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Autore: theuncommonreader    31/10/2015    6 recensioni
Non tutte le anime gemelle hanno la fortuna di incontrarsi.
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Questa è la storia di come non ci siamo mai incontrati.
Non che non ti abbia cercato, bada bene; per tutta la vita sono stato convinto che un giorno, svoltando un angolo sul sentiero dell’esistenza, sarei inciampato in te. O tu in me. Non sono mai stato un tipo competitivo: è il risultato, che conta.
Tante volte ti ho immaginato, dandoti sempre volti differenti; forse perché non sapevo cosa desiderare, forse perché i miei desideri sono cambiati con me.
Siamo cresciuti assieme, tu ed io, anche se non ti conosco.

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Scritta per l'event "Drabble Days 16-17 ottobre 2015" indetto dal gruppo FB "We are out for prompt".
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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seduto in quel caffé io non pensavo a te

WE ARE OUT FOR PROMPT-  DRABBLE DAYS 16-17 OTTOBRE 2015

Titolo: seduto in quel caffé, io non pensavo a te

Personaggi: Originale.

Prompt © HollyMaster Efp: Originale. "Questa è la storia di come non ci siamo mai incontrati.

OoOoOoOoOoO

Questa è la storia di come non ci siamo mai incontrati.

Non che non ti abbia cercato, bada bene; per tutta la vita sono stato convinto che un giorno, svoltando un angolo sul sentiero dell’esistenza, sarei inciampato in te. O tu in me. Non sono mai stato un tipo competitivo: è il risultato, che conta.

Tante volte ti ho immaginato, dandoti sempre volti differenti; forse perché non sapevo cosa desiderare, forse perché i miei desideri sono cambiati con me.

Siamo cresciuti assieme, tu ed io, anche se non ti conosco.

Voglio chiederti formale perdono per averti infilato a forza nei panni del principe delle favole della mia infanzia: dubito sia stata un’esperienza piacevole. Avrai sentito un tirare poco confortevole all’altezza del cavallo, per non parlare del prurito del poliestere sulla pelle nuda.

Mi scuso: la mia idea di principe, allora, era piuttosto conforme allo standard. A mia discolpa, l’immagine tua e mia, due nobili cavalieri su bianchi destrieri divorati dall’orizzonte di fuoco, sembrava piuttosto edificante, al me stesso bambino, che raramente si soffermava sui dettagli pratici che mio padre stima tanto importanti.

Quello fondamentale mi sfuggiva e non mi sfuggiva: della principessa mi curavo poco. Non era che un mezzo per partire con te all’avventura: e quante vivevamo, noi e il nostro scudiero - nelle mie fantasticherie, il tizio tarchiato dall’aria simpatica così tipico dei film a sfondo storico, quel semplicione di buon cuore che darebbe la vita per il suo padrone. Ma ce n’era solo uno, che potesse sparire a convenienza, e lasciarci soli ai nostri discorsi profondi che il suo poco sottile cervello di villico non avrebbe saputo come interpretare (chiaramente, mi mancavano le basi storiche per una ricostruzione accurata, ai tempi. Ho rimediato).

Tornando a noi. Ripensandoci ora, gli ostacoli che mettevo sul nostro cammino non erano poi tanto irrealistici: il fantastico non l’ho mai apprezzato molto, e ai mostri davo poca confidenza. Abbondavano i cavalieri neri, anonime principesse dalle lunghe trecce, col pregio di evaporare anch’esse quando l’occasione lo richiedeva.

La mia immaginazione ha sempre avuto i suoi limiti.

L’adolescenza ha trasformato me in un ammasso ambulante di brufoli, e a te ha fatto spuntare un paio di seni.

Non che provassi eccessiva curiosità per quella parte di anatomia femminile celata da quello strumento di tortura chiamato "reggiseno" – certo, meno di molti altri. Né mi atterrivano particolarmente. A dire la verità, sotto l’hype dell’ingresso nella pubertà, mi risultavano piuttosto indifferenti. Anche stringerli sotto le dita, piccoli e sodi, non mi provocava quel rimescolio nelle parti basse che pareva mandare in calore i miei amici.

Anche così, c’eri ancora, da qualche parte: sepolto sotto quanto ci si aspettava da me.

Non sono mai stato bravo a soddisfare le altrui aspettative, comunque. Non di mio padre, che mi voleva geometra, o di mia madre, che mi vedeva linguista. Sono finito ragioniere. Voti nella media, amici nella media, ragazze nella media – non mi aspettavo di più, né tantomeno lo pretendevo.

C’era un campo, tuttavia, in cui rasentavo l’eccellenza. Nel mentire a me stesso, non avevo eguali. Sapevo soffocare il desiderio di te con la maestria di un contadino che spezza il collo di un pollo. 

Non di quel “te” con le tette, che ti stavano strette quanto il costume da principe delle fiabe; il te reale, quello che non ho mai incontrato, e che non aspetto stasera, come tutte le sere, seduto in un caffè a non pensarti.

Una ragazza mi sorride.

Esteticamente, suppongo non sia male. Capelli ricci, una massa; due grandi occhi scuri su un viso abbronzato. La bocca larga ma non troppo, rosea. Fossi ancora nella prima adolescenza – ma che dico, nella seconda adolescenza, nei primi vent’anni, saresti potuto essere quella ragazza. Avere un aspetto del genere.

Adesso, la penso diversamente. Ho ancora un innato talento nel mentire a me stesso, ma ho raggiunto, penso, quel momento della vita in cui uno deve cominciare a dirsi qualche verità, tra sé e sé. Non troppe alla volta, perché il troppo stroppia.

Alcune. Per esempio, che le donne, in senso romantico, non mi hanno mai propriamente ispirato. Per esempio, che non ti ho ancora incontrato.

Credevo di sì, ne sono stato certo almeno un paio di volte. Col mio primo ragazzo mi pareva di essere Eva nell’Eden, e la mela aveva il sapore della libertà – acuto della menta del dentifricio e dolciastro di patatine fritte.

Ci baciammo nella sua macchina, adolescenti di venticinque anni. Gli tolsi gli occhiali dal naso, affondai la lingua nella sua bocca come la lama di un coltello nella sua carne. Avrà pensato che volevo mangiarlo nel senso biblico del termine, povero Gabriele.

Pensavo fossi lui. Pensavo fossi Christian. Quello che ho cercato dopo, quando la sensazione esilarante di mettere il piede oltre il precipizio, con Gabriele, si era acquietata.

Christian non avrebbe mai guardato uno come me, normalmente, il che in qualche maniera mi rassicurava: potevi essere tu, in quel modo inaspettato da romanzo rosa. Mi toccava come fossi un tesoro prezioso, un momento; poi mi stringeva troppo, mi soffocava. Ho passato troppi anni a subire me stesso, per subire un altro.

Ma tutte queste cose le sai, tu. E non deve farti troppo piacere risentirle dalla mia voce mentale, in questo caffè dove me ne sto seduto a sudare, in attesa di una cioccolata calda. E non di te, che non ci sei. A non pensarti.

Non ti penso, e non ti aspetto.

Quando guardo fuori dalla vetrina, non cerco il tuo viso tra la folla, non lo compongo come un puzzle, non lo risolvo come una formula matematica che tanto facilmente paio in grado di domare.

Ho un libro, di fronte a me. Storia Medievale. La ragazza lo ha visto, ha scosso il capo come fossi pazzo, e i ricci scuri le nascondono il viso carino mentre lo piega in modo da guardare altrove.

Scuoteresti il capo anche tu, forse. O forse, capiresti questa mia passione scoperta da poco, ne sorrideresti compiaciuto. Ci sei tu, tra le pagine di questo libro. Ci sei tu e ci sono io, e portiamo armature e assaliamo regni lontani (la mia mente dipinge una scena ben più realistica di quelle che, tanti anni fa, animavano le mie fantasticherie).

Non ho ancora imparato a dirmi questa verità: solo mascherata di bugia, riesco a sussurrarla a me stesso. Quanto io dipenda da te. Dall’attesa di te.

Ma io non ti attendo, affatto.

E, con me stesso, sono ancora il più bravo a mentire.

   
 
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