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Autore: lillabulleryu    26/11/2015    0 recensioni
—Oyaji?
Il pescatore solleva il cappello che teneva calcato sulla fronte per proteggersi dal sole. Il motivo che stava canticchiando si interrompe, si volta a guardare nella direzione da cui ha sentito provenire la voce. I suoi movimenti sono pacati, placidi.
Lo guarda e si capisce solo da quello che lo aveva già riconosciuto. Ha uno sguardo vivace e luminoso, dolce come le piccole onde che accarezzano la spiaggia al mattino presto. Il suo viso si illumina di un sorriso che da solo è come una giornata di sole.

- Ehi, figliolo!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gou Matsuoka, Haruka Nanase, Rin Matsuoka, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Be good





L’abito sferico del pallone scintilla nella luce del mattino, rimbalza – su, giù, su, giù – con ritmo regolare e allegro. E’ di un giallo pieno e radioso che riempie il suo campo visivo e il resto del mondo si dissolve senza che se ne accorga.
Sa che è di sua sorella. È strano che non stia giocando con lei. Ma è concentrato solo sulla sua palla. Non pensa a nient’altro – su, giallo, giù.
Quando lei l’afferra all’improvviso e la blocca saldamente tra le mani, si sente sussultare come se qualcuno gli avesse sbattuto una porta davanti alla faccia.
Prima la palla riempiva il mondo con il suo giallo. Adesso Gou la tiene sotto braccio, trasformandola in una timida compagna di giochi che si vuole nascondere dietro la schiena di una bambina.
Guarda, oni-chan, dice Gou strattonandolo per il braccio e indicando avanti a sé, guarda che ponte!
Deve avere cinque o sei anni, lo capisce dalla mano che quasi si perde nella sua e dal cerotto a forma di tartaruga che mettevano in quel periodo quando si facevano male.
Che ti sei fatta?, gli viene da preoccuparsi, e per valutare meglio l’entità del danno si china a guardare il dorso della sua mano; lei sbuffa rumorosamente la sua insofferenza fuori dalle guance e lo tira indietro.
Lo metto solo per bellezza, perché è carino! Non vedi che ponte?, insiste di nuovo.
Scatta in avanti di corsa e sale per la scalinata di un ponte  completamente bianco, il cui arco è così ampio e alto che si erge fino al cielo. Lui le va dietro, non ci crede che non si è fatta niente, la richiama, Gou! Non devi allontanarti!
Lei non lo ascolta. Non capisce perché non obbedisca, e questo lo indispone. Per quanto gli sembri di sforzarsi e di correre veloce non la raggiunge e non riesce a riacciuffarla.
Salire per quelle scale è più difficile di quanto potesse sembrare. Forse è perché l’aria diventa più rarefatta?
(In effetti continuano, ininterrotte, e gli sembra di avvicinarsi alle nuvole sempre di più ad ogni passo.)
Gou!
L’eco del suo richiamo rimbalza diffusamente – Gou, gou, gou—e gli torna indietro come se lo deridesse.
Non ha senso che ci sia eco, pensa tra sé,  spiazzato del fatto che per tutta risposta l’eco si intensifichi – Go, gogo-good
Be good be good, prima ancora di rendersene conto gli balza in testa meccanicamente la traccia dei Men at Work, be good be good be good…
Qualcuno la sta cantando davvero, in effetti – in fondo al ponte, un pescatore – gli si ferma il fiato e il cuore e tutto insieme.—Oyaji?
Il pescatore solleva il cappello che teneva calcato sulla fronte per proteggersi dal sole. Il motivo che stava canticchiando si interrompe, si volta a guardare nella direzione da cui ha sentito provenire la voce. I suoi movimenti sono pacati, placidi.
Lo guarda e si capisce solo da quello che lo aveva già riconosciuto. Ha uno sguardo vivace e luminoso, dolce come le piccole onde che accarezzano la spiaggia al mattino presto. Il suo viso si illumina di un sorriso che da solo è come una giornata di sole.
Ehi, figliolo!, lo saluta con la sua immancabile affabilità (il suo cuore si stringe di un’emozione tremante e sofferta solo a vedere le sue labbra muoversi). Vuoi un cerotto?
La cosa più straniante di tutte, più ancora del fatto di vederlo vivo, è che abbia l’età di quando l’aveva visto l’ultima volta. A forza di riguardare la fotografia del suo torneo, che lo ritrae quando era poco più che un ragazzino, quella fisionomia aveva finito per diventargli più familiare, facendogli a poco a poco dimenticare che fosse stato anche un uomo adulto.
Ma cosa me ne faccio di un cerotto?, sbotta in risposta, un po’ spiazzato che, nonostante il tumulto interiore che lo scuote dentro, non trovi niente di meglio da replicargli.
Sono carini.
Gliel’ha detto ridendo. I suoi denti sono bianchissimi. Non riesce a ricordare se quelli lo sono sempre stati. Forse si confonde con quelli di quando era bambino.
Non mi serve. Cosa fai qua?!
E dire che ti sono sempre piaciuti, commenta un po’ sorpreso. Si vede che proprio non si aspettava che rifiutasse un cerotto con sopra la sagoma colorata di un animaletto. Pescavo.
Che risposta banale. Gli verrebbe da pensare che lo stia prendendo per uno stupido.
Perché la vera domanda che gli avrebbe posto se fosse più sfacciato (se avesse il coraggio di chiederlo sul serio) sarebbe “Dove sei stato tutto questo tempo?”
(È spaventoso che lui possa rispondere a questo).
Ma come pescavi?! Noi—
Massì, pescavo, si stringe nelle spalle, come se non ci fosse granché da dire, a quel proposito, Sono sempre stato qua.
Papà solleva una mano e gliela appoggia sulla testa per arruffargli i capelli e blandirlo da una reazione che non sembra capire. Dai dai, non arruffare il pelo… mamma mia, quanto sei alto!
Gli sale un groppo in gola che lo costringe ad abbassare la testa alla svelta, per evitare che papà lo noti.
Non ho il pelo, vorrebbe dire, come sarebbe che sei sempre stato qua, non ci hai detto niente e te ne sei rimasto su questo ponte tutto il tempo, che cavolo, per forza sono diventato alto, sai quanti anni sono passati…
Niente di tutto questo prende fiato. Si limita ad ascoltarlo quando riprende a cantare la canzone di prima, placido e tranquillo come se fosse una giornata come tante altre.
Non riesce a smettere di osservarlo. Il suo sguardo è affamato di ogni dettaglio. Cerca un confronto con ricordi che sembrano essersi dissolti nella confusione della propria mente, ma è come se lo vedesse proprio per la prima volta. La pelle abbronzata, il naso a punta leggermente all’insù, il profilo delle labbra, le spalle larghe, le dita delle mani annerite, i ciuffi di capelli rossicci che sbucano dal cappello verde…
Fruga ansiosamente nelle crisalidi della sua memoria più antica alla ricerca di una rispondenza, e, anche se gli sembra tutto lontano e sfumato, lo sa che lui era proprio così – quello è l’Oyaji che aveva visto l’ultima volta un giorno d’estate quando faceva ancora le elementari…
Cosa c’è?
Aveva preso tra le dita una umeboshi direttamente dal vasetto, era in piedi e aveva qualcosa in mano (forse una borsa, o una rete, non ci aveva fatto davvero caso, ma il suo braccio era flesso) poco prima di uscire per andare a pescare. L’aveva guardato dritto negli occhi mentre apriva la bocca e se la mangiava in un boccone. Ecco, guarda, diceva il suo sguardo un po’ dispettoso e un po’ complice, me la mangio così e non mi fa niente. Papà prendeva sempre in giro lui e Gou perché le umeboshi non le sopportavano da tanto erano asprigne, mentre lui ne era assurdamente goloso.
…ti ricordavo più giovane.
Papà sgrana gli occhi incredulo. (Un commento simile suona un po’ assurdo per qualcuno che dà per scontato di essere stato assente solo qualche ora) Poi scoppia a ridere.
Ma va’? Solo i sogni non invecchiano mai!
Mi dispiace.
, gli viene da dire, con la voce che fa fatica a venire fuori e un po’ gli si incrina. Mi dispiace che tu non abbia potuto restare per vedere il tuo sogno sempre giovane e il tuo corpo invecchiare. Davvero.
E per cosa?
Mi dispiace.
Ma di che?!
, Papà è sorpreso, ma gli scappa anche da ridere. Non sa nemmeno lui se essere felice di quella risata che ha voglia di essere liberata o se prendersela perché non c’è niente da ridere. Guarda che invecchiare non è poi così male. E poi io sono felice! Non sono mai stato infelice e non mi sono mai annoiato. Ho sempre cercato di fare quello che desideravo. È faticoso, però ne vale la pena.
 Papà lo guarda con dolcezza, e quello sguardo vale come una carezza. Ciò nonostante gli appoggia una mano sulla testa e lo sfiora con affetto. …e tu sei felice, Rin?
…sì.
Sussurra così piano che non è neanche sicuro di averlo detto sul serio, sì, è felice, adesso lo è davvero come non lo è mai stato – solo a pensarci il suo cuore batte più forte di trepidazione e di gratitudine…
Papà interrompe il flusso della sua emozione e gli appiccica un cerotto sul naso, scoppiando a ridere per l’espressione che deve avere assunto. Grande! Io lo sono anche di più, allora!
uoah--OYAJI!
Non smettere mai di voler essere felice. Non c’è niente di più importante di far capire questo ai propri figli. Dillo anche ai tuoi, eh!

Il ponte si capovolge perché era una gondola al contrario – il fondale è bassissimo e si vede tutta la sabbia innaturalmente bianca, come se fosse di gesso, trattiene il fiato…
Fai il bravo…


È la sensazione a farlo sollevare sui gomiti prima ancora di rendersi conto di essere sveglio.
Nella testa non c’è spazio se non per un’eco malinconico e pungente di una canzone lontana, un ricordo così antico da sembrare quello di un’altra vita.
Qualcosa di prezioso e di arcano che è andato perduto e che non può ritornare. Qualcosa che si insegue in continuazione per farlo rivivere, senza mai essere soddisfatti. E come si può? Mancherà sempre. La realtà è orfana della sua magia.
Nel momento stesso in cui si trova seduto sul futon due lacrime gli rigano le guance – sono così pesanti che sembrano lasciargli il solco nella faccia. Chissà da quanto ce le aveva lì. Ha l’impressione di averle represse un’eternità, e lo sforzo che ha impiegato per farlo è stato tale che adesso non basterebbe piangere tutto il tempo che gli resta da vivere per buttarle fuori tutte.
Si preme le mani sulla faccia e lascia che il pianto venga fuori a fiotti. È come se si fossero spaccati degli argini di un fiume, e ora non ha le energie fisiche di pensare a come richiuderli. Il cuore è appesantito da una dolcezza straziante che gli comprime il diaframma e ha l’impressione che quasi lo soffochi. L’amore e la mancanza si sono ingarbugliati in un unico nido e sono arrivati a non potersi distinguere l’uno dall’altra.
- … Rin…?
La voce di Haru dietro di lui è ancora impastata di sonno. Deve essersi svegliato nel momento in cui lui si è tirato su. Lo sente muoversi tra le coperte e alzarsi a sua volta – percepisce il suo sguardo addosso (ecco, ora deve essersi accorto che sta piangendo) e una nota vaga di smarrimento ed apprensione nella voce.
- … che cos’hai…?
Le dita di Haru gli sfiorano il braccio, dapprima indugiano perché non capiscono se il contatto può infastidirlo (Rin per primo non è in grado di capirlo, se gliel’avessero chiesto probabilmente non sarebbe stato in grado di rispondere, ma non reagisce); passa ancora qualche istante prima che entrambe le sue mani gli si appoggino sulle spalle in una carezza che vorrebbe essere rassicurante.
(Qualcosa lo smuove dall’interno e freme – Rin sente il proprio cuore spezzarsi di un’ emozione confusa e si rende conto di avere disperatamente del calore di quelle mani.)
- … hai fatto un brutto sogno?
Rin scuote la testa lentamente, senza accennare a volere scoprirsi il viso né a smettere di piangere.
Proprio il contrario, risponde mentalmente, come se la domanda se la fosse fatta da solo, ma era un sogno molto triste. Lo sapevo che Oyaji non poteva essere vivo, eppure—
- … no. – è l’unica replica laconica che gli viene fuori dopo un po’, mezza soffocata dalle proprie mani.
(… sei felice, Rin?)
Inghiotte un singhiozzo cercando di trovare anche la forza di rispondere qualcosa, ma è come se la vicinanza stessa di Haru in quel momento fosse un ulteriore incentivo a dare sfogo a quella commozione. È assurdo come quel sogno abbia risvegliato un dolore così assoluto, eppure capace di coincidere con un sentimento così simile alla felicità.
Non vuole farlo preoccupare inutilmente, sa già che se si lascia troppo andare più tardi finirà coll’imbarazzarsene a morte; lentamente si libera la faccia e si gira ad incontrare il suo sguardo.
Come immaginava, un’ombra angosciata offusca l’impassibile limpidezza della sua abituale espressione. C’è veramente da sentirsi stupido per essere stato convinto così a lungo che Haru fosse una persona capace di provare solo indifferenza. È questo pensiero a fargli scendere un’altra lacrima.
- …sto bene… non è niente. – si sforza di rispondergli con la voce più ferma che può. Si affretta ad asciugarsi l’inondazione sulla faccia, come a rinforzo di quello che ha appena detto.
Haru solleva soltanto un sopracciglio. - … non sembra.
- … è tutto a posto. – ribadisce lui, scuotendo la testa. - … possiamo parlarne dopo?
Ed è grato ad Haru di non insistere, nemmeno se gli costa uno sforzo e una preoccupazione in più. Si butta tra le sue braccia e si rifugia nel conforto del suo odore e del suo abbraccio.
- Stringimi.
Lui gli obbedisce, con tutto l’affetto e il calore che il suo nido gli riserva. - … dopo andiamo in piscina. – mormora sfiorandogli appena la testa con le labbra, mentre gli accarezza i capelli.
E non c’è niente che dia più sollievo al suo cuore.
Sì.
- … mh.
Sì, sono felice.



Quella mattina Rin mangiò umeboshi.
   
 
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