WE ARE OUT FOR PROMPT- DRABBLE DAYS 16-17 OTTOBRE 2015
Titolo: seduto in quel caffé, io non pensavo a te
Personaggi: Originale.
Prompt © HollyMaster Efp: Originale. "Questa è la storia di come non ci siamo mai incontrati.
OoOoOoOoOoO
Questa è la storia di come non ci siamo mai incontrati.
Non che non ti abbia cercato, bada bene; per tutta la vita
sono stato convinto che un giorno, svoltando un angolo sul sentiero dell’esistenza,
sarei inciampato in te. O tu in me. Non sono mai stato un tipo competitivo: è
il risultato, che conta.
Tante volte ti ho immaginato, dandoti sempre volti
differenti; forse perché non sapevo cosa desiderare, forse perché i miei
desideri sono cambiati con me.
Siamo cresciuti assieme, tu ed io, anche se non ti conosco.
Voglio chiederti formale perdono per averti infilato a
forza nei panni del principe delle favole della mia infanzia: dubito sia stata
un’esperienza piacevole. Avrai sentito un tirare poco confortevole all’altezza
del cavallo, per non parlare del prurito del poliestere sulla pelle nuda.
Mi scuso: la
mia idea di principe, allora, era piuttosto
conforme allo standard. A mia discolpa, l’immagine tua e mia, due
nobili cavalieri su bianchi destrieri divorati dall’orizzonte di
fuoco, sembrava piuttosto
edificante, al me stesso bambino, che raramente si soffermava sui
dettagli
pratici che mio padre stima tanto importanti.
Quello
fondamentale mi sfuggiva e non mi sfuggiva: della
principessa mi curavo poco. Non era che un mezzo per partire con te
all’avventura:
e quante vivevamo, noi e il nostro scudiero - nelle mie
fantasticherie,
il tizio tarchiato dall’aria simpatica così tipico dei film
a sfondo storico, quel semplicione di buon cuore che darebbe la vita
per il suo padrone.
Ma ce n’era solo uno, che potesse sparire a convenienza, e
lasciarci soli ai
nostri discorsi profondi che il suo poco sottile cervello di villico
non avrebbe
saputo come interpretare (chiaramente, mi mancavano le basi storiche
per una
ricostruzione accurata, ai tempi. Ho rimediato).
Tornando a noi. Ripensandoci ora, gli ostacoli che mettevo
sul nostro cammino non erano poi tanto irrealistici: il fantastico non l’ho mai
apprezzato molto, e ai mostri davo poca confidenza. Abbondavano i cavalieri
neri, anonime principesse dalle lunghe trecce, col pregio di evaporare anch’esse
quando l’occasione lo richiedeva.
La mia immaginazione ha sempre avuto i suoi limiti.
L’adolescenza ha trasformato me in un ammasso ambulante di
brufoli, e a te ha fatto spuntare un paio di seni.
Non che
provassi eccessiva curiosità per quella parte di
anatomia femminile celata da quello strumento di tortura chiamato
"reggiseno" – certo, meno di molti altri. Né mi atterrivano
particolarmente. A dire la verità, sotto l’hype
dell’ingresso nella pubertà, mi
risultavano piuttosto indifferenti. Anche stringerli sotto le dita,
piccoli e
sodi, non mi provocava quel rimescolio nelle parti basse che pareva
mandare in
calore i miei amici.
Anche così, c’eri ancora, da qualche parte: sepolto sotto
quanto ci si aspettava da me.
Non sono mai stato bravo a soddisfare le altrui aspettative,
comunque. Non di mio padre, che mi voleva geometra, o di mia madre, che mi
vedeva linguista. Sono finito ragioniere. Voti nella media, amici nella media,
ragazze nella media – non mi aspettavo di più, né tantomeno lo pretendevo.
C’era un campo, tuttavia, in cui rasentavo l’eccellenza. Nel mentire a me stesso, non avevo eguali.
Sapevo soffocare il desiderio di te con la maestria di un contadino che spezza
il collo di un pollo.
Non di quel “te” con le tette, che ti stavano strette quanto
il costume da principe delle fiabe; il te reale, quello che non ho mai
incontrato, e che non aspetto stasera, come tutte le sere, seduto in un caffè a non
pensarti.
Una ragazza mi sorride.
Esteticamente, suppongo non sia male. Capelli ricci, una
massa; due grandi occhi scuri su un viso abbronzato. La bocca larga ma non
troppo, rosea. Fossi ancora nella prima adolescenza – ma che dico, nella
seconda adolescenza, nei primi vent’anni, saresti potuto essere quella ragazza.
Avere un aspetto del genere.
Adesso, la
penso diversamente. Ho ancora un innato talento
nel mentire a me stesso, ma ho raggiunto, penso, quel momento della
vita in cui
uno deve cominciare a dirsi qualche verità, tra sé e
sé. Non troppe alla volta, perché il troppo stroppia.
Alcune. Per esempio, che le donne, in senso romantico, non mi hanno
mai propriamente ispirato. Per esempio, che non ti ho ancora incontrato.
Credevo di sì, ne sono stato certo almeno un paio di volte.
Col mio primo ragazzo mi pareva di essere Eva nell’Eden, e la mela aveva il
sapore della libertà – acuto della menta del dentifricio e dolciastro di
patatine fritte.
Ci baciammo nella sua macchina, adolescenti di venticinque
anni. Gli tolsi gli occhiali dal naso, affondai la lingua nella sua bocca come
la lama di un coltello nella sua carne. Avrà pensato che volevo mangiarlo nel
senso biblico del termine, povero Gabriele.
Pensavo fossi lui. Pensavo fossi Christian. Quello che ho
cercato dopo, quando la sensazione esilarante di mettere il piede oltre il precipizio, con
Gabriele, si era acquietata.
Christian non avrebbe mai guardato uno come me, normalmente,
il che in qualche maniera mi rassicurava: potevi essere tu, in quel modo inaspettato da romanzo rosa. Mi toccava come fossi
un tesoro prezioso, un momento; poi mi stringeva troppo, mi soffocava. Ho passato
troppi anni a subire me stesso, per subire un altro.
Ma tutte queste cose le sai, tu. E non deve farti troppo
piacere risentirle dalla mia voce mentale, in questo caffè dove me ne sto seduto a
sudare, in attesa di una cioccolata calda. E non di te, che non ci sei. A non
pensarti.
Non ti penso, e non ti aspetto.
Quando guardo fuori dalla vetrina, non cerco il tuo viso tra
la folla, non lo compongo come un puzzle, non lo risolvo come una formula
matematica che tanto facilmente paio in grado di domare.
Ho un libro, di fronte a me. Storia Medievale. La ragazza lo
ha visto, ha scosso il capo come fossi pazzo, e i ricci scuri le nascondono il
viso carino mentre lo piega in modo da guardare altrove.
Scuoteresti il capo anche tu, forse. O forse, capiresti
questa mia passione scoperta da poco, ne sorrideresti compiaciuto. Ci sei tu,
tra le pagine di questo libro. Ci sei tu e ci sono io, e portiamo armature e
assaliamo regni lontani (la mia mente dipinge una scena ben più realistica di
quelle che, tanti anni fa, animavano le mie fantasticherie).
Non ho ancora imparato a dirmi questa verità: solo
mascherata di bugia, riesco a sussurrarla a me stesso. Quanto io dipenda da te.
Dall’attesa di te.
Ma io non ti attendo, affatto.
E, con me stesso, sono ancora il più bravo a mentire.