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Autore: alaskha    17/11/2015    4 recensioni
“No, aspetta – fui lui a fermarmi, quella volta – non ti va un caffè?”
“Io non bevo caffè”
“Sei davvero newyorkese o bluffi? Non mi piace la gente che bluffa”
Avevamo usato lo stesso verbo, quindi probabilmente Luke Hemmings non era un bugiardo bluffatore.
“Sono newyorkese e non bluffo, semplicemente non mi piace il caffè ed io e te non ci dobbiamo piacere, non dobbiamo neanche mai più rivederci, quindi non importa”
“Giusto”
Rimanemmo a guardarci per qualche istante.
Istanti nei quali lui non si tolse mai dalle labbra quel sorrisino sfacciato.
“Quindi?” mi riscosse lui, dal mio stato pietoso di trance.
“Quindi addio, Luke Hemmings”
“Mi dici addio perché New York è grande ed è facile sbagliarsi?”
Annuii.
“Esatto”
“Speriamo non sia così grande come dicono, allora”.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Hemmings, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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chapter two

big city

 
Steve Stratford era un avido lavoratore di Wall Street, più precisamente, faceva parte di quella categoria che in borsa chiamavano “speculatori”. Lui era un rialzista, in gergo economico, era un toro, comprava titoli quando le loro quotazioni in borsa erano basse, per poi rivenderle a prezzo più alto e lucrare sulla differenza. Gli piaceva fregare le persone che ne sapevano meno di lui, in due parole. E dato che Steve Stratford era mio padre, lo faceva anche con me, senza curarsi troppo del parere della sua unica figlia femmina.
Aveva provato a costringere mio fratello John ad iscriversi alla facoltà di economia della New York University, ma lui, in tutta risposta, dopo numerose litigate, scenate e promesse mai mantenute, aveva preso la sua roba, baciato me e Jai sulla fronte e se n’era andato a vivere da Sabine, la sua ragazza. 
E se non fosse stato proprio per Jai, me ne sarei andata con lui, cosciente del destino che mi aspettava. Ma non potevo lasciare il mio fratellino di otto anni lì da solo, in quella casa fredda e grigia, priva di amore e vita.
Toccava a me subire l’ira di mio padre, quello che non era riuscito a portare a termine con Johnatan, lo stava continuando con me. Aveva già pronta la mia lettera di raccomandazione per la New York University, ignorando il mio sogno di diventare scrittrice. Perché Steve Stratford conveniva che gli artisti fossero solo dei buoni a nulla e bla, bla, bla.. quanto fiato sprecava a sputare sui miei sogni.
Louis e Zayn mi dicevano di non arrendermi, ed io mi aggrappavo alle loro parole che mi dipingevano come una donna forte, perché dovevo esserlo anche per Jai, non potevo permettermi di farmi vedere triste ed abbattuta da lui. Lui che ancora idealizzava Steve, convinto che il suo papà fosse il migliore di tutti. 
“Jenelle! Sei tornata!”
Il mio fratellino mi corse incontro, arrampicandosi sulle mie spalle.
“Ciao scimmietta, com’è andata a scuola?”
“Benissimo, papà è venuto a prendermi!” cinguettò, felice.
“Che cosa..” dissi, confusa.
“Ciao, tesoro”
Mi voltai, mentre lasciavo delicatamente scendere Jai dalle mie spalle.
“Come mai sei a casa?”
“Non sei contenta?”
“Non lo so, semplicemente non ci sono abituata” ammisi, con un’alzata di spalle.
“Dov’è tuo fratello?” mi chiese, con amarezza.
Ma certo, gl’importava solo di lui, del suo perduto astro nascente di Wall Street.
“John è tornato a Brooklyn, al suo lavoro, alla sua ragazza, alla sua vita”
Lontano da noi.
“Aveva detto che ti avrebbe accompagnato” replicò Steve.
“E l’ha fatto, la cerimonia è stata uno spettacolo – dissi, con un sorriso amaro sulle labbra –io, Zayn e Louis eravamo su di giri, sai? Avresti dovuto vederci, ah no, aspetta, tu non c’eri.. strano, eh?”
“Jen, ti prego, non adesso – si mosse verso il suo ufficio – stasera io e Dan abbiamo ospiti a cena, ti prego di comportarti bene ed indossare un bel vestito”
Si chiuse lì dentro come faceva sempre, ed intorno a me percepii la voce candida di Jai e quella allegra di Maribel, l’odore di giornale, caffè solubile, e tanta, tanta solitudine.
Scossi la testa, per poi ricevere un messaggio.
Portai l’iPhone alla portata dello sguardo.
“Ho un regalo per te, amore”.
Il messaggio era di Daniel, il mio fidanzato, e non dico fidanzato tanto per dire, eravamo “promessi sposi”, come si suol dire. Lo avevo conosciuto per caso, a Times Square, eravamo entrambi in cerca di un Taxi, nell’affollata metropoli americana, nell’ora di punta. Quando lui, da bravo gentleman, , mi aveva ceduto il suo posto, ero letteralmente caduta ai suoi piedi come una povera stupida quattordicenne alle prese con la sua prima cotta.
Daniel Crawford mi piaceva, era un gran bel ragazzo: faccia pulita, sorriso smagliante e sguardo di uno che la sa lunga. Certo, mi piaceva prima che diventasse un altro schiavo della borsa e, ancora peggio, il protetto di mio padre. Aveva venduto la sua anima al diavolo e Steve era stato più che felice di accoglierlo sotto la sua ala protettrice: papà amava Dan, forse anche più di me. Era il suo più grande orgoglio, “La promessa di Wall Street”, lo stagista più talentuoso che la sede della borsa americana avesse mai visto.
Fosse stato per mio padre, avrebbe anche potuto scrivere un sonetto di elogi, al mio ragazzo.
Un altro messaggio.
“Amore, il tuo regalo è fuori dalla porta”.
Riposi l’iPhone nella tasca dei jeans, dirigendomi verso la porta d’ingresso del nostro attico in zona Wall Street, ovviamente.
Mi trovai davanti Dan, con un mazzo di fiori in mano a coprirgli la faccia ed un sacchetto che teneva nella mano destra, con difficoltà.
“Ciao, amore, mi fai entrare?”
Mi spostai, per permettergli di mettere piede in casa mia, dopodiché chiusi la porta dietro di lui.
“Jen, chi è?” mi domandò Maribel, dalla cucina, intenta ad aiutare Jai con i compiti.
“È Daniel - la avvisai, dopodiché tornai da lui – che hai in quel sacchetto?”
“È il tuo regalo, Jen, aprilo”
Mi consegnò quel pacco tra le mani, con un sorriso sulla faccia e lo sguardo sognante.
“Devi avermi regalato il cuore dell’oceano, per essere così felice e pieno di aspettative”
“Tu aprilo”
E così feci: all’interno del sacchetto immacolato trovai una scatola nera.
“Chanel..” sussurrai, a mezza bocca.
Ancora, pensai poi dentro di me.
Aprii quella scatola, accarezzando poi il tessuto del contenuto con le dita.
“È di seta, quella pregiata, arriva direttamente dall’Asia” m’informò, compiaciuto.
“E lo sai perché sei andato personalmente ad assicurartene, Dan?”
Il vestito era indubbiamente bello: blu a pois bianchi, da brava signorina diligente, esattamente quello che volevano loro da me.
“Che hai, Jen? Non ti piace?” mi chiese lui, trafficando con il suo iPhone (regalo di papà).
“No, solo.. – lo feci aderire al mio corpo – è proprio lo stile di mio padre, se non la trovassi una cosa troppo stomachevole ed estremamente sbagliata, mi verrebbe quasi da pensare che siate andati insieme, da Chanel”
“Oh, no – mi rassicurò lui – nessuno di noi è andato da Chanel, ci ha pensato Maribel”
“Oh” fu il mio arguto commento.
“Allora, che ne pensi?”
“Penso che un mazzo di fiori ed un bel vestito neanche comprato da te, non ripaghino il fatto che tu oggi non c’eri”
“Oggi?” domandò, spaesato.
“Dan! – sbottai – mi sono diplomata, oggi! Hai presente? Toga, cappello imbarazzante ed un foglio di carta che certifica la mia liberta, dannazione, ma chi sei tu e che ne hai fatto del mio ragazzo?”
“Amore, adesso calmati – disse lui, sempre con il suo maledetto iPhone in mano – fatti bella ed indossa questo vestito, credo sia perfetto per stasera”
“Vuoi spiegarmi chi diavolo abbiamo a cena, stasera?”
“Amici”
“Di Wall Street?”
“Solo gente che conta, amore mio”
“Ma certo” valutai, ironica.
Dovevo uscire di lì, se alla cena di quella sera non volevo rovesciare lo champagne sui pantaloni eleganti di ogni invitato e bruciare tutti gli Chanel che avevo relegato nel mio armadio.
“Dove vai?” mi chiese, guardandomi raccattare il mio cappello buttato sul divano e la mia borsa.
“A farmi un giro”
“Gli ospiti arriveranno alle nove in punto”
Roteai gli occhi al cielo, fingendo poi un sorriso.
“Ci sarò, d’accordo”
Lui annuì.
“Ti amo”.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fingere.
Ruotava tutto intorno a quell’azione, la mia vita.
Scossi la testa per scacciare quei pensieri, d'altronde quello era il giorno del mio diploma, avevo come tutti il diritto di spassarmela un po’. Così decisi di chiamare la coppia di festaioli più spassionati che gli interi Stati Uniti avessero da offrire.
“Ehi, Zayn – dissi – dove siete tu e Lou?”
Sentii Zayn aspirare, a cui seguì una leggera tosse.
“Ciao bimba – mi rispose – siamo da Joy”
“Fantastico, ed io che avevo bisogno di staccare dalla mia vita fatta di gente che si eccita quando le quotazioni in borsa salgono del 10 %”
“Buona questa – rise Zayn – finiamo qui e ti raggiungiamo, ti sento un po’ giù, e sai che non posso permettere che la mia bimba sia triste nel suo grande giorno”
“Prima delle nove, Zayn” gli raccomandai.
“Ci saremo, tu vedi di non suicidarti sotto un taxi, nel frattempo”
“E voi vedete di non morire, che se no siamo tutti fottuti, qui”
Chiusi la telefonata, buttando l’iPhone in borsa e passando da quello che era il mio negozio preferito. Non aveva un nome, ma io lo chiamavo paradiso: musica, dischi, libri ed anche un grande spazio ristoro, con il bar e tutto il resto, dove mi piaceva osservare la gente.
Mi diressi immediatamente al reparto letteratura inglese, cercando il mio classico preferito: Romeo e Giulietta. Shakespeare per me rimaneva il migliore in assoluto. Afferrai il piccolo libro e feci per dirigermi verso il mio solito tavolo, dove ormai, il barista, Chace, mi conosceva.
Ma alle mie orecchie arrivò una melodia, qualcuno stava suonando una chitarra, non conoscevo quegli accordi, non era una canzone che avevo già sentito da qualche parte.
Mi voltai, e con grande sorpresa, trovai quel paio di occhi azzurri di qualche ora fa, alla cerimonia del diploma. Il fratellastro di Jj, la pecora nera della famiglia Hamblett, sedeva su di uno sgabello alto, con una chitarra poggiata sulle ginocchia, fasciate da skinny jeans neri.
Rimasi a guardare le sue dita muoversi dolcemente sulle corde, e quando alzò la testa, desiderai morire.
Che cretina, me lo avevano insegnato a quattro anni che la gente non si fissa.
“Io ti ho già vista” sostenne.
Aveva una voce insolita, non saprei come catalogarla: né troppo roca e profonda, né troppo allegra o alta. Una voce giusta.
Ma che diavolo è una voce giusta?
“Probabilmente no, New York è grande, è facile sbagliarsi”
Cercai di tagliare corto, ma lui posò la chitarra a terra e mi seguì, verso il bar.
“No, sono sicuro di averti già vista” continuò.
Mi voltai verso di lui, che se ne stava lì di fronte a me, con una canottiera bianca e dei polsini discutibili alle braccia.
“Da che razza di band rock sei uscito, tu?” gli chiesi, senza pensare.
“Tu sei Jenelle Stratford! Ma certo! Come ho fatto a dimenticarmi di te?”
Come sapeva il mio nome?
“Chi ti ha detto il mio nome?”
“Mio fratello è cotto di te”
Cosa?
“Cosa? - diedi voce ai miei pensieri, stridula – cioè, volevo dire.. cosa?”
Non potei fare a meno di ripetermi, quella notizia mi aveva colta troppo di sorpresa. Probabilmente bluffava, ce l’aveva la faccia di un bugiardo, quello lì.
Lo vidi avvicinarsi a me e sentii le sue labbra posarsi sul mio orecchio.
Un contatto davvero molto azzardato, per i brividi sulla mia pelle.
“Amplia il vocabolario, piccola Stratford”
Vidi la sua schiena allontanarsi.
Mi lasciava così? Sedotta ed abbandonata?
“Aspetta..”
Lui si voltò nuovamente, con un mezzo sorriso ad increspargli le labbra.
“Ti piace leggere?” buttai lì.
Lui scosse la testa, contrariato.
“E allora perché sei qui?”
“Musica” rispose, semplicemente.
“Beh certo, suoni la chitarra”
“Sai già tante cose su di me, tu?”
“Prima stavi suonando la chitarra, io non so niente di te, neanche il tuo nome”
Bugia.
“Scommetto che te lo ricordi”
“Forse inizia per M o per L..”
Bluffai anche io, perché ero convinta che lo stesse facendo lui per primo.
“Sono Luke – si presentò - e no, se te lo stai chiedendo, non faccio Hamblett di cognome”
“E come allora?”
“Sono Luke Hemmings – ripetè – ma non mi va di parlare dell’albero genealogico della mia grande e bella famigliola felice” era ironico, e per me era davvero troppo.
“Io sono Jenelle – era stupido presentarsi, ma che avrei dovuto fare? – ma adesso devo andare, sono tremendamente in ritardo”
Ma in ritardo per cosa?
Cercai comunque di divincolarmi da lui, non so quale strano potere stesse esercitando su di me.
“No, aspetta – fui lui a fermarmi, quella volta – non ti va un caffè?”
 “Io non bevo caffè”
“Sei davvero newyorkese o bluffi? Non mi piace la gente che bluffa”
Avevamo usato lo stesso verbo, quindi probabilmente Luke Hemmings non era un bugiardo bluffatore.
“Sono newyorkese e non bluffo, semplicemente non mi piace il caffè ed io e te non ci dobbiamo piacere, non dobbiamo neanche mai più rivederci, quindi non importa”
“Giusto”
Rimanemmo a guardarci per qualche istante.
Istanti nei quali lui non si tolse mai dalle labbra quel sorrisino sfacciato.
“Quindi?” mi riscosse lui, dal mio stato pietoso di trance.
“Quindi addio, Luke Hemmings”
“Mi dici addio perché New York è grande ed è facile sbagliarsi?”
Annuii.
“Esatto”
“Speriamo non sia così grande come dicono, allora”.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Zayn posso sapere dove diavolo siete? Avevo detto prima delle nove e sono le otto e quarantasei minuti! Mi dici che faccio io in quattordici minuti? Vi odio!”
Sbottai, al telefono, carica di adrenalina. Non sapevo esattamente cosa fosse, ma ero sicura non si trattasse dell’imminente cena con gli agenti di borsa di mio padre e del mio fidanzato.
Il fatto era che non riuscivo a non pensare a qualcosa che non fosse il mio incontro con il fratello di Hamblett. Aveva quei due occhi così azzurri e quel sorriso così tanto irritante quanto accattivante. Era impossibile dimenticarsi del sex appeal di quel tipo, era così affascinante che probabilmente l’immagine di lui che gioca con il suo piercing mentre pronuncia il suo nome per presentarsi a me, me la porterò nella tomba.
“Jen, tu hai bisogno di calmarti” disse Zayn, in tutta tranquillità.
“Certo! È per questo che mi servite voi!”
“Vuoi convertirti alla cannabis? Lo sai che c’è sempre spazio per te, bimba”
“Non sono così disperata, Zayn”
“Se lo dici tu”
Sbuffai.
“Dove siete?”
“Girati”
Detto fatto, li trovai dietro di me, entrambi con una sigaretta stretta tra le labbra e le mani in tasca. Zayn portava uno snapback rosso, al contrario, e Louis una canottiera nera. Erano belli, come il diavolo li aveva fatti.
“Siete sulla mia lista nera” li informai, camminando verso di loro.
“Scusa piccola – mi disse Lou, baciandomi la guancia – adesso però siamo qui, vuoi dirci che succede? Hai picchiato qualcuno? Dan per caso? Ti avevo detto che avrei voluto farlo io, per primo”
“No Lou, non ho picchiato nessuno e smettila di fare pensieri violenti sul mio ragazzo”
“Scusa” fece poi lui, alzando le mani in segno di resa.
“Allora, vuoi parlarne insieme a noi?” intervenne Zayn.
“Adesso non ho tempo, mio padre si arrabbierà così tanto che Londra finirò davvero per vederla solo sulla cartina geografica, se non arrivo in tempo a quella dannatissima cena”
“Per farlo incazzare davvero, dovresti portarci a questa dannatissima cena” mi citò testualmente, spegnendo la sigaretta sotto la sua Nike.
Pensai a quello che aveva detto e valutai seriamente l’idea di portarli a casa con me, e Lou se ne accorse.
“Non pensarci neanche, Jen”.
 
 
 
 


 
sounds good feels good 
ciao ragazze!
sono tornata con il secondo capitolo.
allora, intanto ringrazio tutte le ragazze a cui è piaciuto anche solo il primo capitolo e che mi hanno fatto i complimenti, grazie un sacco di tutto.
vi dirò che sono molto insicura su questa storia, perchè è la prima volta che scrivo qualcosa su Luke e boh, non so.. ho bisogno di voi, che mi diciate se sto facendo bene o se sta venendo una merda.
comunque sia, vi ho presentato meglio la situazione: il padre ed il fidanzato di Jenelle, il fratellino Jai ed il rapporto della protagonista con questi personaggi super importanti, soprattutto Steve e Jai.
dopodichè compare ancora Luke, che sì, c'è ancora molto poco ma già dal prossimo capitolo sarà più presente e si capirà sempre di più il suo personaggio.
per il resto nulla, fatemi sapere cosa ne pensate di questo continuo.
vi amo, grandi baci, Simona.
 



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