Autentico
word vomit ispirato a questa cosa: http://images-cdn.9gag.com/photo/abyDDD9_700b_v1.jpg.
Chiedo perdono ad Esiodo per aver rivoltato come un calzino la sua Teogonia e a chiunque di voi
leggerà
quanto segue. Non ha senso, è inutile e assurdamente angst.
Ma dovevo.
P.S. Il
rating è arancione per via della tematica trattata; quando
si scrive Incest è
meglio prendere qualche precauzione in più.
In
un’epoca
in cui l’universo era in balìa del Caos primigenio
e sulla Terra regnavano le
tenebre della notte eterna, avvenne un giorno che Cronos, il Tempo,
portasse per
primo la luce nel mondo. Con una falce evirò il padre Urano,
sprofondato da
secoli nel ventre della potente Gea; cielo e terra vennero separati e
il sole
inondò con i suoi caldi raggi le terre ubertose, i monti, lo
sconfinato oceano.
Dall’oscurità ebbe origine il giorno, dalla stirpe
divina quella umana. Il Caos
divenne Cosmo, ordine perfetto.
Non esiste
inizio che non derivi da una fine. L’equilibrio viene
raggiunto con l’estinguersi
del disordine. La luna si alza in cielo non appena il sole cala ad
Ovest, e la
sfumatura purpurea che ne tinge gli ultimi raggi ricorda il sangue di
una
creatura che sta esalando l’ultimo respiro.
Sono due i
numi che sovrintendono al principio e al termine di ogni cosa, sia essa
inanimata
o meno, corporea o meno. Entrambi frutto del seme di Cronos, concepiti
nel grembo
di una sacerdotessa orientale dalla chioma più nera della
cenere e la carnagione
pallida come nebbia autunnale, al momento della loro nascita vennero
battezzati
dalla madre con i nomi che, nella sua lingua antica, significavano
rispettivamente Vita e Morte.
Sehun e
Jongin.
L’uno
è
bianco ed intriso di luce; la sua risata è acqua cristallina
che sgorga dalle
sorgenti ed irriga le messi ed i prati ricchi di boccioli. Il suo dono
è la
nascita e, segretamente, gli piace pensare che ogni essere vivente sia
una minuscola
parte di sé, un suo infinitesimale figlio. L’altro
è ombroso, le sue vesti scure
ed opache. Rifugge il sole al pari della speranza, poiché
non esiste
consolazione nella fine. L’oblio è il suo dono, il
suo unico dono.
Tuttavia Sehun ama teneramente il fratello e sin dalla loro infanzia
-sempre che
gli dèi ne abbiano una- gli sta accanto, non lasciandolo
solo nemmeno quando
gli viene ingiunto di farlo. Coglie per lui i fiori più
profumati, gli riserva
l’ambrosia più dolce ed i sorrisi più
genuini. Jongin, sebbene incredulo e di
indole ritrosa, finisce per accettare le attenzioni del suo gemello.
Non è in
grado di ricambiarle perché non ha nulla da offrire in
cambio, è la Morte, e se
ne vergogna. Sehun capisce e non pretende alcunché. Fintanto
che Jongin afferrerà
con forza la mano che lui gli tende, sarà felice.
La Vita
dovrebbe temere, se non tenere a debita distanza, la Morte; eppure
l’impossibile
accade.
Anni dopo,
divenuti
adulti abbastanza da potersi separare e prendere possesso dei
rispettivi regni (tanto,
troppo distanti l’uno dall’altro), Sehun quasi
impazzisce di dolore. Tutta la
bellezza della natura, i colori dell’arcobaleno, il miracolo
di una nuova vita –niente
di ciò che solitamente lo rende felice riesce a colmare il
vuoto che scava una
voragine nel suo cuore al pensiero dell’imminente distacco da
Jongin. E perciò
compie un atto impensabile, folle, che infrange il più
atavico dei tabù: giace
con il proprio fratello.
La madre li sorprende durante l’amplesso, i giovani corpi
adagiati su vesti nere
di morte, e non ha nemmeno la possibilità di chiedersi se si
tratti di stupro o
di un atto consensuale; grida, si strappa ciocche di capelli dalle
radici
insanguinate, si batte il petto in segno di lutto. I suoi gemelli, i
suoi
preziosissimi tesori, perduti per sempre. Eternamente maledetti. Cronos
sente
le urla di sconforto della donna e accorre sulla scena ove è
stato consumato il
crimine supremo. In preda all’ira, cieco di fronte alle
lacrime e sordo alle
suppliche della madre dei suoi stessi figli, si erge a giudice e
commina la
pena, crudele come il piccolo dio che un tempo aveva evirato il
terribile Urano.
Sehun e
Jongin sono condannati a trascorrere il resto della loro esistenza in
completa
e totale solitudine. Questa è la punizione che subisce chi
osa alterare l’ordine
del Cosmo. Vita e Morte devono restare separate; e così
accade.
C’era
una
volta la Vita, che aveva le affascinanti sembianze di un ragazzo e un
dolore
nascosto negli anfratti più reconditi del cuore. La Vita
amava la Morte -anch’ella
con l’aspetto di un giovane di misteriosa bellezza- da
più tempo di quanto
esistano le parole per descriverlo. Tuttavia i due amanti non potevano
stare
insieme e nemmeno incontrarsi perché erano l’uno
l’opposto dell’altro, e la
loro vicinanza avrebbe causato gravi ed inimmaginabili scompensi
nell’equilibrio
del mondo. Sicché la Vita, per ricordare alla Morte che
l’avrebbe sempre amata
nonostante il crudele destino che le aveva separate, le spediva
infiniti doni:
esseri umani, animali, piante di ogni tipo. Non voleva che
l’altra si sentisse
sola. Le mandava le proprie creature quando erano ancora minuscole,
cuccioli
traballanti e timidi germogli, giacché sapeva che il loro
viaggio sarebbe stato
lungo e faticoso.
Alla fine, trascorsi diversi anni, esse arrivavano a destinazione; ma
erano
ormai stanche, invecchiate o strappate prematuramente al loro destino.
Avevano
bisogno di un luogo dove riposare e domandavano asilo alla Morte. Ci
manda la
Vita, dicevano per convincere la nera figura che le accoglieva al
limitare del
crepuscolo. Siamo il suo regalo per te. E la Morte, che lo sapeva,
accettava
quei doni e li teneva con sé. Per sempre.