Let me be your Shelter;
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Carry on my wayward son
There’ll be peace when you are done
Lay your weary head to rest
Don’t you cry no more.
{Prologo;
}
In
vita sua non aveva mai desiderato niente e
nessuno con così tanto ardore, tanto da arrivare ad
auto-convincersi di poter
vendere seriamente la propria anima per rendere tutto duraturo e
definitivo,
solamente per avere una certezza in vita sua.
Non aveva desiderato nulla come anelava l’idea di avere una
vita perfetta e
l’Università di Stanford, nella sua mente
contorta, rappresentava solamente uno
dei tanti trampolini dalla quale avrebbe dovuto saltare in vita sua;
forse
l’ultimo o forse il primo di una lunga serie, questo non
poteva saperlo.
Essere arrivato a quel punto era già in sé un
traguardo decisamente importante,
tanto che ogni mattina si ritrovava a ringraziare il cielo per avergli
donato
l’opportunità di potersi creare una vita perfetta,
seppur con non poca fatica.
Be’, non che alla fine ci fosse poi molto per cui ringraziare
il cielo, perché
se doveva essere proprio grato a qualcuno, allora, doveva esserlo nei
propri
confronti e, più di tutto, nei confronti di sua mamma.
Il cuore si andava a stringere in una morsa gelata e pungente ogni
volta che il
viso dolce e comprensivo di sua madre prendeva il sopravvento nella sua
testa,
buttandolo con disumanità alla dura e cruda
realtà: lei non c’era più, non ci
sarebbe più stata all’interno della sua vita di
tutti i giorni e questo non
faceva altro che gettarlo sempre di più nello sconforto e
nella convinzione che
sarebbe stato solo, sempre.
Il pensiero di sua madre era la motivazione per cui, quando temeva di
vedere
solo il lato negativo delle cose, ritornava a dirsi che tutto succedeva
per una
ragione e se le cose non andavano come desiderava sicuramente presto si
sarebbero stabilizzate.
“Tutto succede per una ragione.”
Era
quello che si
ripeté all’interno della propria mente in quel
momento, non rendendosi nemmeno
conto di aver mollato la presa sulla matita che aveva stretto fino a
quell’istante; riscoprì le dita intorpidite,
rigide, tanto che temette di non
poterle più piegare.
Si ritrovò perso nei propri pensieri, nelle sue fantasie e
nelle sue
preoccupazioni, non facendo nemmeno caso all’orologio appeso
alla parete che
segnava le 22.00 in punto.
“Tutto succede per una ragione, e la ragione per cui io sono
qui è che
diventerò qualcuno.”
Continuò a pensare con fin troppa sicurezza,
riuscendo perfino a sentire
l’accenno di un sorriso farsi largo sulle sue labbra
sigillate.
Scosse lievemente il capo, riprendendosi da quello stato
“comatoso” nel giro di
qualche secondo, sollevando le braccia al cielo per potersi
stiracchiare e
recuperare la sensibilità nella maggior parte del corpo.
Le maniche della camicia scivolarono un po’ sulle braccia,
scoprendogli così
l’orologio che teneva al polso, inducendolo a gettargli uno
sguardo senza
nemmeno pensarci.
«Accidenti.» Fu la sola ed unica cosa che gli
uscì fuori dalla bocca quando
socchiuse gli occhi sull’orologio, come a voler essere
dannatamente sicuro di
aver letto l’ora giusta.
Quando spostò lo sguardo sulla parete trovò un
ulteriore conferma: si era
trattenuto più del dovuto. Nel mentre si ritrovò
a raccogliere le proprie cose,
infilando un po’ alla rinfusa tutto dentro alla sua cartella,
ebbe la Visione del suo professore
che lo
implorava, lo scongiurava, di non trattenersi oltre le 20.00,
ricordandogli
inoltre che nel lasciargli le chiavi di quell’ala
dell’Università commetteva un
grave errore. Ma c’era anche da dire che l’uomo
aveva ribadito anche più di una
volta che per lui, per il suo studente preferito, avrebbe allentato un
po’ le
corde e gli avrebbe lasciato via libera.
Sì, perché nella situazione nella quale si
trovava il giovane, doversi fermare
a scuola per usare i libri di testo che altrimenti non avrebbe potuto
comprarsi
da sé, era un grande, grandissimo, aiuto.
Qualcosa lo indusse a muoversi con maggior slancio, come se si fosse
appena
reso conto che la sua presenza fosse richiesta altrove e con
particolare
urgenza.
“Merda, merda, merda.”
Il pensiero di dover tornarsene a casa a piedi, e nella
più completa
solitudine, gli procurò una sorta di fitta alquanto dolorosa
alla base dello
stomaco. Ma c’era da dire, inoltre, che un altro problema che
si stava
presentando era l’attraversare
i
corridoi nel buio più totale. Ciò gli
procurò non poca paura, nonostante
cercasse di recuperare il controllo all’istante.
Lui non era di certo il tipo che si poteva definire
“fifone” e il sentirsi
spaventato da certe cose lo faceva sentire solamente un moccioso, in
tutto e
per tutto.
Di che si preoccupava lui, che era il tipo più logico del
mondo?
Un sorriso sghembo si fece largo sulle sue labbra.
Amava la sua mente, il suo modo di ragionare, per il semplice fatto che
riusciva a scacciare ogni singola paura con la logica, con il spiegarsi
con
fare accurato il perché non doveva avere paura.
Il più delle volte era perché non esisteva nulla,
nulla, del quale potesse
avere paura seriamente. Chiuse la porta dell’aula
dov’ era stato per la gran
parte del pomeriggio e della sera, guardandosi attorno nel vano
tentativo di
assicurarsi di essere solo all’interno
dell’edificio. Questo pensiero lo fece
gelare sul posto, non sapendo nemmeno dire con assoluta certezza se
fosse un
fatto positivo o no. Perché, poi, si era dovuto impuntare su
una preoccupazione
simile?
Comunque fosse, il giovane, si ritrovò a posizionarsi la
cartella sulle spalle
e a ravviarsi i capelli castani, sentendo nel giro di qualche secondo
le punte
solleticargli nuovamente il collo.
Non c’era nulla di cui avere paura, nulla.
«Il buio non ha mai ucciso nessuno.»
Esclamò in un mormorio che si andò a
perdere subito, come se non fosse nemmeno uscito dalla sua bocca.
Inutile dire
che ciò lo spaventò solamente di più.
Prese a percorrere il corridoio con passo frettoloso; si
riscoprì fin
troppo terrorizzato all’idea di guardarsi
attorno, temendo di poter scorgere qualcosa che al momento non aveva
alcun
diritto di trovarsi lì con lui.
Raggiunse una porta a due ante e con un enorme sospiro vi
posò le mani sopra,
respirando profondamente per mantenere il controllo. Dovette fare un
po’ di
forza per spingerla e aprirla, potendo varcare la soglia per entrare
nel
secondo corridoio che lo avrebbe portato direttamente
all’ingresso
dell’edificio.
Lì, davanti a lui, c’era la porta.
In cuor suo non vide l’ora di potersi incamminare per
raggiungere la meta
designata, nonostante non volesse affaccendarsi per certe paure
altamente
infondate.
Quando la porta si chiuse alle sue spalle con un rumore sordo, Sam, si
strinse
lievemente nelle spalle fissando a terra, increspando un poco le
labbra.
Si sentiva così stupido, così infantile,
nell’aver timore di percorrere gli
stessi corridoi nel quale si avventurava tutti i giorni, sebbene lo
facesse
quando il sole filtrava da tutte le finestre e porte possibili, tanto
da
arrivare a prendersi gioco di se stesso nella più completa
autonomia.
Riprese a camminare con maggiore tranquillità, ricordandosi
che quel luogo era
l’ ennesima idea di “casa” presente nella
sua vita, motivo per cui non avrebbe
dovuto aver paura, almeno fin quando qualcosa o qualcuno non gli
avrebbe dato
motivo per ricredersi.
Era sul punto di sospirare quasi di beatitudine quando qualcosa lo
indusse a
fermarsi di colpo, bloccandosi sul posto come se fosse appena stato
investito
da un ondata di acqua gelata.
La sua mente incominciò a lavorare all’istante,
arrivando a chiedersi se fosse
successo seriamente qualcosa oppure la sua mente, in quel momento fin
troppo
influenzabile, si era lasciata un po’ trasportare dalle sue sensazioni.
Rimase in attesa per quasi un minuto, dicendosi che se non fosse
successo
nient’altro se ne sarebbe potuto andare senza alcun problema,
nonostante
avrebbe convissuto con l’incertezza. Sì, aveva
proprio una voglia matta di
prendere e andarsene via subito, di correre fuori da quella scuola e di
gettarsi nel pieno della strada.
Forse fu colpa della paura, forse della sua voglia di rassicurarsi del
fatto
che non ci fosse nulla di pericoloso, di letale. Forse fu semplicemente
l’istinto che lo spinse a raggiungere l’aula poco
distante da lui e a sbirciare
dal vetro della porta, guardando un po’ a destra e un
po’ a sinistra per quel
che gli fu consentito.
Poggiò le mani sulla porta chiusa e strinse un po’
le dita come a volersi
aggrappare a qualcosa di inconcepibile,
troppo distante e astratto, come se stesse cercando di rimanere fermo
lì e di
combattere i piedi che volevano fuggire il prima possibile.
Socchiuse gli occhi nel tentativo di farli abituare
all’oscurità completa
dell’aula, mentre indietreggiava di un passo giusto per
posare la mano sul
pomello della porta e aprirla.
Semplicemente smise di pensare, smise perfino di respirare ad un certo
punto,
arrivando solamente a chiedersi se fosse seriamente sicuro allontanarsi
senza
essersi accertato che tutto fosse a posto, che non ci fosse nessuno
all’interno
dell’edificio scolastico. La responsabilità, sotto
sotto, sarebbe stata sua.
Non appena fu sulla soglia dell’aula allungò una
mano e tastò con cautela la
parete fin quando le dita non incontrarono l’interruttore
della luce, provando
un moto di angoscia quando nello schiacciare l’aula rimase
preda del buio fitto
della notte.
“Tipico.”
Si ritrovò a pensare riuscendo perfino a trovare
una nota quasi ironica
nella sua stessa mente, nonostante fosse tornato a starsene in allerta,
pronto
a scattare al minimo rumore o segnale.
Quel che gli restò da fare fu infilare una mano nella tasca
posteriore dei
jeans e prendere il telefono che, con sua somma sorpresa, si
ritrovò a constare
che senza alcun dubbio, stava vivendo la giornata più
sfortunata di tutta la
sua vita: non fece nemmeno in tempo a sollevare il telefono per vedere,
almeno
di sfuggita, che tutto fosse in ordine, quando il suo cellulare si
oscurò del
tutto e l’icona della batteria scarica riempì il
display prima di lasciare Sam
più basito che mai.
“Avrei quasi voglia di ridire, se solo …
“
Se solo non fosse seriamente spaventato da tutti questi avvenimenti.
Infilò con una certa nota infastidita il cellulare
all’interno della tasca,
passandosi velocemente una mano sopra a qualche ciocca di capelli
finitagli
davanti agli occhi.
Compì un lento e calmo passo in avanti mentre il suo petto
riprese ad alzarsi e
abbassarsi con normalità, permettendo così al
giovane di riprendersi un poco da
tutta quella paura e ansia.
Sollevò le mani nel tentativo di procedere a tentoni, mentre
gli occhi
incominciarono ad abituarsi a quel buio ancor più assoluto
rispetto a quello del
corridoio.
Un leggero colpo di vento lo fece irrigidire sul posto mentre la paura
tornava
a pungerlo nel vivo. C’era seriamente qualcosa che non stava
andando per il
verso giusto ed ora non era la sua immaginazione.
Nel proseguire in avanti si ritrovò ad andare a sbattere
contro uno dei tanti
banchi, serrando le labbra mentre un “Accidenti”
usciva dalle sue labbra.
Si diede dello stupido per voler controllare qualcosa che stesso lui
non
sarebbe riuscito a tenere sott’occhio nel
vero senso della parola, dal momento che
l’unica fonte di luce presente non erano altro i flebili
raggi lunari che filtravano
dalla finestra.
“Cazzo, cazzo, cazzo. Giuro che ora torno indietro, torno a
casa e non esco
più.”
Fu l’unica cosa che riuscì a pensare in
quel momento, prima di essere
letteralmente sbattuto dall’altra parte della stanza.
Picchiò la schiena sulla
parete, lasciando scappare un mezzo respiro spezzato.
Scivolò a terra con le gambe stese lungo il pavimento e le
braccia ai lati del
corpo, abbandonate e prive di ogni tipo di forza. In quel momento seppe
che
tutte le sue paure furono fondate.
Mugolò senza nemmeno rendersene conto, come del resto
sollevò un braccio per
potersi toccare con la mano il retro della nuca, serrando le labbra con
fare
fin troppo addolorato. Tutto ciò accadde senza che Sam se ne
rendesse conto.
Non si chiese nemmeno cosa fosse appena accaduto, non si chiese nulla.
Al
momento lui non era l’unica persona presente
all’interno della scuola, questo
bastava e avanzava per distrarlo.
Sgranò gli occhi nel sentire i passi della figura avanzare
verso di lui,
riconoscendo il ticchettare dei tacchi sul pavimento. La cosa lo
confuse ancor
di più: possibile che fosse stata una donna a scagliarlo con
così tanta forza?
E anche se fosse stato un uomo, comunque, come aveva fatto?
Cercò di non pensare al fatto che lui, da sempre, aveva
peccato sul fisico.
Strisciò un po’ sul pavimento, spostandosi di lato
nel tentativo di fuggire via
dall’ombra avvolta dalle tenebre in avvicinamento, poggiando
le mani fredde e
sudaticce sul pavimento.
Ogni volta che si riscopriva ansioso e spaventato, riusciva a sentire
il sudore
freddo solcare la sua schiena e la pelle d’oca ricoprirlo da
capo a piedi.
«Tu … tu … » Non
riuscì a dire altro, sebbene morisse dalla voglia di
chiedere
spiegazioni e, successivamente, invocare aiuto con tutto il fiato in
corpo.
Invece, oltre a temporeggiare, non riuscì a dire o a fare
nient’altro,
gelandosi solamente sul posto quando udì la sua risata.
«Chi l’avrebbe mai detto. Praticamente ti sei
servito a me su un piatto
d’argento.» La voce che risuonò
all’interno dell’aula fu, senza alcun ombra di
dubbio, appartenente ad una giovane donna. Ciò,
anziché rassicurarlo, lo
spaventò ancor di più.
Socchiuse gli occhi nel buio, chiedendosi se era seriamente sua
intenzione
voler adocchiare alla bella e meglio l’immagine della persona
opera di tutto
ciò. Si disse che forse era meglio non sapere.
La risata risuonò nuovamente e questa volta anche il leggero
picchiettio del
piede a terra.
«Bene bene. Quindi cosa farne di te? Consegnarti, oppure
… » Parlò con tutta
calma, sebbene le parole della ragazza non sovrapposero affatto il
battito
impazzito del cuore di Sam.
Ella rise ancora.
«Penso proprio che farò la birichina,
d’altronde qui ci siamo solo tu ed io.»
Schioccò la lingua al palato e smise di
picchiettare il piede a terra, giusto il tempo per sollevare le braccia
al
cielo e sospirare di beatitudine. Era seriamente piena di
sé, questo Sam lo
capì alla perfezione.
Sam strinse vagamente le labbra.
«Con…Consegnarmi?» Mormorò il
ragazzo,
aggrottando fugacemente le sopracciglia. Qualcosa lo allarmò
ancor di più. «Chi
sei?»
“Vuoi seriamente sapere, Sam? Lo
vuoi
davvero?” Ancora una volta si disse decisamente
confuso.
«Sapere il mio nome non ti servirà di certo, dal
momento che stai per diventare
parte integrante di me. Direi che la parte della presentazione
è stata più che
superata, dolcezza.» La ragazza parlò con un tono
di voce decisamente
divertito, prima che potesse sollevare una gamba e puntellare il tacco
sul petto
del ragazzo ancora seduto a terra, schiacciandolo maggiormente alla
parete dietro
di lui.
«Allora … » Continuò la
ragazza. «Iniziamo?»
«Più che altro direi … Finiamo?»
Sia la ragazza, sia Sam, si ritrovarono a trattenere il respiro, in
allerta.
Si riscoprì nuovamente carico di speranza e al tempo stesso
di ansia per la
paura che potesse esserci qualcun altro all’interno
dell’aula, qualcun altro
pronto a …
Deglutì, riscoprendosi più speranzoso che mai.
Doveva sperare in un salvataggio, oppure doveva incominciare a pregare
seriamente?
La donna abbassò la gamba e posò il piede a
terra, sospirando, mentre un “Tu”
appena ringhiato usciva dalle sue labbra, seguito da uno sbuffo di
risata per
tutta risposta.
Sam tornò a tirarsi su a sedere contro la parete, dal
momento che era finito
con lo scivolare un poco, prima
di dover
strizzare gli occhi con forza quando una luce fece brillare, per un
secondo al
massimo, il corpo della ragazza. Fu la prima ed l’ultima
volta che la vide, dal
momento che semplicemente non riuscì più a
trattenersi. Cadde a terra, di lato,
picchiando la testa sul pavimento mentre la sua attenzione andava a
perdersi
per qualche secondo e tutto quanto prese a vorticare
all’interno della sua
testa.
La voce della ragazza e quella del ragazzo si andarono a mescolare.
{***}
Il
viso di sua madre era quello di sempre: roseo e
perfetto.
I capelli lunghi e biondi le incorniciavano il viso e le donavano un
aria del
tutto angelica, tanto da far mugolare di nostalgia il ragazzo
nonostante fosse
lì con lei, davanti a lei.
Sam sapeva che tutto ciò non poteva essere reale che lei,
l’unica vera donna
della sua vita, non era più li con lui.
La donna allungò le braccia e prese il volto del figlio tra
le mani,
sorridendo. «Il mio bambino. Sam.»
Esclamò il suo nome con tutta la dolcezza di
questo mondo, inclinando il capo di lato e sorridendo con fare amabile.
Aveva
gli occhi ricolmi di lacrime, come se stesse per piangere, nonostante
Sam ne
ignorasse completamente il motivo.
«Mamma, mamma … non so cosa fare senza di te
… » Non riuscì a parlare, non
più,
dal momento che le lacrime incominciarono a solcare inesorabili le sue
guance e
le labbra presero a tremare, senza darsi il benché minimo
contegno.
La donna ridacchiò, scuotendo leggermente il capo.
«Ma ora sono qui. Tu sei
qui. Siamo insieme, io e … »
«Penso che sia seriamente il caso che tu apra gli occhi, dico
davvero. La Bella
Addormentata non mi è mai piaciuta.»
Una mano lo stava scuotendo senza il benché minimo riguardo,
inducendolo a
mugugnare nel sonno e a corrugare la fronte nonostante gli occhi
chiusi.
L’immagine di sua mamma sparì lentamente dalla sua
testa, mentre la sensazione
di allerta e timore tornò dentro di lui, scuotendolo
nuovamente capo a piedi.
«No, io … io voglio dormire.»
Parlò senza farci caso, cercando di spostarsi di
lato come a voler scansare la mano che lo stava infastidendo e
scuotendo dal
suo sonno, sperando di potersi ricongiungere con sua mamma seppur
all’interno
della sua testa.
«Potrai dormire quanto vuoi, quando sarai a casa
tua.» Alla voce seguì una
scossa più forte.
Sam si ritrovò a sospirare mentre pian piano ritornava al
mondo reale fatto di
tristezza, paura, dolore e … tanta fame; aprì gli
occhi con lentezza,
riscoprendosi subito in dovere di stringersi nelle spalle e di
socchiudere gli
occhi per la luce che sembrò investirlo, nonostante non
fosse così luminosa.
Si trovava all’aperto, all’esterno
dell’Università con la schiena poggiata al
muro e le gambe stese a terra. Inoltre, dovette ammettere, che una cosa
oltre
alla fame lo stava cogliendo di sorpresa: la sua testa, che dir si
voglia,
pareva essere spaccata in due da quanto gli stesse facendo male.
Fu tentato di sollevare una mano e toccarsi la nuca, sebbene la sua
più
completa attenzione andò a focalizzarsi a ridosso della
figura del ragazzo al
suo fianco, anch’egli accomodato a terra come lui.
«Tu … »
«Ma dico io, non riesci nemmeno a difenderti da una
ragazza?» Domandò subito lo
sconosciuto, inarcando un sopracciglio con fare spazientito. Mosse
appena le
labbra come se fosse seriamente intenzionato a parlare nuovamente, a
voler dire
chissà che, nonostante alla fine se ne stette in silenzio.
«Perché … quella era una ragazza normale?
» Domandò cautamente Sam temendo la risposta che
gli avrebbe potuto dare. Al
tempo stesso non desiderava altro che un po’ di
delucidazione.
«Definisci il significato della parola
“normale”, anche se penso che in effetti
non avresti potuto comunque nulla contro di lei. Se non fossi venuto io
a
salvarti il culo, a quest’ora chissà cosa ne
sarebbe stato di te.» Continuò il
giovane sconosciuto, sollevando una mano come a volersi dare mille
arie. Una
parte di lui era solamente in attesa del fatidico
“Grazie” che si stava
aspettando da lì a poco.
«Penso di doverti ringraziare allora, dal momento che mi hai
salvato sebbene
non sappia dire da cosa.»
Rispose con
tono fin troppo cupo Sam, fissando davanti a sé. La testa
pulsò ancora di più e
la cosa peggiore fu che non riuscì nemmeno a dire se fosse
per la botta presa,
oppure per i mille mila pensieri che stavano attraversando tutti
insieme il suo
cervello.
« … “Cosa”.»
Ripeté quasi colpito il
giovane. Accennò ad un sorriso e poi, con aria sorpresa,
guardò Sam al suo
fianco. «Penso che tu abbia usato la parola esatta. Non era
una ragazza
normale.»
Il giovane si sentì quasi risplendere di luce propria per il
senso di
“fierezza” che lo attraversò. Aveva
detto qualcosa che aveva sorpreso quello
sconosciuto.
«Quindi … » Proseguì Sam,
deciso più che mai a voler far colpo su di lui ancora
una volta. «Che cos’era, se non era una ragazza
normale?» E dire che perfino a
lui, che stava parlando, era suonata una cosa talmente assurda da
sembrare del
tutto irreale. Decisamente irreale. «Perché non
era una ragazza … » Lasciò in
sospeso, come se di botto si sentisse quasi uno stupido ad aver
ipotizzato
qualcosa di questo tipo, qualcosa che comunque reputava impossibile.
« … Ragazza normale.»
Lo sconosciuto
lo guardò con un cipiglio appena confuso, prima di lasciarsi
andare ad un
accenno di risata. «Sei sicuro di essere un frequentante di
questa scuola?» Lo
schernì un poco, abbandonando quel velo di mistero che si
era ripromesso di
mantenere.
Sam lo fissò senza ridere, sorridere o altro. Semplicemente
lo fissava, in
attesa. «Scusa, ma sai per me è del tutto
impossibile, impossibile, credere
che sia accaduto davvero. Insomma … »
Sospirò,
toccandosi nuovamente la botta sul retro della nuca. «Il
dolore c’è, la paura
anche. Ma … andiamo, è successo davvero? Quella
ragazza mi ha seriamente …
lanciato dalla parte opposta della stanza?» Quasi ebbe voglia
di ridere, perché
nel dirlo ad alta voce, una seconda volta, suonò ancora
più improbabile di
qualche minuto prima.
Il giovane che lo affiancava tacque per alcuni istanti. «Se
ti fa sentire
meglio puoi anche pensare a questo episodio come un immaginazione, se
può
aiutarti. Credimi se ti dico che la verità potrebbe anche
essere peggiore di
questo.» Commentò, increspando le labbra.
Fissò davanti a sé e poi il cielo
oscurato. «E comunque … la prossima volta studia a
casa, a quest’ora pensare
alla scuola dovrebbe essere illegale, figurati trovarsi ancora al suo
interno.»
Parlò con una nota di divertimento nella voce, prima di
alzarsi da terra con un
pesante sospiro.
Sam, non appena vide l’altro alzarsi, fece lo stesso facendo
appello a tutte le
sue forze rimastogli, mettendosi in piedi mentre con un piccolo gemito
avvertì
la testa vorticare maggiormente.
«Penso di doverti la vita.» Esclamò Sam
una volta che fu in piedi. Se ne stette
affianco al ragazzo e qualche istante dopo, passato nel silenzio
più assoluto,
allungò una mano in sua direzione. «Mi chiamo Sam,
Sam Wesson.» Disse,
inclinando il capo di lato.
Il ragazzo lo scrutò attentamente, come se fosse nel pieno
dei suoi pensieri,
prima di allungare a sua volta la mano e stringere quella di Sam,
lasciando che
le loro mani congiunte oscillassero un po’.
«Dean Winchester.» Disse solamente il suo nome e
cognome, senza nessun
“piacere” seppur anche solo di cortesia, nulla.
Sembrava voler andare subito al
punto.
Le loro mani si sciolsero qualche secondo dopo che Dean si fu
presentato;
quest’ultimo allontanò la mano da Sam come se si
fosse appena reso conto di
quanto stesse bruciando.
«Quindi … Dean, pensi di volermi dire
cos’è successo là dentro?»
Continuò Sam,
ancora deciso a voler dare una spiegazione logica a tutto
ciò. Lui doveva dare
una risposta logica
all’accaduto, doveva farlo per forza, perché
altrimenti non sarebbe riuscito a
spiegarsi più nulla e ad andare avanti con il suo progetto
di una vita perfetta.
Dean temporeggiò un po’ e alla fine
intascò le mani all’interno delle tasche
della sua giacca, scrollando le spalle con noncuranza.
«Ciò che non sai non può ferirti,
quindi impara a non fare domande.» Esclamò
con fare stizzito, allontanandosi subito dopo. Non avrebbe aggiunto
più nulla,
se solo Sam non si fosse indispettito.
«Bella risposta, complimenti. Lascia che ti dica che come
saggio fai proprio
schifo!» Disse, restando alle sue spalle. Nel parlare
sollevò un po’ le braccia
per poi lasciarle ricadere lungo i fianchi in un secondo istante.
«Almeno puoi
dirmi cosa fare ora? Dentro c’è una ragazza
morta!» Continuò a parlare come se si
stesse riferendo ad un qualcosa di normale, qualcosa di ordinario.
«E che ne so io?! Solitamente si chiama la polizia,
no?» Dean parlò senza
voltarsi e, sempre dando le spalle a Sam, continuò a
camminare verso il
cancello della scuola.
Sam se ne rimase lì, non sapendo nemmeno se si fosse
seriamente svegliato o no.
Una parte di lui sperò di auto-convincersi che tutto
ciò, tutto questo
trambusto, fosse stato solo un brutto sogno.
Quando un leggero colpo di vento lo riportò alla
realtà si decise a prendere il
cellulare dalla tasca, componendo subito il numero della polizia ma
senza
schiacciare il tasto verde.
“Dean Winchester … grazie.”
Quando avviò la chiamata il suo cuore si era fatto
più leggero e il ricordo di
quella sera era già impegnato a svanire, a sbiadirsi secondo
dopo secondo.
Non ci avrebbe più pensato.
{ *** }
“Non
ci pensare, non ci pensare, non ci pensare.”
Dio, quanto avrebbe voluto che fosse stato così semplice non
pensare ad una
cosa del genere.
La notte dell’accaduto non riuscì a chiudere
occhio tanto che alla fine, dopo
essersi arreso all’idea di un lungo riposo ristoratore, si
alzò dal letto per
poter impugnare un libro e immergersi in una lettura appagante. Questo,
almeno,
lo estraniò dal mondo intero e dall’intera
faccenda.
Solamente quando si ritrovò a dover raggiungere la sua
scuola, sotto allo
sguardo di tutti i presenti sorpresi e curiosi per quanto era accaduto,
si era
dannato l’anima per non aver chiuso occhio.
Al momento, per poter dormire, avrebbe dato di tutto.
Si era ritrovato tentato più di una volta a voler tornare
indietro, a voltarsi
e raggiungere nuovamente casa sua, se solo delle mani delicate non lo
avessero
preso per le spalle e scosso gentilmente.
Lei, almeno, era gentile nello
smuoverlo.
Jessica Moore era lì, davanti a lui, con lo sguardo
preoccupato di chi potrebbe
seriamente gettarsi tra le fiamme pur di farti felice e Sam questo lo
sapeva,
purtroppo.
Lei era un altro punto importante della sua vita.
«Dio, Sam, hai la faccia di uno che non ha chiuso occhio
tutta la notte.»
Jessica usò un tono di voce decisamente preoccupato, mentre
con tocco gentile
sfiorava il volto del ragazzo, accarezzandolo.
Sam, dal canto suo, non se la sentì di mentire, anche
perché sarebbe stato del
tutto inutile.
«Forse perché non ho chiuso occhio, in effetti.
Sebbene al momento mi metterei
perfino in mezzo alla strada a dormire.» Commentò
con un fugace sorriso.
Jessica si apprestò a imitarlo, accennandogli un sorriso in
parte triste.
I due si persero per qualche minuto a parlare, a fare progetti per
quello
stesso giorno, prima di potersi indirizzare al bar più
vicino alla loro scuola,
prendendo un tavolo per due.
Parlarono un po’ di tutto, prima che Jessica riuscisse a
trovare il coraggio di
tirare fuori l’argomento.
«Quindi non conoscevi quella ragazza?»
Domandò come se nulla fosse, mescolando
il cappuccino bollente che una cameriera aveva appena servito ad
entrambi. Non
potendo udire una risposta di Sam, Jessica, proseguì.
«Nemmeno il ragazzo che
l’ha … uccisa?»
Sam si irrigidì appena, non sapendo nemmeno lui il motivo di
tutta quell’ansia.
«No, Jessica. Non conoscevo nessuno dei due.»
Commentò prima di chinare lo
sguardo. Si pentì quasi di aver usato un tono
così secco, quasi tagliente.
«Meglio così.» Aggiunse frettolosamente
lei. «Però … secondo me oggi avresti
fatto bene a startene a casa, insomma … sai che ti faranno
domande, vero? E a
loro dovrai rispondere sinceramente.»
Il ragazzo la fissò per alcuni secondi, prima di increspare
le labbra. «Io
rispondo alle tue domande. E direi che lo faccio pure
sinceramente.»
Nessuno dei due, dopo quel breve scambio di battute, parlò
dell’accaduto.
Tornarono a parlare dello studio e di probabili uscite di gruppo, le
loro
uniche e sole argomentazioni da sempre.
Sam era intento a raccontare un aneddoto abbastanza divertente di un
suo
compagno di classe, quando il campanellino sopra alla porta del bar
tintinnò,
segno che un nuovo cliente era entrato. Ma Sam, come del resto tutti i
clienti,
non ci fece caso.
«Quindi penso di essere il migliore della mia
classe.» Concluse Sam, prendendo
in mano la tazza del cappuccino, portandosela vicino alla bocca.
Jessica
ridacchiò e bevve a sua volta, lasciando che il loro
tavolino sprofondasse nel
silenzio più assoluto.
Sam era proprio intento a bere quando, senza nemmeno farci troppo caso,
sollevò
lo sguardo e incontrò quello di Dean, seduto qualche tavolo
distante da lui.
Per lunghi attimi rimase in silenzio nonostante avesse finito di bere e
Dean,
dal canto suo, distolse lo sguardo con quella che, anche da quella
distanza, a
Sam parve proprio imbarazzo.
«Io vado a pagare, mi aspetti fuori?» Chiese
Jessica, spingendo in avanti la
tazza del cappuccino. Prese la borsa da terra e se la mise sulla
spalla,
rovistando al suo interno in cerca del portafoglio.
«Sam? Allora?» Chiese, scuotendo il ragazzo dai
suoi sogni ad occhi aperti. «Mi
aspetti fuori?»
«Uhm.» Fu la sola ed unica risposta di Sam, mentre
nella sua testa aveva già
preso in considerazione l’idea di alzarsi e raggiungere Dean.
«Va bene, certo,
certo.»
Fu frettoloso nel parlare e tantomeno nell’agire, tanto che
perfino Dean,
avendo colto il messaggio, abbandonò il tavolo ancor prima
di aver ordinato
qualcosa e uscì all’esterno prima che Sam lo
potesse raggiungere.
Pensò a cosa poter dire prima ancora di avvicinarsi a lui
perché, sinceramente,
si sentì in dovere di chiedergli qualcosa, di fargli qualche
altra domanda.
Solamente quando furono all’aria aperta, Dean, come se nulla
fosse, prese a
parlare: «Pensavo che ti saresti fatto internare da qualche
parte,
sinceramente. Temevo che i tuoi pensieri, la tua immaginazione, sarebbe
stata
più forte di te.» Disse Dean mantenendo le mani
nelle tasche, andando ad
assumere quell’aria un po’ troppo fiera secondo i
modesti gusti di Sam. «Ma sono
felice di essermi sbagliato per una volta, dico davvero.»
Sam chinò il capo, dondolandosi un po’ in avanti,
spostandosi dai talloni alle
punte dei piedi. «Già.»
Concordò il ragazzo chinando un po’ il capo.
Fissò il
terreno sotto ai suoi piedi per alcuni istanti prima di ridacchiare un
po’,
totalmente preso dai propri pensieri. «Già,
però … la mia fantasia si è data da
fare, devo ammetterlo.» Riprese a parlare come se nulla
fosse, lanciando a Dean
solamente qualche occhiata sfuggevole.
«Be’ … è
comprensibile.» Ora Dean parve seriamente a disagio, sebbene
i suoi
occhi stessero trasmettendo una nuova luce. Forse speranza? Sembrava
seriamente
speranzoso. «Ma sono curioso di sentire la tua
teoria.»
«Ecco …. » Sam prese un profondo respiro
e alla fine, dopo qualche secondo,
iniziò a parlare: «Sono assolutamente convinto che
abbiamo vissuto assieme un
episodio psichico.» Lo disse con assoluta sicurezza, tanto
che per qualche
secondo Dean se ne rimase in silenzio. Com’è che
si dice? La calma prima della tempesta.
Il ragazzo si mise a ridere con
assoluto divertimento, tenendosi perfino lo stomaco con la mano.
«Episodio psichico?»
Chiese Dean,
sempre più divertito. «Non penso nemmeno di sapere
cosa sia, sai?» E nel notare
che Sam stava già per aprire la bocca, Dean, prendendolo
contropiede, scosse il
capo e sollevò l’indice come a zittirlo.
«E ovviamente sono ironico. So che
cos’è un Episodio Psichico. Però, mi
dispiace, ma io non ho vissuto nulla del
genere. E a meno che io non sia solamente frutto della tua
immaginazione … »
Disse inarcando un sopracciglio, estremamente sorpreso del fatto che
Sam
potesse seriamente credere qualcosa del genere. Scosse lentamente il
capo. «Se
ci tieni davvero così tanto a volerti dare una risposta,
magari posso anche
assecondarti.» Ora Dean si fece serio in volto, sebbene il
sorriso sparì con
difficoltà dal suo viso. «Non siamo soli, Sam. Al
mondo non ci siamo solo noi …
umani. Ci sono altri esseri, altre cose.»
Quell’ultima parola la disse digrignando quasi i denti,
sebbene non proseguì a
parlare. Ora voleva una reazione significativa da parte di Sam.
«Non siamo … soli, dici? Ora sì che mi
sento preso in giro.» Borbottò per tutta
risposta Sam, alzando gli occhi al cielo con fare sconsolato.
«Scusa, scusa.
Scherzavo sull’Episodio Psichico, sai?» Disse come
a voler tagliare il tutto, a
dare un taglio a quel discorso che per lui non aveva il
benché minimo
significato.
“Ma è successo davvero. Lei era …
vera.”
Deglutì l’amaro.
Dean lo guardò fisso come se sapesse cosa stesse passando
all’interno della sua
mente.
«Hai presente tutte quelle cose che gli adulti dicono ai
bambini per
spaventarli? Il mostro sotto al letto, l’uomo nero e cose del
genere? Be’, sono
tutte vere. I Mostri, Sam, esistono. E per precisare, la ragazza che ti
ha
aggredito ieri sera era una “cosa”. Era un Demone.
Ed io caccio quelli come lei
e altri esseri.» Parlò con fare calmo, nel pieno
del proprio controllo. Parlava
e spiegava a Sam come se fosse stato pronto a mantenere il controllo al
dissentire del ragazzo, ma quando questo non accadde si
preoccupò. «Sam? A
questo punto … dovresti dire qualcosa, lo sai? Io, ad
esempio, sono quel che si
chiama un Cacciatore. I mostri
della
quale tutti hanno paura … io li caccio, li ammazzo a
colazione, pranzo e cena.»
Parlò nuovamente con fare autoritario, sollevando in minima
parte il capo come
a voler desiderare tutta l’attenzione a questo mondo.
Dean si meritava il rispetto di ogni creatura vivente a questo a mondo
e Sam
questo lo capì, forse fin da subito.
«Quindi … sei un po’ come quelli degli X-Files?»
Buttò lì Sam, non riuscendo affatto a trattenere
quel commento. «Oppure come i Ghostbusters?»
Continuò successivamente.
«Diciamo che … il succo è quello, alla
fin fine.» Decretò alla fin della fiera
Dean, sospirando. Rovistò con la mano all’interno
della tasca della giacca e
dopo qualche secondo tirò fuori un biglietto da visita che
porse a Sam,
socchiudendo gli occhi. «Non penso che avrai la sfortuna di
capitare nuovamente
tra le mani di un qualche Demone, ma nel caso dovessi sentire qualcosa
di
strano, o ti dovessi trovare in pericolo …
chiamami.»
Sam, un po’ restio, prese il biglietto da visita che Dean gli
stava allungando.
«Agente Dean Smith?» Domandò in seguito
dopo aver letto il biglietto da visita
del presunto agente FBI Dean Smith.
Il diretto interessato parve un po’ imbarazzato, sebbene fu
questione di pochi
secondi. «Be’, non posso mica dire in giro che
ammazzo le cose della notte,
no?» Lo disse con tono talmente ovvio che, ancora
una volta, fu proprio Sam a sentirsi un idiota. «Ora
però devo andare, ho vite
da salvare.»
«E io molto da studiare.» Rispose Sam, increspando
fugacemente le labbra. Si
intascò il biglietto da visita e accennò un
sorriso fugace al ragazzo. «Grazie
Dean, davvero. Spero di non doverti vedere più, non in
questo frangente per lo
meno.»
«Be’, non torno due volte nello stesso posto, a
meno che non ci sia qualche
figlio di puttana da fare a pezzi. Direi che la mia identità
è abbastanza a
rischio ogni volta, no? Be’, ci vediamo Sam, sta attento e
… pensa a studiare.»
Gli puntò contro l’indice come a volerlo ammonire,
come se stesse parlando più
con un probabile fratello che con qualcun altro.
Sam chinò il capo in segno di una resa del tutto fuori
luogo, annuendo.
«D’accordo, seguirò il suo consiglio,
Agente Smith.»
Dean, a quelle parole, non rispose. Semplicemente accennò ad
un sorriso e se ne
andò, mescolandosi nel mare di ragazzi e ragazze che
andavano in più direzioni.
Sam si strinse all’interno della giacca sollevando le spalle
mentre i suoi
occhi persero del tutto di vista la figura del ragazzo, ritrovandosi
poi a
sospirare.
Si riscoprì felice come non mai nell’aver superato
tutto, ma al tempo stesso si
riscoprì anche abbastanza preoccupato.
Non voleva che i Mostri che tutti ritenevano solo finzione fossero
realtà. Non
voleva pensare al fatto che al mondo ci fossero cose peggiori della
ragazza che
lo aveva aggredito.
Solamente in quel momento, quando Dean se n’era
già andato, si rese conto di
non avergli chiesto nemmeno un : “Perché diceva di
volermi consegnare a
qualcuno? Tu ne sai qualcosa?”. Arrivò perfino a
pensare di chiamarlo subito e
chiederglielo a lui direttamente ma qualcuno, qualcuno appena
conosciuto, gli
aveva detto ciò che non sai non
può ferirti.
“Davvero un pessimo saggio.”
Pensò con un mezzo sorriso.
Si riscosse solamente quando la porta alle sue spalle si
aprì e una Jessica
tutta trafelata fece il suo arrivo.
«Sam, scusami! Ho incontrato una mia vecchia amica e
… sai com’è.» Si
avvicinò
fino a stringersi al suo braccio. Nel notare il sorriso del ragazzo, un
sorriso
decisamente sereno seppur incuriosito, si fece
largo sulle sue stesse labbra,
rilassandosi a sua volta. «Sam, che ti è successo?
Sembri stare molto meglio
ora.»
«Non è successo nulla.» Rispose subito
il ragazzo e si chinò in direzione della
ragazza, sorridendo nuovamente. «Mi sei mancata. Tutto
qui.»
Jessica sorrise con fare fin troppo smagliante allungando il collo
verso Sam,
mugolando un leggero “mhh”. «No, non ci
provare. Non funziona con me, te l’ho
già detto.» Ma nonostante ciò
posò ugualmente le labbra sopra a quelle del
ragazzo, soffocando una risatina di entrambi.
Alla fine, forse, l’idea di una vita perfetta per Sam Wesson
non era poi così
lontana.