- Niente ci schiaccerà -
Capitolo Primo .::. «Goodbye»
Le lancette dell’orologio si muovevano lente ed inesorabili con il loro ticchettare fastidioso. Iniziai a
picchiettare nervosamente con la penna sul banco. Era l’ultimo giorno di scuola
e l’ultima ora non poteva che essere quella di miss
Meyers, più comunemente nota come “bocca-di-mostro Meyers”. Chissà quando si
era aggiudicata quel soprannome. Quando arrivai,
quattro anni fa, gliel’avevano già affibbiato. Probabilmente lo aveva ricevuto
dalla prima classe nella quale aveva insegnato. Mi parve di scorgere uno
scintillio di impazienza anche negli occhi della
professoressa mentre ci augurava buone vacanze. Dopotutto credo che anche lei
fosse felice di andare in vacanza per un po’ dopo aver passato nove mesi di inferno con Fulcher e Hoager (NdA: non sono sicura che i cognomi si scrivano così. Se li ho
scritti sbagliati fatemelo sapere, okay? Grazie ^^). Mi accorsi solo in quell’istante di come
era passato in fretta il tempo. Erano già quattro anni che ero arrivata.
Ora avevamo più o meno tutti sedici anni a parte
qualche rara eccezione. Ed erano anche quattro anni passati a Terabithia con
Jess. Il nostro posto segreto dove avevamo passato tutti i giorni per tutte le
estati con P.T. Ma quest’estate era diversa e lo sapevamo bene tutti e due. L’ultimo romanzo dei
miei genitori – una storia che assomigliava incredibilmente a quella mia e di
Jess: due ragazzi che scoprono un nuovo mondo incantato – aveva avuto un
successo inaspettato, così avevano deciso di andare in Europa e, naturalmente,
mi avrebbero portata con loro. Il che stava a significare tre lunghi mesi senza lontana da Terabithia e
da Jess. Sbuffai leggermente per non farmi sentire dalla Meyers. In
quell’istante Jess si voltò verso di me e mi guardò con uno sguardo che stava a significare: “ma quando finiamo?”. Gli sorrisi
stancamente. La voce della Meyers era ormai quasi un ronzio basso e inudibile.
Adocchiai Madison, in prima fila come al solito,
composta, con le mani incrociate sul banco e un’espressione che sembrava dire:
“guardatemi, sono la migliore perché ascolto la Meyers”. Scossi la testa e
tornai a fissare l’orologio. Grazie al cielo stava per suonare. Mi preparai
psicologicamente all’esplosione e un secondo dopo un trillo persistente si
propagò per tutte le aule. Io e Jess rimanemmo ai nostri posti – immobili per
evitare il travolgimento da fine scuola – e ci alzammo solo quando furono tutti
usciti in cortile. O almeno la maggior parte. Tirammo le tende, cancellammo la
lavagna e demmo un ultimo sguardo all’aula prima di chiudere la porta di legno con
un sospiro di sollievo. In corridoio salutammo il
signor Bailey che ci fece un segno con la mano e grugnì continuando a passare
lo spazzolone sul pavimento immacolato del corridoio principale. Uscendo nel
cortile d’asfalto dovemmo ripararci gli occhi dalla luce del sole. Raggiungemmo
l’autobus e ci sedemmo nei nostri soliti posti. Due file più avanti MayBelle si
vantava con Alexandra della sua gonna nuova in stile scozzese. Scossi la testa
sorridendo e guardai fuori dal finestrino il cortile ormai deserto.
«MayBelle, mi porti questo a casa, si?»
«Si, okay. Uffa…» MayBelle raccolse da terra lo zaino di suo fratello e si
diresse con un faccino triste verso casa. Abbandonai anch’io la borsa accanto alla
macchina nera di papà stiracchiandomi le braccia. Seguimmo MayBelle con lo
sguardo finchè non scomparve dietro l’angolo del vialetto che portava a casa di
Jess.
«Ai posti. Pronti? Via!» gridai e partimmo di corsa, veloci come il vento, i più
veloci di Terabithia. Nessuno ci avrebbe battuto mai. Niente ci avrebbe mai
schiacciato. Arrivati alla fine del viale scavalcammo
con un salto il cancello e il tronco subito dopo e corremmo ancora attraverso i
prati verdi prima del bosco. Il sole bruciava alto nel cielo terso e azzurro,
come una lampadina gigante da milioni di watt, amplificando la nostra fatica ma
a me non importava. Quella era l’ultima corsa che avrei fatto di lì a tre mesi.
Quando entrammo sotto il tetto verdeggiante del bosco
fu come una nuova iniezione di ossigeno preso direttamente dalla cima dell’Everest
dove l’aria non poteva essere che perfetta. Frenai con i piedi e mi fermai
appoggiandomi ad un albero. Jess mi raggiunse poco
dopo nella stessa maniera.
«Niente ci schiaccerà, eh
Leslie?»
«No, niente» dissi a fatica riprendendo fiato «a parte una
corsa micidiale» dissi ridacchiando più per la stanchezza che per altro. Lui
sembrava aver ripreso fiato più in fretta perché si staccò dalla corteccia
dell’albero e mi tese una mano.
«Però mi hai preso alla
sprovvista. Non ero preparato» afferrai la sua mano e
mi rimisi in piedi anch’io guardandolo.
«Jesse Oliver Aarons preso alla
sprovvista? Dovrò segnarmelo sul calendario!» esclamai
ridendo e corsi verso la corda. Con un ramo lungo la portai verso di noi.
«Prendila… okay» salii sul tronco, saltai sulla corda e,
quando fui in prossimità dell’altra metà del fiume, mi lasciai cadere tra
l’erba e le felci alte. Rilanciai la corda a Jess che cadde accanto a me poco
dopo. Insieme ci incamminammo verso la casa sull’albero, le rovine del
castello. Appena la vidi – poco oltre il vecchio pick up abbandonato – corsi
avanti.
«Forza Jess! Vieni!» esclamai cominciando a salire sulla corda a nodi. Lui mi
seguì e si sedette accanto a me. Il vento soffiava forte attraverso il bosco e faceva tintinnare le campane di Terabithia – alcuni pezzi di
ferro che eravamo riusciti a recuperare qui e là alla fine.
«Il popolo saluta la propria regina»
«Già…» sospirai «Terabithia mi mancherà» dissi
malinconicamente rimirando il nostro regno. Sapevo che dalla cima degli alberi
si vedeva meglio ma era bello stare là.
«Già» disse Jess. Ogni volta che
mi parlava mi meravigliavo di come fosse cambiata la sua voce. Era diventata
più profonda, calda, suadente e rassicurante e per un attimo mi sentii come
avvolta in una gigantesca coperta. Al sicuro. Protetta. Non era cambiata solo
la sua voce, però. Era diventato più alto – molto più
di me – e i capelli scuri erano poco più lunghi perché li tagliava ogni volta
che raggiungevano le spalle. O, meglio,
glieli tagliava sua madre. Per questo aveva sempre un taglio perfetto. Le
uniche cose che non erano cambiate in lui erano gli occhi sempre vispi e veri,
senza ombra di cambiamenti o brutti pensieri, e il suo sorriso radioso,
perfetto e felice.
«A Terabithia mancherai tu» disse guardandomi con sguardo
intenso. Sospirai profondamente e gli posai la testa sulla spalla.
«Dai Jess… tre mesi passano in
fretta, no?» dissi. Poco dopo feci una smorfia. Forse non passavano così in
fretta tre mesi.
«Sì, per te in giro per l’Europa» sbottò «ma io qui con
MayBelle e JoyceAnne, beh…». Lo sentii sospirare pesantemente. Potevo capire
cosa provava. Dopotutto anch’io ero triste all’idea di andarmene.
«E poi ci sentiremo lo stesso, giusto?»
«S-sì…» percepii qualcosa di strano nella sua voce. Come
un tremolio che cercava di nascondere a tutti i costi. Lentamente mi voltai
verso di lui vedendo che aveva gli occhi leggermente lucidi.
«Jess…» dissi posandogli una mano sul viso. Lui sembrava
non sentirla e teneva lo sguardo fisso al cielo oltre i rami per impedire alle lacrime
di uscire dai suoi occhi.
«Jess non fare così, ti prego,
altrimenti… altrimenti mi metto a piangere anch’io, eh. E ti assicuro che non
sarebbe un bello spettacolo» dissi gesticolando
cercando di farlo ridere. Tentativo fallimentare in partenza. Con il pollice
gli asciugai una lacrima che era sfuggita al suo solito autocontrollo “da Ken”
come lo definivano MayBelle e JoyceAnne. Amavano paragonare il fratello
maggiore al fidanzato di Barbie. Anche perché io secondo loro ero Barbie.
«Ho paura che quando te ne andrai Terabithia scomparirà»
disse con voce spezzata «oppure che non sarà più come prima». Aggrottai la
fronte a quelle parole. Anch’io avevo pensato a quel fatto ma poi mi ero detta
che ci sarebbe stato Jess a proteggere il regno dagli Scoager e dagli Avvoltoi.
Naturalmente in compagnia dell’unico, vero, autentico cane
purosangue da grandi Troll straordinario. La mia mente viaggiò indietro
nel tempo. Quattro anni prima, un pomeriggio dopo scuola. Drizzai la schiena e
lo guardai sorridendo.
«Ti ricordi quattro anni fa quando trovammo la corda?» gli
chiesi. Lui si asciugò gli occhi e annuì.
«Ti dissi che ci serviva un posto nostro, che solo noi
conoscevamo»
«Sì, mi ricordo»
«Bene. Terabithia rimarrà per
sempre nostra anche se saremo lontani per un po’»
dissi. Lui non mi guardava, aveva lo sguardo assente e non ero sicura che mi
avesse sentita.
«Jess, capito?» chiesi voltandogli il viso verso il mio.
«Sì, ho capito» mi rispose, ma continuava ad avere lo
sguardo tipico da cane bastonato. Feci una smorfia e finalmente riuscii a farlo
ridere. Era già qualcosa. Mi aggrappai al suo braccio e posai di nuovo la testa
sulla sua spalla. Rimanemmo così tutto il pomeriggio a parlare di tutto tranne
che della mia imminente partenza. Arrivammo anche a chiederci perché lui avesse
messo la felpa rossa e io la camicetta bianca. Dopo
alcune ore di sana pazzia pomeridiana tornammo a casa.
«Domani mattina alle otto!» esclamai prima di svoltare
verso casa. Lui si voltò verso di me con un’espressione confusa sul viso. Come
mi aspettavo.
«Cosa?»
«Mi aspetto che tu venga a
salutarmi, Jesse Aarons. Alle otto, ricordati!» e
svoltai correndo verso casa.
****
Bip. Bip. Bip. Bip.
Aprii gli occhi lentamente, stropicciandoli. Voltai la
testa verso la sveglia. I numeri digitali segnavano le 6.30. Spostai lo sguardo
sulla fotografia là accanto. Era fatta con l’autoscatto e perciò era
leggermente storta. Raffigurava me, Jess e P.T.
a Terabithia. P.T. era letteralmente saltato addosso
a Jess e io cercavo di tenerlo a bada senza evidenti
risultati. Però comunque era una foto che mi piaceva.
Rappresentava la nostra allegria. Mi venne da ridere ma mi trattenni sapendo
che dall’altra parte della parete c’erano i miei che dormivano ancora. La
valigia era già pronta ai piedi del letto ma decisi di portare la fotografia
nella borsa con me. Mi alzai e cominciai a prepararmi con tutta la calma di cui
disponevo. Circa alle 7.15 ero già pronta mentre mamma e papà si stavano
svegliando. Non sapendo che fare mi sedetti sul divano bianco davanti alle
finestrate e guardai fuori. Nello spiazzo davanti casa c’era solo la nostra
auto nera e dal vialetto non si vedeva nessuno.
Dopotutto le sette
sono passate da poco,
mi dissi. Sentii dei passi dalle scale. Qualcuno si era deciso a svegliarsi. Io
continuai a stare girata verso la finestra finchè papà
si sporse dallo schienale del divano.
«Buongiorno biondina! Che fai già
in piedi?» esclamò scompigliandomi i capelli che
prontamente rimisi a posto.
«Ciao pa’» risposi sorridendo
«Niente. Guardo fuori dalla finestra» dissi facendo un
cenno verso la vetrata. Sapevo che non si sarebbe bevuto
una risposta così evasiva. Era uno scrittore. Probabilmente aveva già capito.
«E… perché guardi fuori dalla finestra?» appunto. Sospirai
silenziosamente e gettai la testa all’indietro, guardandolo.
«Aspetto Jess» ammisi. Lui annuì
e subito dopo guardò il viale con me. Il suo sguardo era simile a quello di un
filosofo che cerca di dare una risposta ai grandi interrogativi dell’uomo.
«A che ora dovrebbe arrivare il nostro artista?»
«Alle otto» dissi sorridendo alle parole “nostro artista”.
E in effetti lo era veramente. In quei quattro anni le
sue capacità artistiche erano migliorate incredibilmente e in meno di un
pomeriggio era riuscito a disegnare una magnifica mappa dettagliata di tutta
Terabithia. Naturalmente avevamo provveduto a tenerla
lontana da MayBelle e JoyceAnne. Di Brenda ed Ellie non ci preoccupavamo più.
Erano più grandi di noi e si erano trasferite in un’altra città.
«Alle otto? Tesoro, sono appena le
sette e venti!»
«Lo so papà. È che… beh, non so
cosa fare e… volevo assicurarmi che venisse a salutarmi»
«Verrà Leslie. Ne sono sicuro». Sentii il suo bacio sui miei capelli e questo mi
rassicurò un po’.
«Intanto perché non mi aiuti a buttare giù la trama per il
nostro nuovo libro?». A quelle parole mi voltai lentamente verso di lui con
un’espressione seria.
«Papà» cominciai «non avrai
intenzione di lavorare anche mentre siamo in Europa?»
«No, certo che no tesoro. È solo
una bozza. Allora? Che ne dici?». Ci pensai sopra un
attimo, poi accettai. Corsi in camera a prendere un quaderno e una penna e ci
spostammo sul tavolo della cucina. Per prima cosa facemmo un brainstorming al
quale la mamma – che nel frattempo si era svegliata – partecipò fornendoci sempre
nuove idee.
Il tempo doveva essere passato proprio in fretta. Quando
mi voltai verso l’orologio alle mie spalle erano le
8.45 e ci stavamo accingendo a partire.
«Sei pronta tesoro?»
«Ah… sì, solo un secondo». Chiusi il quaderno e salii in
camera a prendere la giacchetta blu. Me la legai attorno ai fianchi e prima di
uscire lanciai un’occhiata fuori dalla porta-finestra della mia stanza. Da là
si vedeva il viale centrale e anche quello che arrivava a casa nostra. Speravo
di vedere Jess da un momento all’altro. Speravo di vederlo sbucare dall’angolo
correndo. Non lo vidi ma sentii la voce di mia madre.
«Leslie! Sei pronta?»
«Sì! Arrivo!» afferrai svelta la
fotografia dal comodino ed uscii chiudendomi la porta
bianca dietro le spalle.
«Eccomi» dissi passando davanti a mamma. Uscendo di casa la luce del sole mi accecò e dovetti ripararmi gli
occhi con la mano. Trascinai il trolley dall’entrata di casa fino alla macchina dove lo passai a papà che lo caricò nel baule
insieme alla sua valigia e a quella di mamma. Quando alla fine chiuse il portellone ci voltammo entrambi verso casa.
«Judy! Andiamo?»
«Sì, un attimo Bill! Sto chiudendo!» esclamò. Fissai la mia finestra. Accidenti. Mi ero
dimenticata di chiudere le tende. E anche le imposte, mentre tutte le altre
erano ben serrate.
Vabbè. Scrollai le spalle e quando mamma
ebbe finalmente finito di armeggiare con le chiavi
potemmo salire in macchina. Uscendo dal viale guardai involontariamente verso
casa di Jess. Il cortile era deserto e non c’era nemmeno il pick up del signor
Aarons. Scossi la testa sbuffando leggermente. Tirai fuori dalla borsa il libro
che dovevo finire di leggere – uno dei tanti dei miei genitori – proprio mentre
ci immettevamo sulla strada principale.
«Tesoro, non essere triste»
Papà mi riportò alla realtà strappandomi alle colline
britanniche nelle quali ero immersa fino a poco prima. Veramente, non avevo
neanche sentito ciò che aveva detto.
«Come? Scusa papà, non ascoltavo» chiusi il libro tenendo il segno con l’indice. Odiavo fare
le orecchie alle pagine.
«Dicevo, non essere triste per il fatto
che Jess non sia venuto. Avrà avuto qualche contrattempo»
«Mhm» bofonchiai soltanto annuendo con la testa e tornai a
leggere. Ero appena riuscita a riprendere la concentrazione e il filo narrativo
quando si fermò improvvisamente la macchina. Alzai lo sguardo allarmata.
«Papà che succede?»
«Niente» mi rispose tranquillamente «solo penso che tra
poco vorrai scendere». Quella risposta mi mise in allarme davvero. C’era
qualcosa che non andava. Ma non era una cosa brutta e
me ne accorsi solo in quel momento quando vidi, attraverso lo specchietto
retrovisore, un ragazzo con i jeans slavati, la felpa grigia e i capelli scuri
correre in mezzo alla strada.
«Non ci credo…» sussurrai con il sorriso sulle labbra.
«Signore e signora Burke! Leslie!!» poggiai il libro sul sedile e mi precipitai fuori
dall’auto. Cominciai a correre verso di lui che continuava a chiamarmi a
squarciagola. Ci separavano solo pochi metri quando inciampai nelle mie stesse
scarpe. Feci un piccolo capitombolo ma non atterrai al suolo come pensavo. Jess
era riuscito ad afferrarmi per il braccio. Mi rialzai in fretta e incontrai il
suo sguardo.
«Attenta, non voglio che ti schianti» disse ridacchiando.
«Già, grazie di avermi salvata»
«E… beh, scusami per non essere venuto a salutarti
stamattina ma il fatto è che…»
«Zitto» gli tappai la bocca con la mano. «Grazie che sei
venuto a salutarmi». Borbottò qualcosa che non riuscii a capire. Alzai un
sopracciglio, confusa.
«Cosa!?» esclamai. Lui prese la
mia mano con la sua stretta forte e la scostò dalla sua bocca.
«Ho detto…» disse cercando di
soffocare una risata «che non c’è problema, figurati» lasciò la mia mano che mi
ricadde lungo il fianco.
«E sono arrivato tardi perché… beh, volevo farti un regalo
di arrivederci, così…»
«Jess! Ma…»
«Ma niente» esclamò autoritario.
Io mi zittii subito ma dovetti fare ricorso a tutto il mio autocontrollo per
non scoppiare a ridere. Non l’avevo mai visto così e, sinceramente, era
alquanto strano. Comunque sia mi schiarii la voce e feci la seria per quanto
possibile.
«Beh… tieni» allungò la mano verso di me tenendo il
braccio teso. Lo sapevo che non era bravo in queste cose. Nel pugno stringeva
un nastro di seta rosso con sopra ricamate le parole “Niente ci schiaccerà” e
accanto “J&L”. Lo presi dalle sue dita con delicatezza e lo guardai con un
sorriso che mi si allargava ad ogni lettera che
leggevo. Alzai lo sguardo lucido su di lui.
«Hey, non piangere!» esclamò dopo poco portandomi una
ciocca di capelli dietro l’orecchio e facendomi l’occhiolino.
«Ho trovato il nastro in uno dei vecchi cassetti di Brenda
e mamma mi ha aiutato a ricamare la scritta»
«Grazie, Jess…». Non lo abbracciai solo perché a pochi
metri c’erano i miei e mi sentivo un po’ a disagio.
«Di niente, Leslie». Gli sorrisi e, come con uno specchio,
mi sorrise a sua volta. Speculare.
«Leslie…» sentii chiamarmi. Mi voltai, riluttante a
lasciare quegli occhi scuri, verso l’auto.
«Leslie, tesoro, mi dispiace ma dobbiamo proprio andare o
perderemo l’aereo»
«D’accordo, arrivo» dissi per poi voltarmi verso Jess.
«Ora io… beh, devo andare Jess»
«Certo» rispose annuendo «allora
buon viaggio. Ci vediamo eh! Ciao!» esclamò
salutandomi con la mano, sorridendo. Si voltò e lo guardai correre verso casa,
stringendo il suo nastro tra le mani. Mi sorpresi a sorridere anch’io alla
fine.
«Tesoro, andiamo?»
«Certo! Eccomi mamma!» e cosi verso l’auto. Salendo non potei
fare a meno di notare il sorrisetto sulle labbra di mio padre. Quel
sorrisetto rimase là per alcuni minuti, il che mi preoccupò.
«Leslie?»
«Sì, papà?» risposi sospettosa e circospetta.
«Ti piace Jess?»
«Papà!!» esclamai sgranando gli
occhi e facendo ridere tutti i presenti tranne me. Io sorrisi e basta.
«Scusa! Era solo una domanda!» esclamò ridendo e continuando a guidare sulla strada
dritta.