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Autore: La neve di aprile    24/02/2009    9 recensioni
Aveva sedici anni e aveva a che fare con qualcosa che avrebbe potuto portargli via tutto se non avesse fatto attenzione. Conviveva con la consapevolezza di non essere normale (e non solamente per il lavoro che faceva), sapeva che la sua vita non sarebbe mai stata normale. E per quanto solitamente cercasse di non pensarci, in quel momento non riusciva a smettere di farlo. Odiava autocommiserarsi, odiava la commiserazione altrui e avrebbe fatto carte false per poter cambiare la situazione in cui si trovava, ma non ci era riuscito né ci riusciva.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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I jonas brothers non mi appartengono, non scrivo a fine di lucro e non è mia intenzione offendere nessuno con quanto poi pubblico.

 

 

 

NEVE

 

 

Scrollò la testa, facendo volare via dai folti riccioli scuri qualche fiocco di neve e una miriade di goccioline d'aqua: non sapeva da quanto stava camminando, non sapeva dove stata andando né tantomeno aveva intenzione di fermarsi. Non ancora, almeno.

Alzò gli occhi scuri al cielo, guardando senza particolare interesse i grossi nuvoloni neri che andavano ammassandosi sopra di lui e si allungavano, ringhiando minacciosi, fino all'orizzonte costellato di spuntoni neri, le cime di quei grattacieli che brillavano come stelle nelle giornate di sole.

Con un mezzo sospiro, affondò le mani livide nelle tasche nella ridicola caricatura di un cappotto che indossa, domandandosi perché, quel pomeriggio, non avesse deciso di indossare qualcosa che non si limitasse a far finta di tenere caldo. Eppure sua madre era stata chiara: avrebbe nevicato. Lo aveva decretato quella mattina, scostando le tende della cucina e sbirciando il cielo grigio metallo che non lasciava spazio ai raggi del sole e, alla fine, la sua previsione si era rivelata veriterie. Come sempre, del resto, avrebbe ironizzato Kevin. Joe, invece, si sarebbe limitato a bonficchiare qualcosa di incomprensibile circa la seccatura.

 Lui aveva sempre amato la neve.

 Fin da quando era stato in grado di reggersi sulle sue gambe, aveva sempre amato quei fiocchi bianchissimi che cancellavano ogni altro colore: passava ore intere a rotolarsi in giardino, fino a quando le labbra non diventavano blu per il freddo e sua madre lo richiamava dentro, preoccupata. E anche li ne spendeva altrettante standosene avvolto in una coperta, con una tazza di cioccolato fumante tra le mani, il naso schiacciato contro il vetro di una finestra a seguire il volteggiare delicato di quei batuffoli bianchi che cadevano dal cielo.

Si, decisamente Nick Jonas aveva sempre amato la neve.

Ma da quando era uscito dall'ospedale, qualche ora prima, non riusciva a pensare ad altro che a quella fastidiosissima sensazione di smarrimento, di impotenza e di frustrazione che lo accompagnavano ogni qualvolta metteva piedi fuori da quell'enorme edificio, portandosi dietro un bagaglio di parole sempre uguali e un forte odore di disinfettante che non sopportava più da anni.

Senza guardarla in faccia, aveva detto a sua madre che andava a fare un giro e che sarebbe tornato per cena. Lei gli aveva scompigliato i capelli, accarezzato una guancia e detto che si, non c'erano problemi: lo avrebbero aspettato per mangiare una bella bistecca con tante patatine fritte. Lui aveva cercato di sorridere e aveva iniziato a camminare, senza sapere nemmeno lui perché. Non era la prima volta che andava a una visita, non era la prima volta che si sentiva elencare la solita sfilza di medicine da prendere, le precauzioni, le regole da seguire. Sapeva già tutto, forse molto più di quanto non desse a vedere. Solo che questa volta, non lo sapeva nemmeno lui, si era sentito stanco.

Aveva sedici anni e aveva a che fare con qualcosa che avrebbe potuto portargli via tutto se non avesse fatto attenzione. Conviveva con la consapevolezza di non essere normale (e non solamente per il lavoro che faceva), sapeva che la sua vita non sarebbe mai stata normale. E per quanto solitamente cercasse di non pensarci, in quel momento non riusciva a smettere di farlo. Odiava autocommiserarsi, odiava la commiserazione altrui e avrebbe fatto carte false per poter cambiare la situazione in cui si trovava, ma non ci era riuscito né ci riusciva.

Abbassò lo sguardo, seguendo con lo sguardo il ritmo comparire e scomparire delle sue scarpe sul marciapiede imbiancato, immerso negli abissi agitati dei suoi pensieri. Una vocina, da qualche parte nella sua testa, gli suggeriva di accendere il cellulare e chiamare casa, mandare un messaggio almeno, ma le sue parole flebili si perdevano nel mare di confusione che si agitava in superficie. Era stanco. Una volta tanto voleva smettere di pensare ed essere una persona come le altre, una delle tante migliaia che ogni giorno calcavano quelle strade ignorando chi stava loro accanto.

Probabilmente fu per questo che non si accorse della ragazza che gli si fermò davanti, se non quando vide le punte rotonde degli stivaletti che indossava, vicine tra di loro, perfettamente immobili davanti alla mezzaluna bianca delle sue All Star. Sollevò lo sguardo, scivolando lungo le gambe fasciate in un paio di calze verde bosco, risalendo oltre l'orlo di un vestito beige e una mantellina più scura, fino ad incrociare due occhi grigi.

"Ah" sillabò, quando lei schiuse appena le labbra e una nuvoletta di vapore capriolò fino al suo naso, trascinandosi dietro un vago aroma di caffé; "Scusa" biascicò poi, arretrando d'un passo.
Lei inclinò appena il capo, una ciocca scura le scivolò lungo la guancia mentre continuava a studiarlo con attenzione. La guardò meglio: non doveva avere più di vent'anni, a occhio e croce aveva la stessa età di Joe. E non la smetteva di fissarlo da sotto la folta frangia che scendeva quasi a coprirle gli occhi.

"Va tutto bene?" domandò alla fine, curvando appena le labbra in un sorriso.

Nick boccheggiò, spiazzato. Tra tutte le cose che avrebbe potuto dire, quella era l'ultima che si aspettava, nonché l'unica domanda a cui non avrebbe saputo come rispondere. Distolse lo sguardo, stringendo le mani nelle tasche del cappotto, rabbrividendo per il freddo; forse se non avesse risposto, lei l'avrebbe ignorato e sarebbe andata avanti per la sua strada. Forse.

"Mh..." la ragazza si sporse appena verso di lui "Tu hai bisogno di qualcosa di caldo, mi sa." decretò alla fine, porgendogli una mano che lui, senza pensarci più di tanto (o senza pensarci affatto) strinse. Lei disse qualcos'altro, che non capì e si perse nella neve che cadeva dal cielo: tutto quello a cui riusciva a pensare, era a quelle cinque dita che lo tenevano stretto e lo guidavano lungo strade che non aveva mai percorso. Erano dita sottili, fragili, delicate. Ma così calde da scaldargli il cuore.

 

 

"Eccoci qui!" annunciò allegramente, spingendo una porta a vetri dipinta di verde e poi un ragazzino che per tutto il tempo non aveva battuto ciglio, limitandosi a seguirla docilmente alternando occhiate disinteressate ora a lei, ora agli scorgi imbiancati che la città offriva.
Da sotto i riccioli scuri ormai fradici, i suoi occhi scuri vagarono all'interno del locale con avidità, abbracciando le pareti arancioni e i divanetti di pelle scura, lisa, dall'aspetto confortevole. Infilò il pesante mazzo di chiavi nella borsa da dove lo aveva tirato fuori, mentre il fioco bagliore delle lampade appena accese si faceva via via più deciso.

"Siediti." gli disse, dopo averlo portato nel suo angolo preferito, quello più vicino al piccolo palco improvvisato e al tempo stesso il più riservato dell'intera sala, nascosto da un delicato divisorio in carta di riso. Il ragazzino - sedici anni o giù di lì, aveva giudicato alla spiccia quando l'aveva visto brancolare alla cieca davanti a lei - obbedì, sprofondando nell'imbottitura di una poltroncina mentre lei aggirava il massiccio bancone in mogano lucido e si chinava, pigiando tutta una serie di bottone che fecero ronzare sommessamente tutta un'altra serie di cose alle sue spalle.

Con uno sbuffo, si rialzò e cercò con lo sguardo la figura curva del ragazzino: era ancora lì, seduto esattamente dove lo aveva lasciato, ma per lo meno le guance avevano preso un po' di colore. Si liberò il collo dalla sciarpa, umida per la neve presa, e iniziò a sbottonare la mantella.

"Ti va una cioccolata? Sai, sono una maga nel prepararle, nessuno le fa come me." buttò lì, sperando di cavargli di bocca una parola che fosse una.
Senza aspettare che lui rispondesse, tirò fuori due grandi tazze colorate, che posò sul bancone esattamente come aveva miliardi di altre volte, quando il locale era aperto.

"Non mi va." biasciò lui, alzando finalmente gli occhi.

"Ma hai bisogno di qualcosa di caldo!" protestò lei, aggrottando la fronte e posando la bottiglia di latte che aveva appena sollevato "Fidati, la neve è splendida ma non scalda niente a parte il cuore."

"Niente cioccolata" caparbiò, Nick fu irremovibile.
Anche in quel momento, il suo assurdo senso del dovere, la promessa che si era fatto quando aveva scoperto di essere ammalato, non gli dava scampo. Guardò la ragazza scrollare le spalle, senza chiedergli spiegazioni, e per questo le fu eternamente grato. Al punto che, dopo qualche attimo, aggiunse "Però un thé lo prendo volentieri."

Gli occhi grigi di lei si illuminarono, mentre gli regalava un sorriso vivace e batteva le mani.

"Fatta!" esclamò, aprendo uno sportello e tirandone fuori un bollitore laccato di rosso che poi riempì d'acqua e mise su un piccolo fornello in un angolo, prima di scavalcare il bancone e tornare da lui "Layla." si presentò, porgendogli una mano che lui strinse dopo qualche attimo.

"Nick." replicò, semplicemente, valutandola con attenzione: la sua risposta sarebbe stata la chiave di volta dell'intera vicenda.
Se avesse detto qualcosa come lo so, o avesse chiesto Jonas?, allora l'avrebbe ringraziata e se ne sarebbe andato; l'ultima cosa di cui aveva bisogno e passare del tempo in un locale deserto con una fan. Per quanto dovesse loro tutto, certe volte tutto quello che voleva era essere una persona normale e comportarsi come tale.

"Nick" ripeté invece lei "Beh, Nick, puoi chiamarmi Prugna, se vuoi."

"Prugna?" sorpreso, non poté fare a meno di aggrottare la fronte.

"Oh, è una cosa stupida!" ridacchiò lei, sfilandosi la mantella e posandola sullo schiena della poltroncina dove poi si sedette, posando i gomiti sulle ginocchia "È per via dei miei capelli" spiegò, passando una mano tra le ciocche scure, lisce.
Fu allora che ci fosse caso. Non erano nere, come aveva creduto fino a qualche attimo prima: erano diverse, erano quasi viola.

"...Prugna" bisbigliò, realizzando che non c'erano altro modo per definire quell'insolito colore. Lei sorrise.

"Già. E' un nomignolo stupido, ma è anche l'unico che ho. Sentiti libero di usarlo a tuo piacimento, Nick."

Il ragazzino sorrise, pensando che Joe e Kevin l'avrebbero adorata, per quel suo modo spiccio e diretto di affrontare le cose. E immediatamente dopo si rabbuiò, abbassando lo sguardo e guardandosi le mani arrossate dal fretto che pizzicavano, riscaldandosi dolorosamente man mano che la temperatura nella stanza saliva. Il bollitore fischiò dopo quella che gli parve un'eternità.

"Oh, è pronto!" annunciò Layla, posando su un tavolino basso un plico di fogli che Nick riconobbe come spartiti musicali "Arrivo subito."

Aspettò che lei fosse dietro il bancone, per allungarsi e prendere in mano quei fogli, osservandoli con occhio critico. Sonate per violoncello, c'era scritto a mano sul primo foglio, Mozart. Scorse i pentagrammi rapidamente, tutti aperti da una chiave di basso, ammirando l'armonia di note che da secoli suscitava ammirazione in chiunque ascoltasse quel piccolo miracolo.

"Ti intendi di musica?" chiese Layla, facendo ritorno con le mani occupate da un vassoio che posò sul tavolino, facendo ondeggiare la bevanda bollente contenuta dentro le due tazze colorate, accanto ad un piattino ricoperto di biscotti. Colto con le mani nel sacco, Nick arrosssì.

"Oh, scusa.." borbottò, porgendole gli spartiti.

"Di che ti scusi? Non sei mica il primo che li vede.." ribattè amichevole lei, stringendo una tazza tra le mani e rannicchiandosi sulla poltroncina "Piuttosto, ti ripeto la domanda, ti intendi di musica?"

"Un po'" ammise lui alla fine, tornando finalmente a guardarla in faccia: sorrideva, amichevole.

"E scommetto che suoni qualcosa." ipotizzò, inclinando appena il capo di lato e rigirando un cucchiano per mescolare lo zucchero che aveva messo nella bevanda che profumava di arancia e cannella.

"Cosa te lo fa pensare?"

"Hai continuato a guardare gli spartiti e non li accantonati come fossero bestemmie scritte in arabo." rise Layla "Sai, è una reazione piuttosto frequente"

Nick trattenne una risatina, abbassando di nuovo lo sguardo sui fogli, senza trovare il coraggio di ammettere che, sotto sotto, nemmeno lui ci capiva più che tanto. Era in grado di leggere le note, certo, ma da lì a saper suonare a prima vista anche solo una facciata di quella roba... beh, ce n'era di strada da fare.

"Non mi offendo mica, se mi dici che anche per te è piuttosto oscuro" lo precedette lei, estremamente divertita dall'imbarazzo che aveva colorato di rosso le guance del ragazzino. Aveva un'aria così persa, così confusa, che non poteva fare a meno di provare nei suoi confronti un'infinita tenerezza. Cosa piuttosto stupida, si rimproverò silenziosamente, dal momento che l'unica cosa che sapeva di lui era il nome. Ammesso fosse realmente quello e non ne avesse inventato uno.

Ma la cosa che più trovava sconcertante, erano i suoi occhi.
Gli stessi occhi che anche lei aveva avuto, molto tempo prima, in un'altra occasione, in un altro momento. Gli occhi di chi è stufo di lottare e vuole provare a scappare, gli occhi di chi è consapevole che non ne sarà mai in grado. Il ricordò le annodò qualcosa, giù nella gola, e la costrinse ad abbassare lo sguardo sulla tazza fumante, fingendosi di limitarsi ad inspirare a fondo una boccata di vapore profumato e caldo.

Sapeva però che spingerlo a parlare l'avrebbe solo allontanato, così sbatté le palpebre un paio di volte e si concesse un sorso di thé, sbirciandolo di sottocchi: finalmente si era deciso a posare gli spartiti e aveva allungato timorosamente una mano verso la sua tazza, fino ad allora intoccata.

"In realtà, ora come ora, io stessa non ci capisco nulla." iniziò a parlare, cercando di distrarlo da quel groviglio di pensieri che sembrava a tratti soffocarlo "Ci metterò una vita per riuscire a suonarle tutte decentemente, senza che il povero Mozart si rivolti nella fossa comune dove l'hanno sepolto. Spero solo di riuscirci in tempo, altrimenti sarò decisamente nei guai..."

"Perché?" chiese Nick, in cuor suo grato per quel discreto tentativo di riempire un altrimenti imbarazzante silenzio.

"Sono materia d'esame. Il mio prossimo esame, a dire il vero." spiegò lei, recuperando un biscotto e sgranocchiandolo distrattamente "Sono all'ultimo anno di conservatorio e questo... beh, questo è lo scoglio più grosso che abbia mai incontrato fino ad adesso. Se lo passo, sarà un miracolo!"

"Caspita," commentò lui sommessamente "Quindi suoni il violoncello."

"E il pianoforte" precisò lei "E canto nel coro del conservatorio. Ma sono attività obbligatorie, non ho scampo." si affrettò a precisare, di fronte allo sguardo basito del ragazzino "Il violoncello è il mio unico amore, farei qualsiasi cosa per poterlo suonare. Quando suono... è come se fossi nel posto giusto al momento giusto, tutto trova un senso."

Nick rimase in silenzio, senza trovare le parole per rispondere.
Per dirle che la capiva, che anche lui quando suonava la chitarra si sentiva così, come se non esistesse null'altro al mondo al di fuori di se stesse e del suo strumento, come se la musica cancellasse tutti i suoi problemi e lo trasportasse in un universo parallelo dove tutto era bello e filava nella maniera giusta.

"Hai mai provato a suonarlo?" domandò lei, incuriosita, posando la tazza sul tavolino. Lui scosse il capo, facendo rimbalzare i riccioli scuri che iniziavano pian pianino ad asciugarsi.

"E ti andrebbe di provare?" proseguì, sfoderando un sorriso sghembo ed estremamente divertito.

"Perché no?" scrollò lui le spalle. Tanto, che aveva da perdere? Sempre meglio che starsene a rimuginare su tutti i suoi problemi, su quanto la vita fosse brutta e ingiusta alle volte e su quanto se la sarebbero presa con lui, una volta tornato a casa. Se mai fosse tornato. Aveva troppo paura anche solo a prendere in considerazione l'idea. Rabbrividendo appena, buttò giù una gran sorsata di thé e torno a concentrarsi su Layla. Prugna. Layla. Non sapeva decidere quale tra i due usare. "Ma non so proprio dove lo troverai, qui, un violoncello"

"Non mi sottovalutare, ragazzino!" lo ammonì lei, scattando in piedi con l'agilità di un grillo "Perché sono piena di sorprese."

Aggirò il paravento in carta di riso, salendo il gradino che delimitava la pedana improvvisata a palco e chinandosi dietro un pianoforte a mezzacoda. Quando si rialzò, tra le mani stringeva una custodia nera, rigida, piuttosto grande, e sfoggiava un sorriso trionfante che non lasciava dubbi sul contenuto.

"L'ho lasciato qui ieri sera, ero troppo stanca per trascinarmelo fino a casa" spiegò, senza che Nick avesse bisogno di chiedergli nulla "Lavoro qui tutte le sere come cameriera, ma ogni tanto mi lasciano suonare. E per studiare... beh, questo posto ha un'acustica che sfiora il miracoloso."

In silenzio, il ragazzino la guardò affascinanto mentre estraeva lo strumento con una cura e un'attenzione che quasi trascendevano nel timore reverenziale.
Layla si sedette su una sedia e abbracciò lo strumento, sistemandolo in quella che lui giudicò la posizioni giusta per suonare, impugnò delicitamente l'archetto e senza fare altro, fece scivolare i crini tesi sulla prima corda, la più grossa: il suono che ne scaturì, si disse, non l'avrebbe mai dimenticato.

Basso, profondo, così pieno e potente da riempirgli il petto e suonarci dentro, una nota così forte e sostenuta da mozzargli il respiro.
La ragazza sospirò, impercettibilmente, passando alla seconda corda, senza interrompere lo scorrere dell'arco, suonando le quattro note più perfette che avesse mai avuto la fortuna di sentire. Soddisfatta, abbassò il braccio destro e lo guardò.

"Allora, ti va di provare?" domandò di nuovo, sicura che la risposta sarebbe stata affermativa.

Un'ora abbondante più tardi, Nick Jonas aveva imparato due cose.

La prima consisteva nel suonare più o meno decentemente le sette note della scala diatonica, senza mai interrompere lo scorrere dell'archetto sulle corde tese dello strumento.

La seconda era invece la convinzione che suonare il violoncello fosse una cosa incredibilmente complicata se messa a confronto con la chitarra, ma dava una soddisfazione incredibilmente al punto che non era difficile capire perché Layla fosse così profondamente innamorata del suo strumento.

Abbassò il braccio, la mano dolorante per la bizzarra posizione in cui le dita erano costrette, e cercò lo sguardo grigio della ragazza alla sue spalle.

"Meglio, decisamente meglio!" trillò lei, accasciandosi contro lo schienale "Niente male per un novellino, sai? Oserei dire che sei quasi portato..."

"Si, come no.." alzò gli occhi al cielo "Sono nato per suonare il violoncello, proprio..."

"E smettila!" rise lei, colpendolo affettuosamente sulla spalla "Non sminuirti, Nick, non è affatto facile! Ci vogliono anni di studio per riuscire a padroneggiare la tecnica, un'ora per una scala è un risultato niente male!" lo rassicurò, scompigliandogli i capelli.

Era incredibile quanto la musica avesse fatto sciogliere il ragazzino, trasformandolo dalla cupa e silenziosa caricatura di se stesso a quello che realmente era: un sedicenne sorridente ed espansivo, con la battuta pronta e la risata squillante. Era tranquillo, lo avvertiva chiaramente, smettere di pensare ai suoi problemi per un attimo non gli aveva fatto che bene, ma Layla sapeva l'unico modo per sciogliere i nodi era farli passare attraverso i denti di un pettine.

Si era fatto tardi, l'orologio sulla parete alle loro spalle segnava le dieci e un quarto passate, e per quanto quel ragazzino fosse adorabile, non aveva certo intenzione di rimanere lì tutta la notte o portarselo a casa. No, doveva parlargli. Che gli piacesse o meno, era arrivata anche per Nick l'ora di affrontare i suoi problemi.

Si alzò in piedi, stiracchiandosi pigramente, e saltellò giù dalla pedana, verso il bancone.

"Non credi sia ora di chiamare a casa?"

Si voltò, nel lasciare cadere quella potenziale bomba come se niente fosse, il proseguo di un naturale filo di pensieri apparentemente molto più superficiale di quanto non fosse in realtà. Nick si irrigidì impercettibilmente, e pizzicò il cantino, la corda del La, mordicchiandosi le labbra.

"E se non volessi?" sussurrò alla fine, sollevando gli occhi sulla ragazza. Lei curvò le labbra in un sorriso, staccandosi dal bancone con un colpo di reni per tornargli accanto: gli si inginocchiò davanti, posandogli una mano sul ginocchio.

"E perché non dovresti?" domandò, senza mai perdere il contatto con i suoi occhi scuri. Il ragazzo non evitò quelli grigi di lei, così grandi e rassicuranti, e sospirò.

Perché sono uno stupido, si rispose. Perché sono un piccolo ragazzino egoista che non pensa mai a quello che fa e poi ha paura delle conseguenze, perché ho fatto una cavolata e adesso ho paura.

Perché una volta tanto aveva desiderato che si preoccupassero per lui e non per quella sua stupida malattia, ecco perché.

"Nick, mi credi se ti dico che qualsiasi cosa tu abbia fatto non sarà mai così terribile da privarti dell'affetto dei tuoi genitori?" proseguì Layla, dolcemente, allungandosi per sfiorargli il volto con una carezza "Se c'è una cosa che ho imparato, è che loro ti ameranno sempre, a prescindere dal numero di volte che sei scappato di casa, dai problemi che hai causato e da quelli che causerai pur non volendolo."

"E se non fosse così?" chiese lui, con un urgenza tradita da un lieve tremare delle parole.
Lei schiuse la labbra, prendendogli lo strumento di mano e posandolo a terra, in modo da poterlo abbracciare. Sapeva come si sentiva, lo sapeva fin troppo bene.

"Oh, Nick.." sospirò tra i suoi riccioli scuri "Loro ti vogliono bene, ti vogliono un bene dell'anima! Credimi, io lo so!" si scostò appena, quel tanto che bastava per mostrargli un sorriso "Qualche anno fa sono scappata anche io, sai? Sono scomparsa per due giorni interni e quando alla fine sono ritornata a casa, sai cosa hanno fatto i miei genitori? Mi hanno abbracciata, piangendo, e mi hanno fatto promettere di non farlo mai più. E i miei non sono certo i genitori più comprensivi del mondo, fidati..."

Il ragazzo abbozzò un sorriso, prima di abbassare appena lo sguardo.

"Sono malato." confessò "Ho un diabete del primo tipo. Non è la fine del mondo, certo, ma nemmeno una passeggiata. Solitamente non ci penso nemmeno, da quando me lo hanno detto ho promesso che mai mi avrebbe fermato. Solo che oggi... avevo una visita. Ed è così deprimente, Pruh, così..." scosse il capo, senza trovare le parole "Mi trattano come se fossi un bambino piccolo, mi guardano come se potessi rompermi da un momento all'altro e io non lo sopporto, davvero"sputò fuori, tutto d'un fiato, incapace di trattenersi.

Layla dal canto suo non fece una piega, assorbendo ogni singola parola veniva pronunciata: lo ascolto sfogarsi, lo ascoltò parlare delle sue parole senza fare un commento, limitandosi a stringergli una mano quel tanto che bastava per fargli capire che era lì. Quando poi rimase in silenzio, abbassò lo sguardo per qualche attimo.

"Io... non ne avevo idea." ammise.

"Perché mai avresti dovuto? Sei stata fin troppo gentile, con me."

"Te l'ho detto, qualche anno fa mi sono trovata nella tua stessa situazione. E avrei pagato perché qualcuno mi prendesse per mano e mi tirasse via dalla strada." scrollò le spalle "Tante cose sarebbero state molto più semplici se qualcuno l'avesse fatto, se qualcuno mi avesse fatto capire che i miei genitori mi avrebbe comunque voluto bene. Io non sono nessuno nessuno, Nick, per dirti cosa devi o non devi fare," mormorò, abbassando lo sguardo "so di essere una perfetta estranea che adesso sta sparando sentenze su di te e sulla tua vita senza minimamente conoscerti. Ma sono ugualmente convinta che dovresti chiamarli, proprio perché non sei un ragazzino come tanti altri ma hai qualcosa che, anche se in negativo, ti rende diverso."

"Io lo so di non essere normale!" sbuffò, quasi rabbioso, prima di ammorbidirsi nuovamente "E certe volte sono proprio stanco di esserlo."

"Posso immaginarlo, ma non si può prescindere dal fatto che tu sia malato, Nick." obbiettò Layla, tornando a guardarlo.
Era combattutto, lo vedeva chiaramente: nervoso, si mordicchiava le labbra e si agitava sulla sedia, inquieto.

"Vorrei che fosse possibile."

"Vorremmo tutti tante cose" si sporse verso di lui, riavviandogli un ricciolo ribelle "Ma certe cose proprio non possono succedere. Possiamo pregare, possiamo sperare, possiamo provarci con tutte le nostre forze e sarà comunque vano. Quello che si deve sempre ricordare, è che non è comunque una buona ragione per smettere di farlo."

"No, hai ragione" si arrese Nick alla fine, curvando le spalle. Layla gli sorrise, rialzandosi in piedi.

"E metti caso che le cose non vadano come ti ho detto, sai sempre dove trovarmi." gli ricordò, strappandogli un sorriso.

"E mi autorizzi a prendermela con te?"

"Signorsi, signore!" esclamò "E adesso fila subito a chiamare a casa, staranno tutti morendo di preoccupazione per te."

Nick sorrise, cedendole il posto sulla sedia.
Lei recuperò il violoncello, con lo stesso amore che avrebbe dedicato ad un amante, e strinse tra le dita l'archetto, sfiorando le corde con affetto. Lo stesso affetto che aveva dedicato ad un perfetto estraneo, ad ogni perfetto estraneo avesse incontrato. Inspirò a fondo, recuperando il cellulare dalla tasca del cappotto dove l'aveva sepolto e, prima di accenderlo ed essere sommerso da valangate di messaggi di chiamate perse, le sorrise.

"Grazie Layla," le disse "sei un'amica."

Lei sorrise a sua volta, prima di chinare il capo verso lo strumento e premere dolcemente l'archetto contro le corde, cavandone fuori una melodia che, Nick ne era sicuro, valeva più di mille parole.

 

Joe Jonas inchiodò violentemente, facendo gemere i freni della Mercedes nuova di zecca che stava guidando.

Assottigliò lo sguardo, alternandolo tra il foglietto dove Kevin aveva scritto il nome del locale dove, a detta sua, si trovava Nick.

"Dannato moccioso." sibilò, fissando la porta verniciata di verde.

"Stupido ragazzino." ringhiò, sbattendosi la portiera alle spalle e accusando le sferzate violente di vento e neve, mentre attraversava il marciapiedi e constatava che si, il locale era proprio quello. Come diavolo fosse finito così lontano dall'ospedale, era un vero mistero.

Si è perso, aveva detto Kevin quando dopo ore di preoccupazione e tensioni gratuite il loro fratellino aveva deciso di risparmiare a tutti un infarto, e il cellulare era senza batteria. Joe non ci aveva creduto nemmeno per sbaglio: conosceva il suo fratellino, non era tipo da fare bravate del genere senza una valida motivazione alle spalle. Ma aveva deciso di concedergli il beneficio del dubbio, se non altro perché, una volta arrivato a casa, si sarebbe trovato affossato in un mare di guai, non aveva senso infierire ulteriomente.

"Razza di idiota!"

Senza bussare, abbassò la maniglia e la porta si aprì tintinnando, rivelandogli un piccolo locale dall'aspetto accogliente, al centro del quale svettava una pedana bassa dove una ragazza stava suonando uno strumento ad arco che non riuscì ad identificare. Quel che era certo, era che aveva il suono più incredibile e struggente che avesse mai sentito.

"Ciao!" esordì lei, interrompendosi e puntandogli in faccia due enormi occhi grigi "Ti spiacerebbe chiudere la porta? Nick arriva tra un attimo."

"Perché, dov'è andato?" domandò automaticamente, sentendosi gelare il sangue nelle vene. Se era scomparso di nuovo, era la vera volta che lo uccideva. Si erano già preoccupati tutti abbastanza.

"In bagno, Joe" rispose il diretto interessato, sbucando da una porta laterale alle spalle del grande bancone "E per favore, chiudi la porta: fa freddo."

Joe obbedì meccanicamente, sentendo il sollievo sbrogliare quel nodo di preoccupazione che non gli aveva dato pace per tutto il pomeriggio: senza curarsi della ragazza, corse incontro al fratello e lo guardò dritto negli occhi, così scuri e così simili ai suoi.

"Stai bene?" gli chiese, posandogli una mano sulla spalla.

"Si." annuì questo "Soprattutto grazie a lei." e con un cenno del capo indicò Leyla, che, china sui suoi spartiti, stringeva una matita tra i denti e fissava i pentagrammi con espressione corrucciata.
Sollevò lo sguardo, sentendosi chiamare in causa, e abbozzò un sorriso, agitando una mano in aria come a dire che non era niente.

"Figurati, non ho fatto proprio niente di speciale" commentò infatti, posando l'archetto sul sedile del pianoforte lì vicino.

"In ogni caso ti ringrazio" sorrise Joe, avvicinandosi per stringerle la mano "Di cuore."

"Figurati" ripeté lei, ricambiando la stretta.

Mano sottile, valutò in silenzio lui, presa salda.

Calda.

Rassicurante.

Riusciva vagamente a intuire del perché Nick avesse deciso di fidarsi di lei, qualunque cosa fosse successa, e non avesse continuato a vagare sotto la neve come un povero disperato per delle ore intere. Cosa che molto probabilmente aveva fatto, prima di incontrare questa indubbiamente molto carina ragazza.

"E ce l'hai un nome, misteriosa benefattrice?" chiese, senza sapersi trattenere, stringendole la mano per qualche attimo più del dovuto.

"Si, lo ha un nome." intervenne Nick, spingendolo via.

"Layla" rispose la ragazza, constatando quanto simili fossero i due ragazzi. La stessa bocca, lo stesso modo di ridere, la stessa luce nello sguardo. Il più piccolo dei due sbuffò, strappandole una mezza risata, mentre il più grande esibì un sorriso che, o almeno così credeva, doveva risultare irresistibile.

"Joe"

"Beh, piacere di conoscerti, Joe. Abbi cura del mio piccolo Nick, d'accordo?" sorrise, abbracciando lo strumento con lo stesso braccio che aveva allungato verso il ragazzo. Nick le sorrise, indossando nuovamente il cappotto mentre il fratello lo precedeva alla porta e, avendo cura che lui non lo vedesse, sillabò silenziosamente una parola: grazie.

Layla non rispose e, inclinando leggermente il capo di lato, guardò i due lasciare il locale deserto. Si chiese se li avrebbe mai rivisti, se avrebbe mai rivisto il piccolo Nick che tanto l'aveva colpita, ma prima di formulare una qualsiasi risposta, lo sguardo ricadde sul plico di spartiti e si disse che, in ogni caso, non sarebbe successo tanto presto. Tanto valeva approfittarne e studiare un po'.

Chissà che nel frattempo non riuscisse a passare, quel benedetto esame.

 

 






FINE

 

 

   
 
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