Titolo: hell or hallelujah
Personaggi: Originali.
Prompt © Alex Lucci, Aris Parcker, Giada Fraccaroli: Originale. Mai condividere un taxi una sera di pioggia; Mario/Ro. La prima volta che Mario la bacia è anche quella volta che Ro lo batte sul tempo; Mario/Ro. Mario non finirebbe mai di vedere le mani di Ro, e di sentire la sua voce rauca. Filippo lo prende in giro per questo, "Fai schifo quando sei innamorato, Ma"; Mario/Ro, dal pov di Ro la prima volta che in pubblico Mario l'ha baciata; Mario/Ro. Una notte passata a parlare di tutto e niente.
OoOoOoO
La voce femminile che annuncia l’ennesimo treno in partenza,
gracchiando dagli altoparlanti, copre gli ultimi saluti che Mario rivolge al
fratello che se ne va. Gilda è già dentro, che rivolge occhiate adoranti oltre
il finestrino del vagone di seconda classe.
Con una lieve pacca sulla spalla, Mario lascia andare
Filippo, che raggiunge l’amica e prende posto accanto a lei; ma Gilda non
sembra badargli molto, i graziosi occhi scuri puntati su Mario, che lo divorano un'ultima volta
come stesse partendo per il fronte.
Ro non ci fa troppo caso. Non riesce a provare una reale
gelosia per quella ragazza, carina in quel modo peculiare che le ha ispirato
simpatia dal primo momento. Infagottata in quella maglietta dei Muse che tanto
le invidia, Gilda è troppo genuinamente trasparente per poterle volere male.
Senza filtri.
Forse, Ro le invidia più questo tratto che non la maglietta.
E le invidia quello che c’è sotto.
Mario si volta verso di lei, sorridendo il suo sorriso
tranquillo, che di solito le provoca sempre una gran sensazione di… sollievo.
Ma, questa volta, Ro con lo sguardo cerca dietro quel sorriso una traccia di
disagio.
Perché sa che l’ha vista.
E allora, si asciuga le mani sudate sui jeans, e aspetta che
lui percorra quei due passi che li separano, avvicinandosi alla panchina dove
lei siede. Con l’aria di non avere alcuna fretta, Mario le crolla vicino con un
sospiro, e l’aria soddisfatta di chi ha fatto i compiti a casa - ma anche un pelo
triste.
Ro vorrebbe allungare una mano e stringere la sua, ma non sa
bene come reagirebbe, cosa si nasconda dietro quella che potrebbe essere solo
una facciata di placidità. Mario sembra sempre così, come se non avesse un
problema al mondo, e niente lo mettesse mai in difficoltà.
Le prende lui la mano, e la stringe, carezzandole il pollice
come ha preso a fare ultimamente – un piccolo gesto che, a Ro, fa passare
brividi fino alla base della spina dorsale.
Tira un filo di vento, caldo, incandescente, che scompiglia
il foulard leggero che porta al collo.
La mano di Ro trema un poco, in quella di Mario, e quando
lui se ne accorge un’espressione di preoccupazione profonda gli attraversa il
viso come una meteora e si schianta sulla linea delle sopracciglia.
« Ro? »
« … Tu l’hai
vista. »
La frase le scappa
dalla bocca, breve e concisa come raramente le riesce di essere. Solo che ogni
parola sembra grattarle la gola, e la voce è persino più roca del solito.
Mario non fa il
finto tonto. E non le lascia la mano.
« Sì, l’ho vista. »
« E… che cosa ne
pensi? », domanda Ro, che distoglie lo sguardo e fissa il binario vuoto di
fronte, i pendolari raccolti davanti allo schermo che mostra gli orari del
treno. Sente il bisogno di alzarsi e scappare, confondersi tra di loro. Partire.
E anche di
restare, e infatti resta, perché Mario le tiene la mano e lei non vuole davvero
sciogliersi da quella stretta.
Anche se lui ha
visto la sua carta di identità. La foto. La bugia che è scritta sotto, in
piccoli caratteri squadrati sulla carta di un bianco sporco.
« Cosa ne penso? »
Ro si azzarda a guardarlo mentre fa quell’espressione che
fa sempre, come se ogni quesito fosse la domanda chiusa di un esame e lui
dovesse trovare quell’unica risposta, quella giusta. Che si tratti del tempo, o
di offrirle la sua opinione su qualunque argomento.
E ce l'ha sempre la
risposta giusta, Mario.
« Penso che sei
fortunata. Chiunque altro nelle fototessere sembra un deportato. O un
trafficante di droga. O che gli sia morta la nonna. »
Il respiro torna nei polmoni di Ro così
improvvisamente da provocarle una fitta alle costole. Stringe le labbra, che
tremolano – sente gli sguardi degli sconosciuti che attendono il prossimo
treno, ma non le interessa più scappare tra loro. O se la vedono piangere.
Quando Mario china il viso per baciarla, Ro sta già posando
le labbra sulle sue.
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Quella notte la passano insieme, nel suo buco a Testaccio.
Ro è sdraiata un po’ su di lui, un po’ sul materasso
scalcagnato.
Si è levata il foulard, abbandonandolo sul pavimento – miracolosamente pulito, per una volta.
Mario le passa un dito sul profilo del
naso, così delicato; scende lentamente e percorre la curva delle labbra, così
graziosa. Più in basso ancora e arriva al mento, piccolo e rotondo; e più giù,
sulla colonna del collo, e sfiora lieve la pelle caldissima, sudata perché a
Roma d’estate anche di notte pare mezzogiorno.
Il suo polpastrello si arresta sul rigonfiamento lievissimo
sulla gola, e continua a sfiorarlo fino a che non sente incresparsi di
pelle d’oca.
« Davvero non vuoi
sapere nulla? », domanda Ro, e ad ogni parola il pomo d’Adamo sobbalza. Mario
lo trova carino.
« Sì, certo. Ma
vuoi parlarmene? »
Lei pare
rifletterci, socchiude gli occhi pallidi.
« Stasera no. »
« Un’altra sera,
allora. » Mario allunga le labbra e le bacia la testa chiara. Sotto le labbra,
i capelli sembrano paglia profumata.
La voce di Billy
riempie il silenzio. Mario non capisce una parola di inglese – è Filippo il
linguista, in famiglia – ma nella musica di Idol ci sente la poesia con la pancia.
« E davvero non
sei arrabbiato? »
Ro sembra incapace
di stare tranquilla. Mario le carezza un braccio esile, l’altra mano ancora sul suo
collo. Gli pare un gesto intimo come se stessero facendo l’amore.
« Arrabbiato, no.
Dispiaciuto. » Stringe la presa delle dita per istinto, certo che stia per
allontanarsi. « Non per quello che
pensi. Pensavo che ti dovresti pure fidare di me, adesso, sai. Però un po’ ti
capisco. Non fino in fondo, perché non penso di riuscirci », le confessa,
onesto. « Però un po', ecco. »
Vorrebbe essere
più bravo, con le parole.
Glielo dice
sempre, Filippo, il linguista. Glielo ha detto anche l’altro giorno, mentre
dividevano il taxi con Gilda che ronfava sulla spalla di suo fratello, spompata
dalla gita ai Musei.
Pioveva che Dio la
mandava, e mai dividere un taxi le sere di pioggia, perché gli pare che la
gente diventi un po’ troppo sincera, in quei frangenti.
Come la sera che
ha incontrato Ro e lei gli è entrata nel taxi di straforo, e Mario era cotto di
lei prima ancora di averla riaccompagnata a casa, tutta mezza affogata di
pioggia e con la sua ultima sigaretta tra le labbra.
Lo sa, Mario, eh.
Ma cosa ci può fare, se vorrebbe sempre stringere le dita sottili delle mani di
Ro, se la sua voce è un po’ come quella di Billy, di cui a volte non capisce
tutto, ma capisce abbastanza, e ci sente la poesia con la pancia.
Filippo ha sorriso
di lui, con una strafottenza eccessiva per uno che, quella notte, aveva
intenzione di dormire sotto il suo tetto; per qualche motivo, ha lanciato
un’occhiata a Gilda, che ronfava piano sotto la musica della radio.
“Che posso
farci?”, gli ha detto Mario, che non riesce a vergognarsene, in tutta onestà, e si
è guardato le mani sul volante e ha immaginato di stringere quelle di Ro nelle
sue.
Non gli interessa
troppo quello che sta sotto i vestiti di una persona, non gli è interessato
mai. Con ragazze, con ragazzi, l’importante è che, quando si levano la
maglietta per lui, lo facciano con gioia.
Adesso sta con una
ragazza che sta dentro il corpo di un ragazzo. Succede pure questo, a questo
mondo.
“Che poi, sai”, ha detto
Mario a Filippo, fissando senza astio il macchinone davanti al suo taxi, “Penso
ci siano modi peggiori di fare schifo.”
Quando glielo
racconta, a Ro, lei ha gli occhi lucidi. Si schiarisce la voce e sbatte le ciclia chiare, e lo
stringe un po’ di più.