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Autore: KiaeAlterEgo    11/11/2015    6 recensioni
Il Drago Smaug si è da poco insediato nella Montagna Solitaria, il Re sotto la Montagna è morto e Dale è distrutta. Il Bosco Atro è un luogo cupo e pericoloso da secoli e gli Elfi vivono lì, nascosti e circospetti.
Tauriel, da poco nominata capitano delle guardie, è con il principe Legolas a comando di una pattuglia che sorveglia la Via Elfica, quando si imbatte in una... strana creatura.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Galion, Legolas, Nuovo personaggio, Tauriel, Thranduil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lo straniero

Capitolo 2. Gli Orchi hanno gli spifferi

Tauriel scese nelle celle con le guardie e la guaritrice.

Rispetto al giorno precendente, quando l’avevano portato nel palazzo e il suo sguardo sembrava quello di un malato, gli occhi lucidi e arrossati, il prigioniero era sveglio, la schiena appoggiata contro la parete opposta all'ingresso della cella, gli occhi grigio acciaio aperti, lo sguardo fisso e la testa inclinata di lato. Era solo un minimo cambiamento e a Tauriel sembrò di guardare gli occhi di re Thranduil. Era una creatura antica anche questo prigioniero, e c'era qualcosa in quello sguardo che derivava dalle sue esperienze, ma non nel modo cupo del re.

«Ti cureremo e ti daremo del cibo» disse, scandendo piano le parole, nella speranza che lui capisse.

Il prigioniero, lo sguardo sempre fisso su di lei, girò la testa prima da un lato e poi dall'altro. Tauriel indicò Nestades e la guardia che reggeva il pane, la frutta e l'acqua. Il prigioniero spostò lo sguardo sul cibo per poi tornare a fissarla, le labbra schiuse e le sopracciglia inarcate.

Tauriel prese le chiavi e non distolse lo sguardo dal prigioniero. Era calmo e non dava l’idea che avrebbe tentato di scappare. Fece scattare la serratura della cella, pronta comunque a reagire a un minimo movimento del prigioniero. Lui si limitò a spostare lo sguardo oltre le sue spalle, agli altri Elfi che la seguivano.

Nestades si fece avanti. «Lasciami entrare per prima e da sola» disse.

Tauriel strinse le labbra, ma si fece da parte. La lunga veste dell'Elfa frusciò sul pavimento e lei entrò nella cella. Il prigioniero spalancò gli occhi e si appiattì contro la parete, lo sguardo che si spostava tra lei e la guaritrice.

Tauriel assunse un'espressione tranquilla, il sorriso sulle labbra e le sopracciglia distese, mentre Nestades diceva: «Sei stato ferito? Mi mostri i polsi?»

La sua voce era calma e bassa, il prigioniero non si mosse ma il suo sguardo si volse alla guaritrice e Tauriel lasciò andare il fiato. Perché quello sguardo l’aveva tesa così tanto da trattenere il respiro? Non era la tensione dell’attesa durante un’imboscata, né quella tensione di fronte a un nemico. Quelle le conosceva, quelle erano familiari. Questa invece… Non aveva mai provato nulla di simile.

Nestades tese la mano e il prigioniero la guardò. Lei indicò le guardie e poi tracciò con il dito un segno sui suoi polsi. Il prigioniero batté le palpebre una volta e allungò le braccia.

Nestades passò le dita sulla pelle scura dei polsi.

«Le escoriazioni della corda sono già guarite» disse.

Questo era interessante. Non succedeva agli Orchi, non così in fretta, né ai mortali.

«Vediamo se ha altre ferite» continuò Nestades e indicò il pugnale alla cintura di Tauriel, per poi fare un gesto, come se si stesse ferendo.

Il prigioniero scosse la testa, la grattò, e poi alzò il collo, per toccare la gola là dove Targion aveva tenuto il pugnale. Non c’erano segni visibili, Targion era stato attento.

Nestades prese il viso del prigioniero tra le mani, tirò indietro i suoi capelli sporchi, e rivelò sangue secco su una tempia. Tauriel incrociò le braccia e strinse gli occhi, mentre Nestades puliva la ferita: al di sotto la pelle era intatta, di quel colorito così scuro e strano, ma liscia e senza cicatrici.

Questo non voleva dire nulla: le ferite alla testa, anche se leggere, sanguinavano molto e un qualsiasi soldato lo sapeva.

Nestades pulì il viso del prigioniero non solo dal sangue, ma anche dalla polvere.

«Il mio tocco non lo sta infastidendo, capitano, la sua pelle non ne è bruciata» disse Nestades «Direi proprio che non è una creatura del male».

Allora l’intuizione di Tauriel era giusta! Non era un Orco.

La guaritrice si voltò verso di lei e aggiunse: «E non è nemmeno stato corrotto».

Non era una creatura del male, né era stato corrotto. Una buona notizia da portare al re.

Nestades si alzò in piedi e prese il prigioniero per le braccia, per alzarlo. Lui rimase seduto, lo sguardo confuso.

«Vediamo se ci sono ferite sul resto del corpo» disse Nestades, indicando ancora il pugnale. Il prigioniero sbatté le palpebre e Nestades gli toccò il bicipite, là dove c’era uno strappo sulla manica che rivelava sangue secco e pelle giallognola. Il prigioniero trasalì. Sollevò la mano e si fermò, prima di toccare quella di Nestades. Guardò Tauriel e Targion e Dogneth, poi prese la mano di Nestades, il suo gesto lento e cauto, e la allontanò. Si alzò, puntellandosi contro la parete, e sollevò la manica della sua veste.

«Sembra il morso di un ragno» disse Nestades, mentre puliva la zona. E il tocco della guaritrice doveva essere molto delicato oppure il prigioniero fingeva di non sentire dolore, perché lui non trasalì né cambiò espressione.

Nestades indicò delle croste, in mezzo a una zona di pelle giallognola. «Vedi qui? Questo mi fa pensare invece che sia caduto da qualche parte, contro qualcosa di appuntito».

L’Elfa prese il lembo della veste del prigioniero e lo sollevò fino alla pancia, poi lo fissò. Lui annuì e Nestades lo aiutò a liberarsi della veste. Lo fece voltare e sollevò i suoi capelli, per poi portarli oltre la sua spalla.

Tauriel distese le braccia lungo i fianchi. «Mi avvicino».

Nestades annuì e scostò le ultime ciocche. Lì, sulla schiena, appena sotto il collo, c’erano dei segni: tre stelle bianche, come se fossero state dipinte sulla pelle.

«Non si tratta di pittura, né delle cicatrici» disse Nestades, mentre le accarezzava.

Che fosse un segno che il prigioniero aveva dalla nascita? A Tauriel sembrava proprio che la pelle, in quei punti, avesse perso quel colore scuro. O forse era nato con la pelle bianca e si era scurita nel tempo, lasciando quei segni?

«Sembrano quasi...» Nestades abbassò lo sguardo e fece scorrere la mano sulla schiena del prigioniero.

«Cosa?» Tauriel spostò lo sguardo sulla guaritrice.

Nestades batté le palpebre e la guardò negli occhi. «Un’alterazione, non è nato con questi segni».

Un’alterazione?

«Cosa intendi?»

«Guarda, è anche qui» disse Nestades e indicò dei segni alla base della schiena, «intendo, un’alterazione dell’aspetto che noi Elfi siamo in grado di fare, non un tatuaggio» aggiunse e le fece segno di allontanarsi. Tauriel fece due passi indietro.

«I lividi sulla schiena confermano l’ipotesi della caduta» disse poi la guaritrice.

Nestades fece girare il prigioniero e prese l’orlo della cintura dei pantaloni, per poi tirarlo di poco verso il basso. Indicò poi il braccio ferito, rifece il gesto di tirargli i pantaloni e gli indicò la gamba.

Il prigionierò guardò prima la guaritrice, poi fissò Tauriel e le altre due guardie. Sospirò e si tolse i pantaloni.

Quei segni che Nestades aveva notato alla base della schiena partivano dal pube e gli giravano attorno ai fianchi: potevano essere forme stilizzate di fiamme o di rami, Tauriel non avrebbe saputo dire.

«Anche queste sono alterazioni, come i segni alla base del collo» disse Nestades.

Delle alterazioni volontarie. Per cosa? Avevano un qualche significato? Peccato non poter chiedere subito al prigioniero. Anche se sembrava un Elfo, Tauriel voleva avere conferme da Nestades. E, anche se aveva riconosciuto alcune parole che lui aveva detto, durante l'interrogatorio di re Thranduil, voleva prima avere delle risposte dai sapienti.

«Oh», aggiunse Nestades «questa è la puntura di un ragno».

La guaritrice indicò la coscia del prigioniero e Tauriel si abbassò per vedere meglio. C’era un punto rosso scuro, grande quanto una moneta dei mortali, circondato da una sostanza bianca, attorno alla quale la pelle era arrossata.

«Guarda, capitano, sta guarendo e non mostra la corruzione della carne dei mortali».

Quindi, il prigioniero sembrava proprio essere un Elfo. Nestades pulì la ferita e vi spalmò uno degli unguenti che si era portata dietro.

Tauriel si alzò e uscì.

Il prigioniero si rivestì e il suo sguardo era fisso su di lei. Tauriel lo sostenne. C’era preoccupazione in quegli occhi. Chissà cosa stava pensando? Si chiedeva perché lo tenevano lì? Si rendeva conto di essere un intruso? Perché si trovava a Bosco Atro?

Nestades uscì, pulendosi le mani sul grembiule che aveva in vita, mentre Tauriel chiudeva la porta, alle sue spalle.

«Non è un Orco», disse subito la guaritrice «né un mortale». Nestades lisciò il grembiule sulla gonna, prima di dire: «Per me appartiene alla nostra gente, e, anche se la sua pelle è così scura, non è corrotto dal male».

Tauriel annuì. «Ti ringrazio».

Nestades piegò il capo in risposta.

Al cenno di Tauriel, Targion fece passare il vassoio col cibo attraverso la porticina della cella. Il prigioniero si sedette, la schiena contro la parete della cella e mosse le orecchie verso l’alto, lo sguardo fisso sul cibo.

«Andate pure» disse lei. Nestades e le guardie annuirono e s'incamminarono sulle scale. Tauriel mise le mani dietro la schiena e raddrizzò le spalle, restituendo lo sguardo al prigioniero.

Non si era mosso, dopo essersi rivestito.

«Puoi mangiare, non badare a me» gli disse, facendo un cenno con il capo verso il cibo.

Il prigioniero continuò a fissarla, senza dire niente. Quella forza nello sguardo grigio acciaio le disse che non era spaventato in quel momento. Ma era circospetto e sospettoso. Tauriel sostenne il suo sguardo e ammorbidì la sua espressione con un sorriso. Lui non era una creatura del male! Chissà cosa aveva passato e chissà da dove veniva, doveva fargli capire che non aveva motivo di temerli.

Il prigioniero allungò una mano e si avvicinò il vassoio con il cibo. Toccò una mela con la punta delle dita, la annusò e la ripose sul piatto. Prese la brocca d’acqua e annusò anche quella, prima di berne un piccolo sorso. Toccò di nuovo la mela e questa volta leccò la punta delle dita.

Aveva davvero paura che lo avvelenassero!

Il prigioniero la fissò e rimase immobile, come se aspettasse qualcosa. Il suo sguardo era indagatore e sembrava volesse chiederle qualcosa. Tauriel spostò il peso da una gamba all’altra e incrociò le braccia, sollevando le sopracciglia.

Sembrò una reazione sufficiente a quello sguardo indagatore: il prigioniero prese la mela e la addentò. Mangiò, masticando piano tutti i frutti che gli avevano portato, lo sguardo sempre fisso su di lei.

Perché doveva guardarla in quel modo? Era curiosità quella nei suoi occhi? Cos’era quella luce? Era divertito? E perché?

Il prigioniero terminò il pasto, si pulì la bocca con il dorso della mano e spinse il vassoio verso la porta della cella. Pronunciò una parola. Un brivido caldo le percorse la schiena. Il tono del prigioniero non era quello che aveva usato al cospetto di re Thranduil: secco, brusco e roco. Quel tono invece era più morbido, vellutato, una carezza per le sue orecchie e una promessa di qualcosa di proibito. O forse era solo un'illusione data dal fatto che lei non aveva riconosciuto la parola che aveva pronunciato.

Nel vederla ancora immobile, il pringioniero strinse la testa nelle spalle e si sdraiò sul pavimento. Intrecciò le mani sul petto e chiuse gli occhi, il suo respiro più lento e calmo.

Tauriel tirò un sospiro di sollievo.

Chi era?

Tauriel prese il vassioio dallo sportello nella cella. Le orecchie del prigioniero tremarono, ma lui rimase immobile e non diede l'impressione di essersi accorto di lei.

Lei arricciò il naso. Di sicuro lui aveva bisogno di un bagno. Chissà se quei capelli, lunghi, sporchi, arruffati e rovinati erano neri, come sembravano?

E perché si stava chiedendo una cosa simile?

Tauriel salì le scale, Targion si mise sull’attenti.

«Tieni il prigioniero sotto osservazione. Se vuole parlare, chiamami»

«Sì, capitano»

Tauriel uscì dalle celle e lasciò il vassoio a uno dei servitori che incontrò nel corridoio. La lingua che usava il prigioniero somigliava al dialetto che parlavano i suoi genitori e voleva averne conferma, prima di portare un sapiente di fronte al prigioniero.

In fondo, era anche per la sicurezza del sapiente!

Tauriel strinse l'elsa del pugnale: se il prigioniero parlava il dialetto, non ci sarebbe stato bisogno di coinvolgere i sapienti. Si sarebbe assicurata che non fosse pericoloso e lo avrebbero potuto lasciare libero, prima di interrogarlo.

Soprattutto se era un Elfo, come loro.

Legolas la stava aspettando nel corridoio che portava agli alloggi di guardia.

«Cosa ti preoccupa, Tauriel?» le chiese.

Tauriel alzò lo sguardo. «Oh, nulla, stavo pensando al prigioniero».

«Cosa ti dà da pensare?» chiese lui, le sopracciglia aggrottate, e la seguì.

«Nestades è sicura che sia un Elfo».

«Con la pelle così scura?»

Tauriel girò la testa, sorpresa dal tono di Legolas. Non solo il tono della voce era stato scettico, anche la sua espressione, con un sopracciglio inarcato, lo era. Ma lui non aveva assistito all'esame della guaritrice.

«Il colore della sua pelle mi dà da pensare. Sono d'accordo con lei riguardo alla razza del prigioniero. È un Elfo, ma il colore della sua pelle è caratteristico di qualcosa… È come se mi dimenticassi di un dettaglio della nostra storia. Ma dev’essere qualcosa della storia di Eryn Galen, un particolare che ho studiato, non che ho vissuto».

Legolas si fece pensieroso. «Quanto tempo fa?»

«Non lo so. Pensavo di chiedere a uno dei sapienti, qualcuno che abbia memoria della Prima e della Seconda Era. La lingua che parla il prigioniero non ti suona familiare? Non hai già sentito delle parole simili a quelle che usa? Sire Thranduil ha provato a parlargli usando il nostro dialetto, durante il primo interrogatorio, e il prigioniero sembrava aver capito».

Le labbra tirate in una riga sottile, lo sguardo lontano, Legolas scosse la testa. Tauriel abbassò lo sguardo e i due raggiunsero l’armeria, in silenzio.

Legolas non avrebbe potuto aiutarla. Non conosceva il loro dialetto, a differenza di suo padre. Ed era nato anche lui nella Terza Era. Ma c’era qualcuno a cui avrebbe potuto chierede, prima di andare dai sapienti.

Il giorno dopo, per prima cosa sarebbe andata da Galion. Lui era molto più gentile verso di lei.

«Ci sono degli ordini per me?» chiese allora Tauriel.

«No, per oggi abbiamo finito» disse lui, mentre si sfilava la cotta di maglia.

Tauriel posò le sue armi e tolse l’armatura. Roteò le spalle per abituarsi all’assenza di peso e sorrise. «Allora andiamo a cena».

 

* * *

 

L’Elfa dai capelli rossi non si mosse, le sopracciglia aggrottate e la bocca una linea inespressiva. Quello che gli avevano portato poco prima era il terzo pasto; Norue-nolo non sapeva se erano passati giorni né ogni quanto tempo gli portavano i pasti. Ma ogni volta lei era rimasta lì e non se n’era mai andata prima che lui finisse di mangiare. E lui l'aveva ringraziata ogni volta, ma lei non sembrava aver capito le sue parole.

Norue-nolo incrociò le gambe, mentre poggiava la schiena contro la parete della cella, e le restituì lo sguardo. Anche questa volta l'aveva ringraziata, ma lei era rimasta lì e il vassoio vuoto col cibo era ancora a terra, nella sua cella. Lui si grattò la testa; era inutile pensarci troppo. Sperò che lei provasse a parlargli, anche nella strana lingua con cui si era espresso il re, così simile per suoni al Penni. Gli sarebbe piaciuto chiederle diverse cose: come mai lo tenevano in cella? Lo consideravano un nemico? Avrebbe potuto conoscerli? Imparare la loro lingua?

Le avrebbe anche voluto chiedere se poteva fare un bagno, ma non era importante come le altre cose. Anche se, in quel momento, sarebbe stata una benedizione. I cammelli profumavano, in confronto a lui.

L’Elfa gli rivolse un sorriso ampio e inclinò la testa. Norue-nolo sbatté le palpebre e schiuse le labbra. Ma lo sguardo di lei era incerto. Gli avrebbe parlato?

L'Elfa spostò il peso da una gamba all’altra. I suoi capelli ondeggiarono nel movimento, giù, fino alle cosce. Erano così rossi e lunghi e sembravano così morbidi… Sarebbero stati seta tra le sue dita?

Norue-nolo abbassò lo sguardo e si portò i capelli dietro le spalle, disgustato dal suo stato. Poggiò la testa contro la parete e sollevò l’angolo della bocca in risposta.

Per quanto tempo sarebbe andata avanti così, a fissarlo in silenzio? Per quanto lo avrebbero tenuto lì in quella cella, sporco e vestito di stracci puzzolenti? Certo, lo avevano curato e lo stavano nutrendo. Sospirò. Almeno non era uno schiavo e non lo stavano torturando.

Per ora.

Non poteva sapere che intenzioni avessero, anche se erano Elfi. Perché non l’avevano interrogato di nuovo? L’attesa era snervante e lo insospettiva sempre di più.

Norue-nolo drizzò le orecchie e i suoi muscoli si tesero di riflesso nel sentire il leggero rumore di passi per le scale. Un Elfo, i capelli biondi e le braghe e la casacca da guardia, si fermò accanto a lei. I due si misero a discutere, forse di Norue-nolo, a giudicare dagli sguardi che gli rivolgevano.

Norue-nolo mantenne gli occhi fissi sull’Elfo biondo, senza battere ciglio né muoversi, mantenendo un’espressione neutra. L’Elfo gli restituì uno sguardo ostile, la sua espressione sempre più disgustata mano a mano che notava i capelli sporchi, gli stracci, i piedi nudi.

E non si sforzava nemmeno di nascondere il disgusto!

Norue-nolo strinse gli occhi.

L’Elfo biondo gli diede le spalle e annuì una volta all’Elfa. Lei gli rispose, lo sguardo determinato. Lui scosse la testa e le strinse una spalla, poi si allontanò, i suoi passi leggeri sulle scale.

L’Elfa dai capelli rossi si voltò di nuovo verso Norue-nolo, i suoi occhi più vivaci. Qualsiasi dubbio avesse avuto, qualsiasi cosa l'avesse trattenuta fino a quel momento, era sparita. Sorrideva, le sue spalle erano rilassate, e lei alzò una mano di fronte a sé. Si sfiorò le labbra, socchiuse come se volesse dire qualcosa, con tre dita della mano sinistra. Lentamente, fece scendere la mano e la poggiò sul cuore.

Norue-nolo batté le palpebre e sollevò le orecchie.

«La luce delle stelle illumina le mie parole e il mio cuore» sussurrò lui, toccandosi le labbra a sua volta con tre dita per poi poggiare la mano sul cuore, nel saluto tradizionale. Come lo conosceva lei?

«Sono Tauriel» disse lei, scandendo bene le sillabe.

Lui deglutì, le orecchie tese. La lingua che parlava lei era diversa da quella che aveva usato il re. I suoni somigliavano ancora di più al Penni ma gli accenti erano tutti sbagliati.

Tauriel e basta? Forse era meglio non confondersi le idee da solo.

«Norue-nolo» rispose lui, e indicò se stesso. Era meglio se non usava troppe parole.

«Norue-nolo» ripeté l’Elfa. La sua voce indugiò sulle sillabe e un brivido percorse la spina dorsale di Norue-nolo. La voce di Tauriel era dolce e lui si sorprese a desiderare che lo chiamasse ancora.

«Chiuse Keinni-lay?» gli chiese.

Lui aggrottò le sopracciglia. Cos’era quella parola prima del nome, storpiato, della sua tribù? Indicò se stesso.

«Kinn-lai».

Tauriel lo guardò, le sopracciglia inarcate, e si avvicinò alla porta della sua cella.

«Kinn-lai è uno spiffero degli Orchi?» gli chiese.

Norue-nolo si massaggiò il dorso del naso. Quello era un interrogatorio o un indovinello? Cos'avevano in comune gli Orchi, gli spifferi e il nome della sua tribù?

Norue-nolo la guardò negli occhi e disse piano: «Io appartengo alla tribù dei Kinn-lai», lo sguardo di Tauriel era confuso e Norue-nolo strinse un pugno «Vengo dalla valle delle Acque del Risveglio».

All’ultima parola lo sguardo dell’Elfa si illuminò.

«Acché del risceglio» ripeté, pronunciando le sillabe in modo diverso.

Norue-nolo sollevò gli occhi al cielo. Andavano bene, se quello che capiva erano due parole su dieci. Allungò le gambe. Almeno stavano tentando di comunicare, no? Dopo quei giorni poteva sperare che non lo ritenessero un nemico?

Tauriel abbassò lo sguardo e incrociò le braccia. Si toccò il mento, picchiettandolo con il dito, poi alzò lo sguardo.

«Abar

«Abar?» Norue-nolo inclinò la testa. Che era quella parola?

«Sono Norue-nolo. Sono un Elfo» provò allora.

Tauriel sbatté le palpebre. «Elfo!» esclamò. Distese le braccia lungo i fianchi e sorrise. «Sei un Elfo e sei delle acché del risceglio».

Quello era un bel sorriso, caldo e amichevole. Ma Norue-nolo era in una cella e non poteva dimenticarselo per un sorriso. Annuì e sollevò l’angolo della bocca in risposta.

Tauriel indicò se stessa. «Io sono un Elfo, della gaentae delle pintae».

Norue-nolo sbatté le palpebre. Pinte? Gente delle pinte? Ma non aveva visto barili di birra in quel palazzo. E non aveva senso. Che fosse… Norue-nolo soppresse una risata e si limitò a sorriderle.

«Gente delle pinte?» inclinò la testa «Gente dei boschi, o forse delle piante»

«Piante?» ripeté lei, come un'eco. Lo guardò dubbiosa, le sopracciglia aggrottate. «Pinte non è piante? E chiuse boschi?»

Norue-nolo si strofinò di nuovo il dorso del naso. Forse aveva anche capito che cosa intendesse con "chiuse". Si accovacciò e lei staccò le mani dalla cella, con un passo indietro, rapida. Ma il suo profumo era ancora lì e ora che Norue-nolo era più vicino poteva sentirlo: l'odore fresco della foresta e un altro, dolce. Norue-nolo chiuse gli occhi. Quel profumo dolce era familiare e rassicurante, dei boschi verdi e rigogliosi di casa e delle notti calde passate a guardare le stelle, al sicuro. Norue-nolo si riscosse prima che i pensieri lo trascinassero via dal presente e tracciò sulla pietra dei segni. Lei si avvicinò. Seguì il suo dito che disegnava un albero immaginario con l'espressione così concentrata da essere buffa.

«Una pianta è un albero o un cespuglio». Norue-nolo spostò il dito e disegnò un bicchiere. «Una pinta è una quantità di liquido»

Tauriel si strinse nelle spalle, l'espressione preoccupata.

Norue-nolo allargò le braccia. «I boschi contengono le piante».

Tauriel alzò la testa e lo guardò negli occhi. «Contengono?»

Magari era stato troppo pessimista. Se parlava piano sembrava che lei distinguesse le parole.

«Contengono è tengono dentro, includono, raggruppano, sono un insieme…» Norue-nolo alzò le spalle.

Tauriel annuì, poi prese un respiro profondo e lo guardò negli occhi.

«Gente dei boschi è tawarwaith».

«Tawarwaith» ripeté Norue-nolo. I suoni erano strani. Ripeté la parola, aveva un sapore diverso. Che lingua particolare.

Tauriel sorrise ancora. «Darò al regolo» disse e si allontanò. Norue-nolo aggrottò le sopracciglia. Era corsa via? E che cosa doveva dare? A chi?

Norue-nolo rilassò le spalle: poteva interpretarlo come un gesto amichevole?

Poggiò la testa contro il muro e chiuse gli occhi.

«Tawarwaith.Tauriel» sussurrò.

 


 

Angolo dell’autrice

Il regolo in questione.

Beh, che dire. Si parlano \o/

Come si suol dire, la comunicazione è alla base di un rapporto sano e duraturo ù_ù

trolololololololol

In ogni caso il povero Norue-nolo è stato denudato e Tauriel prende fischi per… spifferi? È stato divertente e difficile da rendere, questo suoni-simili-ma-capisco-altro (coffcoff-carriage-per-courage-coffcoff).

Un grazie a chi legge, a chi recensisce e a Kan, senza la quale questa storia avrebbe molte più incongruenze, avverbi e gerundi.

Alla prossima!

kiaealterego

  
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