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Autore: Midori No Esupuri    17/11/2015    2 recensioni
[WARNING: HOLMES BROTHERS]
Sherlock si trova in Russia da mesi per continuare la sua lotta contro Moriarty e la sua immensa rete criminale. Sente la mancanza di Londra, delle persone che ha imparato a leggere, ad apprezzare fino ad amarle, ma per fortuna qualcuno arriva a riportare in lui una speranza che pareva essere perduta per sempre: suo fratello.
Dal testo:
-Quindi hai deciso di portare qui qualcosa che mi ricordasse casa?
-Esattamente.
-E cosa sarebbe? Ho già un posacenere della famiglia reale, nel caso tu lo abbia dimenticato.
Si guardarono in silenzio, il vento che fischiava imperterrito alle loro spalle. Mycroft non disse nulla, ma entrambi gli uomini sapevano che le parole erano superflue. Si erano già compresi, nel momento in cui si erano ritrovati nella stessa stanza, inconsapevolmente bisognosi l’uno della vista dell’altro.
-Stai diventando troppo sentimentale, Mycroft.- annunciò improvvisamente Sherlock, distogliendo lo sguardo con fare capriccioso.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Casa
 
Freddo.
Gli pungeva la pelle, facendo bruciare gli occhi, ma doveva andare avanti. La neve copriva per diversi centimetri l’acciottolato scuro sul quale i pesanti scarponi scricchiolavano appena, il lungo cappotto nero stretto attorno al corpo tentava di scacciare il gelido vento che attentava alla sua resistenza… Ma l’uomo non si fermava. Sapeva di non potersi fermare, di dover resistere, che il suo scopo era più importante della sua stessa vita, in quanto avrebbe potuto salvarne molte, davvero molte altre. Continuava a camminare nella notte gelida, controvento, convincendosi che casa era vicina nonostante respirasse quasi dolorosamente, nonostante mancassero ancora molti minuti di cammino, nonostante quella che stava raggiungendo non fosse esattamente “casa”.
Casa sua era lontana centinaia di chilometri.
Ah, la sua Londra. I suoi vicoli stretti, la sua gente noiosamente normale, i casi irrisolti di Scotland Yard. Il suo piccolo e disordinato appartamento a Baker Street, il suo violino, la sua poltrona nera. E la signora Hudson, con il suo tea mattutino e i suoi rimproveri. Il suo tempo grigio, lo scrosciare della pioggia, le notti fredde e le feste di Natale con troppe persone per i suoi gusti. Suo fratello, sempre indesiderato e troppo elegante, Lestrade e i suoi capelli grigio fumo sempre in disordine, così come i casi che gli proponeva quasi quotidianamente, o il suo matrimonio sempre sull’orlo del crollo.

E naturalmente John.

Oh, quanto gli mancava John. I suoi maglioni, il cuscino con la bandiera inglese sulla sua poltrona rossa, il profumo del tea alla vaniglia che invadeva la cucina così spesso da esserne quasi l’unico odore. I suoi incubi da scacciare con una melodia di violino, il suo ordine meticoloso nell’armadio, i suoi occhi blu scuri tempestati di emozioni incomprensibili e frustranti per una mente come quella di Sherlock Holmes, il genio di Londra. Stava facendo tutto quanto per lui, dopotutto. Doveva essere forte, doveva uccidere e combattere, doveva ferirsi e guarire in fretta per lui. La sua vita era in pericolo, e Sherlock sapeva di essere l’unica persona in grado di salvarlo, così come era stato l’unico in grado di condannarlo. Se non gli avesse permesso di insegnargli cos’erano l’amore, la fiducia, il bisogno di qualcuno, forse John Watson avrebbe potuto essere un uomo come tanti altri, un medico di quartiere troppo qualificato per qualsiasi ospedale. Non sarebbe stato il suo punto debole, la breccia per la sua distruzione, ma un altro essere umano da cui tenersi a debita distanza.
Sherlock sospirò, continuando a camminare nella neve, finchè gli occhi irritati dal vento si allargarono appena alla vista della sagoma di una casa abbandonata. Affrettò il passo, bisognoso di riparo da quel freddo insostenibile, e trasse un respiro di sollievo nel chiudersi la porta alle spalle, adagiandosi contro di essa. Il corpo formicolava, stretto tra le braccia indolenzite dallo sforzo di restare rigide contro il freddo, la Russia era decisamente una terra ostile e lui era uno spericolato a pensare che un maglione in più sotto il cappotto avrebbe potuto essere sufficiente. Dall’altro lato, però, non poteva nemmeno indossare troppi abiti, la sua agilità ne avrebbe risentito e sarebbe stato uno svantaggio enorme, che i suoi nemici avrebbero subito notato e sfruttato appieno. Invece era stato capace di fuggire da chissà quale tortura, uccidere buona parte degli uomini presenti nella lista stilata da lui stesso durante quei mesi e ritrovarsi persino vivo a fine giornata, anche se infreddolito e denutrito. Avrebbe dovuto farsi anche un bagno caldo, tagliarsi la barba magari, ma era un lusso che quasi non conosceva più.
“Solo due giorni.” si disse, soffiando sulle mani affusolate per riscaldarle almeno un po’. Intanto il cuore regolarizzava i battiti, i polmoni si scioglievano, le gambe andavano a fuoco per lo sforzo di camminare rapidamente e salvarsi dal freddo, ma col passare dei minuti tutto il suo corpo pareva tornare alla normalità.
“Due giorni e poi lascerò questo paese infernale.”
Un rumore leggero, come un fruscio, attirò la sua attenzione. Un tintinnio, vetro contro vetro, gli occhi cerulei guizzarono nella penombra della casa.
-Avresti potuto rubarne una qualità più costosa, fratellino.- commentò una voce, tanto saccente da lasciar immaginare perfettamente un sorriso sornione. Un sorriso che poteva appartenere solo ad una persona in tutto il pianeta, un sorriso che increspava le labbra dello stesso Sherlock decine di volte al giorno.
-Spero tu non l’abbia finita tutta, Mycroft.- biascicò alzandosi dal pavimento, per poi tastare il muro alla ricerca dell’interruttore della luce. Seduto al tavolo scheggiato, completamente fuori posto in un ambiente tanto fatiscente, uno degli uomini più potenti di tutta la nazione inglese era intento a versare in un bicchiere qualche centimetro di vodka dalla bottiglia. Due elementi che risaltavano notevolmente all’occhio, pensò Sherlock. Mycroft fece scorrere il bicchiere sul tavolo, mentre l’altro prendeva posto davanti a lui.
-Mi sono premurato di lasciartene in quantità sufficiente perché tu potessi riscaldarti.
-Insolito, da parte tua.
Nonostante il sapore amaro del liquore, Sherlock svuotò il bicchiere in un paio di sorsi, lasciando che la gola, l’esofago e lo stomaco andassero a fuoco e i sensi si irretissero appena, per poi dar sfogo ad un colpo di tosse impossibile da trattenere. Adesso stava molto meglio, poteva dire di essere addirittura più lucido di prima.
-Ho supposto ti mancasse casa, dopo quattro mesi trascorsi in questo gelido angolo del mondo.
-Quindi hai deciso di portare qui qualcosa che mi ricordasse casa?
-Esattamente.
-E cosa sarebbe? Ho già un posacenere della famiglia reale, nel caso tu lo abbia dimenticato.
Si guardarono in silenzio, il vento che fischiava imperterrito alle loro spalle. Mycroft non disse nulla, ma entrambi gli uomini sapevano che le parole erano superflue. Si erano già compresi, nel momento in cui si erano ritrovati nella stessa stanza, inconsapevolmente bisognosi l’uno della vista dell’altro.
-Stai diventando troppo sentimentale, Mycroft.- annunciò improvvisamente Sherlock, distogliendo lo sguardo con fare capriccioso.
-Non posso lasciar morire anche te, Sherlock.
-Hai ragione. Farebbe soffrire la mamma.
Sherlock curvò appena le labbra verso l’alto, Mycroft si limitò a fissarlo per un attimo e ad alzarsi dalla sedia sghemba, per poi allungare la mano nel vuoto. Il minore la osservò, guardingo, poi tese la propria e si lasciò andare contro il cappotto del fratello, in silenzio. Non avrebbe detto nulla, tra l’imbarazzo e la totale incapacità di affrontare momenti come quello, ma quando il fratello gli posò una mano sulla schiena si permise di allargare appena gli occhi chiari.
L’odore di lavanderia, di un profumo costoso, di biscotti alla cannella e tea alla vaniglia lo travolsero in pieno, come il ricordo dell’ultimo ed unico momento in cui lui e Mycroft si erano abbracciati appena, devastati dall’imbarazzo.

Il guaito di un cane alle sue spalle e poi silenzio, che premeva contro le orecchie, la camicia del fratello ormai adolescente umida di lacrime.

-Torniamo a casa, Sherlock.
-Sì.
Non c’era bisogno di prendere un aereo. Era sufficiente sentire quel contatto, impacciato ma dolce, per sentirsi veramente a casa.
  
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