R.I.P.
George
Here comes the sun
Le gocce di pioggia battevano contro il vetro quasi
volessero entrare a qualunque costo nella stanza.
Era assurdo, pioveva incessantemente da giorni su
Los Angeles.
Non che a George non piacesse. Dopotutto la pioggia
era vita per le sue amate piante. Ma dannazione, stavano rendendo i suoi ultimi
giorni di vita più cupi di quanto già non fossero.
Sì, era così. Stava morendo. Come lo sapeva? Beh,
glielo aveva detto il suo dottore, no? Anche se, andiamo!, non ci voleva certo
una laurea in Medicina per capirlo. Dopo quello che aveva passato, sapeva
perfettamente che il suo corpo stesse cedendo lentamente alla malattia e che la
sua anima si stesse preparando a lasciare la vita terrena e… andare oltre. Non
sarebbe stato facile, ne era convinto. Ed era la cazzata più colossale del
mondo dire che non avesse paura. Tutti l’hanno. Possono fare gli sbruffoni
quanto vogliono, ma è inevitabile.
Aveva paura, ma non tanto perché non avrebbe vissuto
più. Quello in fondo rientra nel normale cerchio della vita. Piuttosto la sua
paura era dovuta al fatto che avrebbe affrontato tutto questo da solo. Sì,
sicuramente ci sarebbe stata la sua famiglia accanto a lui, a infondergli
coraggio e amore, ma sarebbe stato solo. E questo spaventava infinitamente.
George cercava di non darlo a vedere, soprattutto
davanti a suo figlio, ma dubitava che stesse facendo un gran lavoro.
Probabilmente tra qualche mese Dhani avrebbe detto che
George Harrison fosse stato un grande anche in questo, che aveva avuto il
coraggio e la forza di un leone fino all’ultimo momento della sua straordinaria
vita. E forse era vero, o forse no, ma non importava.
Ciò che contava era solo sforzarsi di stare bene,
per quanto la sua situazione glielo permettesse. Per suo figlio, per non farlo
preoccupare. Dhani era già fin troppo... non sapeva
neanche che aggettivo usare, nessuno sembrava adattarsi.
Per questo motivo aveva bisogno del sole. Col sole
sarebbe stato tutto molto più facile, ne era certo.
Dio, se c’era una parola che potesse essere abbinata
a George Harrison era sicuramente sole.
Avrebbe vissuto abbastanza per vedere tornare il
sole?
Sperava di sì, almeno un’ultima volta, ma sapeva, in
profondità dentro di lui, che no, non l’avrebbe più rivisto. Era una certezza,
tanto quanto il sapere che non avrebbe resistito fino alla settimana
successiva. Il respiro era ogni giorno più difficoltoso, le gambe gonfie gli
impedivano di camminare ormai da settimane, e le forze stavano abbandonando
lentamente le sue membra. Anche il più piccolo
gesto era diventato così faticoso da costringerlo quasi a rinunciarci.
Tuttavia, c’erano azioni per
cui doveva compiere lo sforzo, come ad esempio, allungare la mano per
accarezzare la testa di Dhani, appoggiata sul materasso. Amava i suoi capelli, erano
fini e setosi come quelli di Liv.
Il suo ragazzo passava tutti i giorni a casa con
lui. Di tanto in tanto si dava il cambio con sua madre, ma sostanzialmente suo
figlio non lo abbandonava mai. E se questo da un lato lo rincuorava, dall’altro
lo faceva sentire in colpa. Dhani aveva solo 23 anni.
Avrebbe dovuto vivere la sua vita da ragazzo, sarebbe dovuto uscire con gli
amici e la fidanzata, stare fuori fino a tardi, vivere con passione ogni
istante della sua vita. Avrebbe dovuto far preoccupare George, quando non
tornava a casa all’ora stabilita, non doveva essere il contrario.
Non doveva essere George a farlo stare in ansia,
perché ogni giorno poteva essere l’ultimo trascorso insieme. Era terribilmente
frustrante.
Era frustante come sapere che non sarebbe stato lì
per il prossimo compleanno di Dhani, e neanche per il
prossimo Natale.
Era frustante non vederlo più vivere, abbandonare al
mondo quel figlio tanto desiderato, e non essere più in grado di proteggerlo
dalla cattiveria della gente, perché la gente è cattiva dentro ed era capace di
fare del male a quell’animo sensibile.
George non sarebbe stato lì quando Dhani avrebbe compiuto trent’anni, quando si fosse sposato,
quando avrebbe avuto il suo primo figlio.
George avrebbe perso tutto.
Tutto, cazzo.
Tutto.
Eppure sapeva che in qualche modo, parte della sua
anima sarebbe rimasta dentro quel giovane, bellissimo ragazzo.
In qualche modo sarebbe stato lì con lui, a vivere
le stesse cose con lo stesso entusiasmo. E questo piccolo raggio di speranza
era così vitale ora che George vi si aggrappò con disperazione, stringendo la
mano di suo figlio.
In quel momento, la testa del ragazzo si mosse,
segno che si stesse svegliando.
“Mm… papà?” mormorò lui, assonnato, “Che succede?”
George sorrise, dandogli un piccolo buffetto sul
dorso della mano, “Niente, non ti preoccupare. Torna a dormire.”
Ma Dhani non lo ascoltò e alzò
definitivamente il capo per guardare a fondo suo padre.
“Sei sicuro?”
“Ma certo.”
Dhani
annuì, ma lui lo sapeva e George lo sapeva, che avesse intuito perfettamente
cosa stesse pensando. Era solo un’altra cosa di cui George non avrebbe mai
parlato. Non con lui, almeno, perché non avrebbe mai potuto dargli questo
ulteriore peso.
“D’accordo.” sospirò il ragazzo, “Come vanno le
caviglie? Ti fanno ancora male?”
“Non come stamattina.” rispose George, provando a
muovere le gambe.
“Davvero?”
“Certo, se dicessi ‘ehi figliolo, mi sento alla
grande’, capiresti anche tu che si tratterebbe di una bugia colossale, ma
credimi, va sicuramente meglio di stamattina.” affermò George, mostrandogli il
segno della vittoria.
“Bene, allora. Hai bisogno di qualcosa? Un po’
d’acqua, o un succo? Che ne dici?”
George scosse il capo alle proposte di Dhani. No, con tutto quello scrosciare d’acqua non aveva
sete per nulla. Piuttosto, aveva un desiderio da soddisfare prima che fosse
troppo tardi.
“Vorrei che cantassi per me.”
Da troppo tempo non c’era più musica in quella casa.
Era anche vero che non fosse la sua casa, con le sue cose, il suo studio, le
sue chitarre, che tanto lui aveva amato, che erano state abbracciate e
accarezzate dal suo corpo con l’unico scopo di creare musica. E ora quelle
chitarre giacevano da qualche parte senza vita, senza che lui potesse più suonarle.
Non poteva, lo sapeva, anche se avesse provato. Le dita gonfie non glielo
avrebbero mai permesso.
Ma Dhani sì, Dhani era ancora lì per lui ed era la sua unica e ultima
occasione di ascoltare ancora musica.
Il ragazzo batté le palpebre un po’ preso in
contropiede, ma alla fine annuì e sorrise.
“Va bene.” esclamò, avvicinandosi ad un angolo e
recuperando la sua chitarra, “Qualche richiesta particolare?”
“Prova a indovinare. Sei bravo in questo.”
Dhani
lo osservò e George sorrise, sicuro che suo figlio avesse già capito.
Due minuti dopo, infatti, dopo aver sistemato
velocemente l’accordatura, Dhani iniziò a pizzicare
le corde e la melodia che George aveva composto in un assolato pomeriggio di
primavera di molti anni prima invase la stanza e il suo cuore.
La voce di Dhani era
chiara e limpida, il suo pizzicato pulito e preciso, era una gioia vederlo
suonare e sentirlo cantare. In quel momento George non poteva essere più
orgoglioso e sì, felice.
Perché per quel breve momento, il sole era tornato
nella sua triste stanza a Los Angeles.
Dhani
era sempre stato il suo sole e George era felice di averlo potuto vedere
l’ultima volta, mentre suo figlio avrebbe sempre avuto occasione di rivedere
suo padre e risentire la sua voce. Con tutto il materiale dei Beatles prima, e
da solista dopo, davvero non avrebbe avuto modo di dimenticare la sua voce, o
la smorfia che faceva quando parlava.
George non era esattamente convinto che fosse una
cosa positiva. Forse i primi tempi sarebbe stato molto, troppo difficile. Ma
una volta che la ferita si fosse cicatrizzata, Dhani
ne sarebbe stato felice e si sarebbe sentito molto fortunato. Non era da tutti,
purtroppo.
La canzone terminò e George applaudì dolcemente,
mentre Dhani si alzava e si avvicinava.
“Come è andata?”
George fece una smorfia di biasimo, “Insomma,
dovresti sistemare ancora qualche passaggio-”
“Ma-”
“Ma mi è piaciuta molto, grazie mille.” affermò
George, interrompendo tutte le proteste di Dhani.
Il ragazzo si ritrovò a sorridere molto compiaciuto.
Non era da tutti ricevere un complimento da George Harrison in persona.
“Figurati, papà.”
“E’ meglio che ti prepari ora. Non devi uscire con i
tuoi amici stasera?”
“Sì, ma posso rinviare e restare.”
George si affrettò a scuotere il capo con tutta la
forza che gli era rimasta in corpo, “No, no, vai e divertiti anche per me. La
prossima volta usciremo insieme solo io e te, ok?”
“Papà…”
George gli sorrise, prima di allungare una mano e
accarezzargli una guancia.
“Vai ora e non ti preoccupare. Andrà tutto bene,
amore mio.”
Andrà
tutto bene.
Andrà
tutto bene.
Non erano andate esattamente bene le cose. Suo padre
era morto tre giorni dopo. E sebbene George si fosse preparato in tutti quegli
anni con la meditazione e il graduale distacco dal proprio corpo, la fine era
stata terribile. Terribile davvero. Anni di sofferenza culminati negli ultimi
strazianti giorni, con il corpo di George che si era arreso definitivamente alla
malattia.
Dopo quelle ultime parole di speranza, George era
entrato in un coma profondo. Non era esattamente coma, ma non faceva altro che
dormire e aveva il respiro pesante… come lo aveva chiamato l’infermiera?
Russante, sì, quello tipico di chi sta per morire. Dhani
poteva benissimo ricordare il brivido che l’aveva percorso quando l’infermiera
gli aveva spiegato tutti questi particolari tecnici.
Stava davvero arrivando la fine.
E poi…poi…
Poi poco prima di
morire era peggiorato tutto. Quando George se n’era andato, era più sveglio che
mai. I suoi occhi spalancati e spaventati cercavano lui e sua madre con
disperazione, chiedendo un aiuto che nessuno poteva più dargli. In quel momento
Dhani era impazzito in quella stanza. A un certo
punto aveva anche provato ad uscire per scappare il più lontano possibile, ma
il senso di colpa lo aveva afferrato per la pancia ed lo aveva fatto rientrare
due minuti dopo.
Non poteva scappare.
Non avrebbe mai lasciato suo padre da solo in quel momento, proprio come lui
non aveva mai lasciato solo suo figlio.
Infine tutto si era
calmato, il respiro di George si era fatto più debole fino a quando non era
cessato del tutto.
Il corpo era ormai
privo di vita, ed era diventato subito freddo. Dhani
non avrebbe mai dimenticato la sensazione della sua mano fredda che molte volte
si era intrecciata con la sua da piccolo. Ora invece era rigida. Non avrebbe
mai più potuto stringere la sua, né accarezzarlo, né sfiorare le corde di una
chitarra.
Dhani
si chiese quanto suo padre avesse sofferto per l’impossibilità di suonare negli
ultimi mesi. La chitarra era la sua vita. Le uniche volte in cui non ne
imbracciava una era per stringere lui e sua madre o per occuparsi delle sue
piante. Ma per il resto la chitarra era una sorta di naturale continuazione del
suo corpo.
Forse per questo motivo
Dhani aveva deciso quel giorno di prendere la sua
chitarra e andare in giardino a suonare.
La canzone,
naturalmente, era sempre quella. Da piccolo pensava che avesse il magico potere
di far apparire il sole. Era stato suo padre a dirglielo, e gli aveva garantito
che funzionava sempre, al 100%. Ma con Dhani non
aveva mai funzionato. Forse perché non era lui l’autore, si diceva da piccolo.
Tuttavia proprio ora,
quando il cielo plumbeo era così perfetto per rispecchiare il suo stato
d’animo, alle prime note della canzone, il sole fece capolino tra le nubi con
un raggio che illuminò la città di Los Angeles.
Stava funzionando.
Solo che, Dhani ne era convinto, non era merito della canzone, né
tantomeno suo.
No, certo che no.
Era merito di suo
padre. Lui aveva fatto arrivare il sole, proprio come la sua canzone lo faceva
arrivare nei cuori delle persone che la ascoltavano.
E lo aveva fatto
proprio in quel momento, dopo tanti giorni di pioggia e temporali, per assicurare
a Dhani e Olivia che stesse bene, dove si trovava
ora.
Per dirgli ancora una
volta…
Andrà tutto bene.
Note
dell’autrice: era da un po’ che volevo scrivere una os di questo tipo, e finalmente ce l’ho fatta per l’anniversario
della morte di George.
Non è stato per nulla
facile, ma ci ho provato. Purtroppo è la storia più personale che abbia mai
scritto. Ma sentivo proprio di doverlo fare in questo periodo.
Comunque, ringrazio
tantissimo Anya che mi ha sostenuto e spronato a scriverla, nonostante sapesse
quanto fosse difficile per me, per la sua pazienza infinita. E la ringrazio anche
per la correzione. <3
Grazie anche a Chiara e
Paola per l’incoraggiamento e l’affetto che mi mostrano. :)
Alla prossima
Kia85