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Autore: albelia    06/11/2015    0 recensioni
"Poi gli anni erano passati, e loro due erano sopravvissuto a tutto. A tutto.
Successo. Successo. Ancora successo. Concerti. Continenti. L’India. Droga. Successo. Ancora droga. Donne. Due matrimoni. Un divorzio.
Erano sempre lì.
Sempre più vecchi, sempre più malandati. Il loro amore si stava trasformando in odio, se ne rendevano conto benissimo. La cosa li divertiva."
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Lennon, Paul McCartney
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’uomo alla reception è stanco, sfoglia un quotidiano spiegazzato di qualche giorno prima e pensa a tutto quello che deve ancora fare prima di andare dormire. Sono stati giorni a dir poco infernali, quelli.
C’era stata quella riunione con lo staff indetta dal direttore, totalmente inaspettata e altrettanto fuori luogo; un’orda di turisti giapponesi che si era presentata nella hall dell’albergo alle due e un quarto di mercoledì notte, straparlando, in un inglese stentato, di presunte (ma mai avvenute) prenotazioni risalenti a settimane e settimane prima; novembre era stato un mese a dir poco disastroso, in termini di clienti: il periodo peggiore dell’intero anno, una disgrazia, una cosa assurda; per non dimenticare le furibonde e sempre più frequenti litigate con la moglie, una quarantenne fuggita dal Tennessee venticinque anni prima, non ancora pronta ad ammettere che i suoi sogni di gloria nella Grande Mela si erano andati a infrangere contro un muro di fallimenti, incomprensioni e mattoni rovinati.
Era così preso dalle sue lugubri riflessioni (la più felice delle quali riguardava un intero week-end passato ubriaco e semi-svenuto nella sua vasca da bagno), che quasi non notò l’uomo che si infilò veloce in ascensore, dedicandogli un gesto distratto e assente.
Lo aveva già visto in più occasioni. Sempre solo, sempre serio, sempre più preoccupato. Arrivava sempre armato di sciarpe, occhiali, cappelli. L’uomo alla reception sospettava che non fosse esattamente chi diceva di essere, tal William Campbell, di origini scozzesi e scarsa simpatia. Aveva un che di familiare, quel tipo. Ma l’uomo alla reception non ci faceva mai molto caso. Se ne interrogava per una manciata di secondi, prima di accantonare il pensiero e dedicarsi alla sua misera esistenza che stava piano piano andando in pezzi. Non era un pettegolo, non gli importava nulla dei gossip. Quel Campbell poteva anche essere il presidente Jimmy Carter sotto mentite spoglie, che a lui non si sarebbe mosso un capello.
Una sera aveva commesso il fatale errore di accennare qualcosa alla moglie. Lei, che non aveva mai del tutto abbandonato l’indole di vecchia zitella inacidita, aveva subito iniziato a fare supposizioni e ipotesi, una più strampalata dell’altra. Lo aveva tormentato per un’intera serata, finendo poi per proporgli di appostarsi in ascensore e guardare da vicino il misterioso sconosciuto.
L’uomo alla reception l’aveva azzittita con un secco “non so te, ma io credo che questo lavoro serva ancora a tutti e due. Quando avrò voglia di farmi licenziare ti chiamerò immediatamente”.
 
Sono quasi le undici di una sera gelida e triste. La città è immersa in un’atmosfera plumbea, la gente cammina in fretta e si infila appena possibile nell’androne di un palazzo o dentro un pub ancora aperto.
Paul entra in ascensore, un senso di nausea e malessere addosso. La situazione è diventata insostenibile. Non ha più voglia di andare avanti. O forse sì. Forse no. Non ne ha idea. Il suo cuore, quando ci pensa, va in confusione. È così da sempre. Mentre intorno a lui i numerini dei piani si illuminano, uno dopo l’altro, si sente immensamente stupido.
Era il 7 luglio 1957. Dio mio. Una vita. Una vita intera.
A Woolton, Liverpool. St. Peter Church. Uno stupido concerto, una stupida raccolta fondi. “Be Bop a Lula” cantata da un ubriaco. Quelle prime parole. Quei primi sguardi in tralice. Ne avevano parlato un sacco, negli anni a venire.
Tutto come una presa in giro. Perché in fondo di quello si trattava, si era sempre trattato di una presa in giro. Insomma, non poteva essere reale. Era troppo bello, troppo stupido per esserlo. Non aveva senso. John amava definirlo il supremo inganno.
“Siamo noi e il mondo, capisci” diceva. “Il mondo intero ai nostri piedi. Sottostà ai nostri inganni. Siamo un gradino più in su di tutto il resto”. Con le sue manie di protagonismo. Ma era tutta una presa in giro, appunto.
Per Paul fu un colpo di fulmine. Nel vero senso della parola. Tutto ciò che fino a quel momento non c’era, o non c’era stato; tutto ciò che fino al 6 luglio non esisteva, e lui non conosceva, e lui non ne parlava.
 Era stato come un’epifania. Come una rivelazione di qualche mistero divino. Qualcosa che entra nelle viscere, dentro i polmoni, si fa spazio tra le costole e nei canali linfatici. Lo aveva visto, ed era cambiato tutto. Era stato così difficile che era quasi impossibile ricostruirlo, era quasi impossibile parlarne.
John sosteneva il contrario. No, niente colpo di fulmine. No, niente storia d’amore alla “Via col vento”. Non so se ti ricordi, Paul, ma io all’epoca avevo altro per la testa. Mary-Ann. Oh, Mary-Ann. Quanti bei ricordi. Era una ragazza come non ne fanno più, te lo posso assicurare. Quegli occhi, quel modo di ridere, di muovere le mani quando mi raccontava di cose assurde. Era difficile starla a seguire, te lo posso garantire. Ma era così interessante! Una persona così nuova! Ecco, direi proprio che fosse nuova. Nuova per me, intendo. Una continua scoperta. Avevo anche immaginato un futuro, con lei. Una famiglia. Dei figli con i suoi stessi capelli fini, lo stesso profumo di vaniglia e liquirizia.
“E poi sei arrivato tu, a distruggermi tutti i piani. Disgraziato e maledetto”.
Ecco cos’era stato Paul.
Un imprevisto, una seccatura. Un temporale improvviso, proprio quella mattina in cui era prevista una gita al mare, magari a Crosby Beach, con quelle sue distese infinite e monotone di spiaggia e sabbia e cielo e onde piatte. Un guasto al motore prima di scappare in un posto lontano. Una brutta influenza la sera della festa della vita, del concerto più importante, la notte prima del tuo matrimonio.
“Spiegami allora perché siamo qui. Spiegamelo” diceva Paul. Quando aveva vent’anni e ancora si sentiva sempre messo in discussione. Quando aveva vent’anni ed era ancora sicuro che quella fosse una cosa passeggera. Quando aveva vent’anni e aspettava il crollo, da un momento all’altro.
“Non lo so, è così” rispondeva John, stringendosi nelle spalle. Una sigaretta in bocca, l’aria annoiata.
Poi gli anni erano passati, e loro due erano sopravvissuto a tutto. A tutto.
Successo.
Successo.
Ancora successo.
Concerti.
Continenti.
L’India.
Droga.
Successo.
Ancora droga.
Donne.
Due matrimoni.
Un divorzio.
Erano sempre lì.
Sempre più vecchi, sempre più malandati. Il loro amore si stava trasformando in odio, se ne rendevano conto benissimo. La cosa li divertiva. Soprattutto divertiva John, che si perdeva nei dettagli macabri del suo futuro assassinio di Paul.
 
Piano 4.
Corridoio deserto.
Camera 151.
Paul bussa lieve. È sempre facile sentirsi di troppo. Se avesse trovato, appeso alla porta, il biglietto dell’hotel con la scritta “Per favore non disturbare”, probabilmente se ne sarebbe andato.
John apre, lo fa entrare.
Nessuno dei due sa come iniziare un discorso inevitabile e assolutamente inutile.
Intanto, alla tv, Bernard Shaw inizia a parlare delle notizie di quel venerdì, 5 dicembre 1980.

 
   
 
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