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Autore: Ornyl    30/10/2015    1 recensioni
" E sì andò la bisogna che, piacendo l'uno all'altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più disiderava ciascuno"
Decameron, IV, 5
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Camminava a fatica, stringendo attorno al viso il cappuccio della giacca. Nello zaino aveva portato tutto ciò che sarebbe servito e bastato: una busta di ghiaccio sintetico, antidoto rapido per la rabbia, un coltello e un sacco di iuta.
Dormivano profondamente, vinti dal tepore della minestra, unico rimedio alla tempesta che infuriava e che avrebbe messo in pericolo la loro casa, per l'ennesima volta, chiusi com'erano invece dentro il bunker della cantina.
Gli inverni non erano così violenti e freddi, diceva sempre papà.
 L'Emporio, mantenete l'Emporio.
Fu l'ultima parola che sentì dire a papà, poi lui chiuse gli occhi e reclinò la testa sul cuscino. Il tifo si era portato via anche lui, dopo aver mangiato anche la mamma. Michael aveva chiamato immediatamente il becchino, Jerome e Claude lo spogliarono e lo lavarono accuratamente. Quanto a lei, Lisabeth, doveva filare in camera propria e preparare gli abiti per il funerale. Sarebbe stato un colpo per tutta la zona est della Colonia, ed effettivamente era stato così, con i due commessi e il ragazzo delle consegne in lacrime e gli altri abitanti col cappello in mano.


Forse quella notte avrebbero perso anche lei, pensava, dispersa nella tempesta per andare a cercare un lurido garzone di bottega scampato ai controlli del Polo Mercantile Autonomo e sparito nel nulla dopo una passeggiata nella Landa insieme ai suoi gentili datori di lavoro.
Si è allontanato ed è sparito, lo abbiamo cercato da qualsiasi parte. Forse l'hanno preso i mutocani, accidenti, dannate bestiacce imbottite di radiazioni!
Lisabeth avanzava lentamente, voltandosi talvolta alle sue spalle. La zona est della Colonia 3 era un mucchietto di case nerastre che si ergevano a malapena in mezzo al freddo e tagliente vento di quell'inverno strambo e malato, dall'aria carica di tutte le schifezze masticate dalle nuvole e gettate con disprezzo su quella Terra sofferente. Ogni anno l'inverno si faceva sempre più violento e le case della zona ovest non sarebbero sopravvissute: sarebbero rimasti solo i bunker delle cantine, pieni di roba in scatola e di lampade UVA per sopravvivere a quei mesi infiniti e bui, stretti in quelle pareti di cemento armato e metallo, tutte combinazioni e tasti elettronici e luminosi da premere.
Lisabeth guardava in basso, verso i suoi piedi, cercando di trovare almeno la metà del ciondolo a forma di cuore che gli aveva regalato. Un pazzo, Leslie era stato un pazzo. E altrettanto folle era stata lei nel donargliela, buttando sotto gli occhi di tutti quella relazione che non poteva esistere. Non tra un figlio di Esiliati e la figlia dei coloni di St. Jeremiah, ridotta a mucchi di cenere e macerie.

I mutocani si muovevano a piccoli branchi di tre, quattro elementi, per poi riunirsi nel luogo marcato dal maschio alpha. I loro denti erano diventati coltelli affilatissimi per via del calcio utilizzato prima come riducente dell'uranio, e un loro morso provocava una ferita dolorosa e profonda, possibile veicolo per rabbia e infezioni. Se si era fortunati, la parte lesa andava in necrosi.
Così avevano descritto i mutocani alla Colonia 3, e Leslie era sparito da ormai una settimana. Non poteva essere vivo, o almeno non più, e lei l'avrebbe seppellito in incognito, almeno per fargli sapere che non l'aveva affatto dimenticato. Avrebbe sfidato l'inverno, ed era ciò che aveva fatto.
Non c'erano nemmeno alberi nella Landa, niente cresceva; e ciò che restava e cresceva, che fosse una pianta o un animale non mutante, non sopravviveva che per poco tempo.
Alla Colonia 3 dicevano così e tutti prendevano questo come una legge universale.
Niente cresceva nella Landa, niente prosperava o faceva prosperare: solo erbacce velenose e mutocani che si scannavano tra di loro per i conigli selvatici e per le talpe.


Si era allontanata ormai abbastanza dall'abitato per poter urlare il suo nome, nota stonata nei lamenti di quel vento gelido e implacabile. Ogni due metri percorsi, che cercava di misurare con lo sguardo e con i passi, urlava quel nome tanto amato e tanto temuto, capace di farle passare le più dolci notti insonni dei suoi diciotto anni.
Leslie come Lisabeth, doppia L in quello strano caso, in quello strano rapporto che la gente avrebbe malvisto e a cui avrebbe guardato con divertito disprezzo.
Ma tanto l'avrebbe trovato morto, morto assiderato o sbranato dai mutocani, con le ferite in necrosi avanzata. Voleva solo dargli la sepoltura che meritava, che meritava ogni essere umano in una zona minacciata da strane bestie e da strani veleni, da quell'aria avvelenata dagli stessi che ora ne temevano gli effetti negativi e mortali.
Lisabeth si spinse per altri due metri, poi i suoi occhi captarono una sagoma nerastra in mezzo al bianco irreale. La sagoma, che sembrava estendersi in verticale, non dava alcun segno di movimento nè faceva alcun rumore. Stringendo le bretelle dello zaino e scrollandosi la neve dal cappotto, Lisabeth si mise a correre a perdifiato, respirando a grandi polmoni e cercando di sopportare quel vento pungente che l'avrebbe ferita e fatta ammalare. Ma tanto in quella Landa non si sopravviveva, non si sopravviveva nemmeno alla Colonia 3, perchè era lì che erano morti mamma e papà, sul grigiastro letto di un ospedale ancora segnato dal Disastro, con i neon che lampeggiavano per i corridoi e le crisi di pianto di infermieri e di infermiere.
E Lisabeth avrebbe riconosciuto ogni particolare di quel viso, di quell'amato viso lentigginoso e chiaro, con quei capelli color fiamma contro i propri, corvini e cupi come le notti di quella Landa, come il suo domani, tempia a tempia e guancia a guancia così come stavano. E l'aveva sicuramente riconosciuto anche in quel terribile stato, legato a quel tronco marcio da una catena e pugnalato ai fianchi, con le macchie nerastre di sangue incrostate sulla divisa da garzone, quella che proprio lei aveva rammendato il giorno prima della sua sparizione.
Era bello anche in quell'espressione glaciale, mortalmente glaciale, col viso chino su un lato e i capelli intrecciati con la neve.
Si tolse lo zaino dalle spalle, lo poggiò per terra e ne tirò fuori il coltello e la busta di ghiaccio sintetico. Tenendo questa coi denti, impugnò il coltello e lo infilzò nel suo collo pallido, violaceo di quella morte violenta che gli era venuta dalle mani di coloro di cui si fidava.
Di cui entrambi si fidavano.
Non si poteva piangere, o almeno non in quel momento. Non avrebbe disturbato il rituale di quella sepoltura fredda e terribile, uscita da un incubo, da un incubo fatto di un inverno acido e malato sullo sfondo di una città di macerie, di derelitti, di scampati ad una catastrofe.
Le sue lacrime se l'era prese il freddo, ghiacciandole sulle sue guance guance.
Lisabeth coprì il suo collo mozzato con la busta di ghiaccio sintetico, per bloccare il sanguinamento, e pose la sua testa dentro il sacco di iuta.
Era tempo di tornare a casa, con le orme sulla neve ancora fresche, prima che il vento le spazzasse via.

 
   
 
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