal non chiede, prende.”
“E allora, lascia che anch’io prenda la tua vita, regalandoti la morte!”
Le si lanciò contro, inavvertitamente. Lo schivò all’ultimo momento, scivolando a lato in un movimento fluido. Varasa non attaccava, indietreggiava evitando i malrovesci dell’elfo oscuro, chinandosi in basso e piroettando. L’avversario, frustrato, disegnò un arco con la spada corta e finì per inciderle il fianco. Dalla ferita schizzò sangue, macchiò l’armatura del guerriero.
“Sei solo una schiava di letto, quindi. Non sai combattere, non sai difenderti... e stento a comprendere perché Boethiah mi abbia promesso l’ammissione al Sacellum con un baratto così scadente. Vile, miserevole puttana!”
Logrolf il Dissacratore rideva da lontano. Aveva promesso che, prima o poi, avrebbe violato l’altare del Sovrano porgendo i riti a Boethiah. Forse in giovane età, e prima dell’arrivo di Gunnar, poteva esser già accaduto. La pazienza di Molag Bal aveva sempre un limite, e allo stesso modo il tempo di sopportare gli scherni, la vita dell’incarnazione mortale di cui Varasa si era innamorata...
Parò uno squarcio nell’aria bloccando la lama a mani giunte. Si osservarono per qualche secondo, dritto negli occhi e a contatto con le loro anime.
Varasa poteva sceglierlo: non per tramutarlo in un vampiro, bensì per ottenere la morte. La liberazione dalla prigionia nel santuario, dalle angosce, dai tormenti del principe della dominazione.
Sapeva, comunque, che quello non era il giorno.
“Boethiah non si fida di te.” Sorrise. “Non ti stima abbastanza... ti ha fatto dono del premio? Il Signore mi ricopre di doni ogni notte. Mi offendi, ma in realtà sei invidioso di ciò che non hai... e non potrai avere, mai.”
Evocò un’arma spettrale, subito acquistò corposità, attingendo i colori dalle campanule mortifere. Implacabile, quella spada bellissima simbolo della sofferenza. Una sofferenza di cui non riusciva a liberarsi, e che riversava sugli ignari sfidanti.
“Ti ho avvisato, ma non hai prestato ascolto. Ecco cosa faccio ai fiori che non mi piacciono.”
Gli tranciò la testa in un colpo secco, diretto: essa cadde a terra, rotolando in un acquitrino putrido, terminando una vita al culmine della giovinezza.
“Che brava attrice che sei.” Insinuò Logrolf con tono mellifluo. “Non sarà l’ultima volta che ti verremmo a fare visita. Forse dovremmo essere più educati, signorina, e cercarti nel tuo stesso covo. E sia, lasceremo a quell’ignobile creatura la sua festicciola, magari per te sarà l’ultima.”
La barba caprina del sacerdote rifletteva il grigiore della palude. Rideva a bassa voce, come se la cosa non lo riguardasse, mentre l’elfa si avvicinava con la spada alzata.
“Ti piace una vita di risentimento, a quanto pare. Chi mai si presterebbe volentieri alle torture del Signore dello Stupro? Ah, ma qui abbiamo una ragazzina stolta che non sa nulla. Un essere che idolatra la propria solitudine, ergendo a divinità il distacco, l’incomprensione. Che brava...”
“Neanche tu m’intimorisci.” Lo interruppe, portando la lama di fronte al viso.
“È da vedere. Te ne manderò altri, ancora più forti, ancora più determinati. Prima o poi accadrà, e sarà la tua testa da vampiro a rotolare. Ti sfonderemo il cranio con una pietra, con un’altra ti divaricheremo la mascella. Adorneremo coi tuoi capelli le offerte a Boethiah, e ci assicureremo che tu non possa rinascere... dovrai patire, marcire nell’astio solo perché sei olio che alimenta la nostra violenza. Presto o tardi cadrai e io... non mi arrendo facilmente.”
Sfiorò la polvere di stelle che si lasciò dietro, svanendo nel nulla. Boethiah era troppo affezionata a quel fervente sacerdote, ma Varasa aveva deciso che avrebbe raccomandato la sua anima a Molag... che lo avrebbe convinto ad intentargli contro un processo per giudicarne le malefatte.
Il sole stava per sorgere, mentre trascinava la sacca più pesante e metteva in quella leggera gli ultimi boccioli. Si materializzò nei recessi della casa abbandonata, umida e oscura come sempre.
“Sei... tornata.”
Era il sonno che le suggeriva un senso di aspettativa nelle parole del principe? Varasa s’inchinò, baciandogli i piedi come sempre. Poi ritornò sul bottino, affondò l’avambraccio nella sacca e ne tirò fuori una massa tonda, viscida.
La lanciò verso il demone, che l’afferrò al volo.
“Dovrei punirti per tanta sfacciataggine. Ci si inchina, si bacia il vassoio d’argento per poi posare l’offerta...”
“È il tuo regalo di compleanno... goditelo.” Tagliò corto Varasa, mentre Molag Bal teneva la testa mozza dell’elfo tra le pinne, contemplandola come una pietra preziosa.
“E chi sarebbe lo sventurato?” Biascicò, in un delirio di potenza.
“L’ennesimo sciocco che i sacerdoti di Boethiah mi hanno sguinzagliato contro.”
“Ha conservato una scintilla di vita, è quasi perfetta...” Commentava, ad ali spiegate e sollevando il trofeo in alto, in alto: parve conficcarlo in una crepa nel soffitto. “Diventi sempre più brava, schiava.”
“Me l’hanno già detto stanotte... per insultarmi.”
“Ah, ovviamente...” Un artiglio le strattonò via la veste macchiata di sangue. “Pretendo anche questo... da sola non mi sembra abbastanza.”
Certo, gli umori sulla stoffa. Molag Bal sembrava storcere le labbra quando assaporava il sangue del seguace di Boethiah, ma banchettava con piacere quando si nutriva dei sentimenti che le scorrevano nelle vene.
“Ha un sapore disgustoso.” Commentò. Varasa avrebbe voluto ridere, e intrattenere per una volta un dialogo che non fosse uno scambio di adulazioni e minacce. Invece, inclinò il capo e represse un sorriso.
“Lo trovi divertente, mh?” Si eclissò verso il trono, in una chiazza buia del santuario. “Pensa quanto mi divertirei io ad infilzare le tue amate falene, a trasformare gli arazzi in un puntaspilli.”
Un artiglio le strinse il cuore, e non era Molag Bal.
“Vi prego, non fatelo. Mi chiedo perché esitiate, forse attendete il momento giusto...”
“No.” Ancora quegli occhi, lucidi e sgranati. “Possono rimanere. Non mi danno alcun fastidio.”
“Allora perché...”
“Niente domande!” Sibilò, mostrando le zanne. “Non riposerai, passerai le ore del giorno ad intrecciare le ghirlande che decoreranno l’altare e il santuario. Quando mi risveglierò... voglio che sia tutto perfetto, altrimenti...” Nascosta sotto il velluto, l’oscurità divenne più buia. “Altrimenti... mi divertirò con le tue dita. Coi tuoi capelli. Con le tue gambe...”
Non sapeva dove si ritirasse. A Coldharbour, magari, dove anche i ghiacci sono perenni e non si trasformano mai in acqua, dove esistono vulcani sotterranei che emettono gas sulfurei, dalle fenditure che spezzano il bianco assoluto della neve.
Era probabile che gli concedesse una minima parte di sé, perlopiù infima. Rovesciò i fiori e li osservò, persa nel loro profumo pungente, nel polline acre. Cominciò da una campanula: con la punta di un ago bucò un baccello di palude e lasciò che un nastro di seta viola vi s’innestasse. La bellezza degli ornamenti avrebbe decretato quanto amasse il principe, quanto fosse importante per lei.
Alcune corone somigliavano a collane stravaganti, altre erano ricche stole per cui le nobildonne avrebbero compiuto follie. La novità svanì presto, e Varasa si ritrovò a fantasticare sui modi più improbabili per dare vita all’antro. Vita? Una cripta sarebbe stata un’allegra mascherata, a confronto. Posò lo sguardo verso il padrone, che dormiva ritto sul trono, immobile come una statua. Aveva varcato i confini dell’Oblivion: le restava solo un involucro demoniaco, dai lineamenti nobili, fatto apposta per alimentare la lussuria.
“Sarò io ad usarti come un puntaspilli...” Gli sfiorò le ciocche vitree, di un nero dai riflessi verdastri. E poi la pelle, liscia e anfibia; le membrane delle ali quasi trasparenti come quelle dei pipistrelli. Senza pensarci troppo su, gli attorcigliò la folta corolla di campanule attorno al collo. Poi fu la volta dei funghi di palude, che legò in vita: sembrava una cintura pacchiana, dalle perle enormi e vistose. E ancora, il cranio di un cerbiatto, le vertebre di uno skeever come anelli attorno alle estremità delle pinne. Tra un ornamento e l’altro indugiava sui tendini tesi, su ciò che di mortale c’era oltre la deformità del suo aspetto. Una volta Gunnar, promesso sposo, e ora...
“Mi punirai di sicuro, ma non posso rinunciare allo scherzo. No, non posso...”. Rise. Se Molag Bal avesse immaginato cosa significasse per lei venerarlo, molto probabilmente l’avrebbe bandita in una delle prigioni peggiori del suo regno. Si assicurò che le altre corolle adornassero l’altare e che manciate di petali fossero sparse a terra, quanto ai fiori più belli... li aveva riservati a lui, come promesso.
Si prostrò di fronte il baldacchino che sovrastava il trono, ricoperto di garza blu. I capelli scompigliati della dunmer gli sfioravano i piedi, mentre una mano porgeva l’ampolla d’olio profumato, nella speranza che si risvegliasse presto... purtroppo s’appisolò, e fu lui a farla sobbalzare con un calcio.
“È ora.” Sghignazzò, tronfio. “Non un lavoro encomiabile, ma di certo da apprezzare. Hai preparato le lodi per questo grande giorno, schiava?”
Varasa si portò in piedi, languidamente. Attorno al corpo un lenzuolo di velluto, in attesa che le desse altre vesti. Rimase in silenzio, a contemplarlo coi fiori indosso, il cui tocco soffice era incapace di percepire, di comprendere.
Il tempo scorreva, e lei lo scrutava in silenzio, con la trepidazione di chi desidera una grazia speciale.
“Sto aspettando!” Tuonò, la voce cavernosa scosse le fondamenta della casa abbandonata e le campanule ballarono sul bacile.
Gioia, allegria. Non avrebbe mai pensato di scoppiare a ridere in quel modo, nel vederlo illuminato da un lampo di luce, con tutti quei gingilli. Molag si spazientì non poco.
“Volete le lodi? Eccovele, padrone: siete bellissimo.”
L’argento di una caraffa gli restituì l’immagine della vergogna. Il signore della dominazione strinse le pinne, s’avventò contro di lei e l’avvolse con la coda, rabbioso, offeso...
“Perché sprecare vite innocenti...” singhiozzò Varasa, mentre le mordeva il collo, “perché farlo per degli oggetti inanimati, indegni... quando non valgono quanto voi? Oh, sì... Molag Bal! Per me siete bellissimo, la lapide dura ed eterna scalfita dai colori delle ghirlande funebri...”
Si ritrasse, e per una frazione di secondo le parve inebetito, incredibilmente umano.
“Non puoi fare sul serio.”
“E invece sì.” Sorrise, sfiorandogli il petto con l’unghia. “Chil’a. Ha senso, perché le parole sono inutili, oggi. Sono sempre state inutili, nel bene e nel male. Solo silenzio ed adorazione, per donarvi obbedienza e potere. Be’... buon compleanno.”
Era riuscita a stupirlo. Di colpo mollò la presa, lasciò che lei riposasse tra le sue braccia... aveva trasformato l’ira in passione. Sapeva di chi era la colpa, prima o poi si sarebbero incontrati. Se l’influenza di quell’ubriacone riusciva a penetrare persino nel gelo della dimora solitaria... la sua forza vacillava. O forse era Varasa, l’elfa imprevedibile e giocosa... aveva capito perché s’era affezionato a lei. Qualcosa, in quel corpo senza vita e contaminato, resisteva al suo potere.
Si scrollò via le corone, la obbligò a coprirsi con gli stessi fiori con cui aveva osato canzonarlo, con le falene che le volteggiavano dietro. Da secoli non accarezzava un mortale, senza provare l’impeto di possederlo. Era successo con Lamae Beolfag, prima che lo disprezzasse, prima che gli ritorcesse contro la sua mostruosità...
Quella stupida sanguisuga... lo osservava intensamente. Sì, pareva che lo adorasse davvero...
Un rumore, però, attirò la sua attenzione. Dei passi timidi, circospetti... Varasa si staccò da lui e indossò mantello e cappuccio, riluttante.
“Il primo seguace della giornata...” Commentò, delusa. “Chissà se ha diritto ad un premio speciale.”
“Lo vedremo.” Sogghignò il principe daedrico, rendendosi invisibile e sparendo nella tenebra del sacrario.



 Un piccolo intermezzo tra Il sonno della belva e Il gufo e l’usignolo: non pretende di essere chissà cosa, solo un episodio che avevo immaginato all’inizio di questo mese, e che sono riuscita a finire solo ora. Miei nemici: viaggi e impegni quotidiani, e quella sensazione che ti dice “non è il momento giusto”. Però, quando posso scrivere, sono sempre felice e spero di continuare a farlo spesso... A dire il vero, voleva essere anche una storia a tema “fine ottobre – inizio novembre”, quindi adatta alla stagione e ai suoi simboli. Forse mi sono sbilanciata un po’ con Molag Bal, ma non avevo intenzione di fare qualcosa di serio, a tutti i costi. Ho preso in considerazione i consigli ricevuti nelle recensioni, cercando di sviluppare uno stile più semplice ma personale. Be’, che dire? Buon Halloween e buona festa di Ognissanti, a presto! :)
  
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