Capitolo
I
Corsi
lontano senza nemmeno
preoccuparmi di dove stessi andando, troppo concentrata a mettere
quanta più
distanza possibile tra me e gli uomini che avevano dato fuoco al
teatro. Vicoli
e stradine sudice, la luce fioca di pochi lampioni incapace di
illuminarmi,
rumore di passi di corsa dietro di me.
Svoltai
a destra, poi a sinistra
o forse al contrario; innumerevoli volte cambiai direzione senza sapere
dove
fossi diretta. Continuai a correre anche dopo che il silenzio mi ebbe
avvolto, mentre
la speranza di aver seminato quegli uomini lentamente si tramutava in
certezza.
Il panico scorreva ancora come lava nelle mie vene, corrodendo ogni
barlume di
logica e spingendo i miei muscoli al limite: le gambe dolevano
terribilmente,
il respiro spezzato e gli
eventi
che mi avevano portato a quella tragedia marchiati a fuoco nella mia
memoria.
***
-Sei
lenta!-
-Non
è vero, è difficile!-
-Ma
se io sono già qui!- urlò mio cugino William con
le mani a coppa ai lati della
bocca affinchè la sua voce mi raggiungesse nonostante fossi
a due tetti di
distanza. Non ero veloce quanto lui, lo sapevo bene, eppure non lo
avrei mai
ammesso. Non con lui almeno.
Scoppiò
a ridere e riprese a correre, volando sulle tegole rosse senza fare il
minimo
rumore, superò un comignolo basso poggiando entrambe le mani
sulla sua sommità
e scavalcandolo come se non esistesse. Ripresi a correre dietro di lui,
la
furia della competizione che montava. Davanti a me un tetto
più alto di quello
su cui stavo correndo. Anziché fermarmi accelerai e, prima
di andare a
sbattere, sollevai una gamba quasi volessi correre sul muro e mi diedi
una
spinta, poggiai le mani sulle tegole del tetto più in alto e
mi tirai su
rapidamente.
-Finalmente
hai capito come si fa- mi prese in giro William, limitandosi a fare una
piroetta per vedere dove fossi ma senza fermarsi. La provocazione
funzionò a
mo’ di pungolo, una scarica di nuova energia che mi invase e
mi spronò a fare
meglio. Volevo raggiungerlo, dimostrargli che si sbagliava su di me,
che se
volevo farcela ce l’avrei fatta. D’un tratto mi
accorsi che la distanza tra noi
stava diminuendo finchè non rimase un solo tetto,
più in alto rispetto a quello
su cui stava correndo lui, a dividerci. Spiccai un salto fino al
comignolo più
vicino e da lì gli atterrai direttamente addosso. Rotolammo
sul tetto ridendo
finchè io non sentii di colpo il vuoto sotto di me e un
improvviso strappo al
braccio: William era appeso ancora al tetto con la mano sinistra mentre
con la
destra mi aveva afferrato.
-Pronta?-
mi chiese. Quando annuii mi lasciò la mano e io caddi
agilmente sulla terra
umida del cortile di una casa identica a mille altre in quella zona di
Southwark. Will atterrò accanto a me con
l’agilità di un gatto, senza scomporsi
benché l’avesse fatto da un altezza di quasi
cinque metri, e senza far rumore.
Io ansimavo ancora pesantemente dopo quella corsa acrobatica di oltre
mezz’ora
mentre mio cugino aveva il respiro leggermente accelerato: col senno di
poi
ebbi la certezza che mi avesse lasciato vincere quel giorno.
All’epoca però ero
felice della mia vittoria e lo canzonai gioiosa scompigliandogli i
capelli
biondi e facendogli il verso, cercando di imitare la sua voce
baritonale mentre
mi urlava che ero lenta. Lui intanto rideva e accettava di farsi
torturare
dalla sua cuginetta pazza che seguitava a saltellargli intorno e fare
ruote in
mezzo alla strada. Era sempre stato un pezzo di pane mio cugino, il mio
migliore amico e il fratello che i miei genitori non avevano potuto
darmi:
l’avevano cresciuto come fosse loro da quando, quindici anni
prima, i miei zii
erano morti in un incendio che aveva divorato la loro casa e quella di
molti
loro vicini. Incidenti simili erano molto frequenti a Londra, erano
cose che
capitavano. William era troppo piccolo quando accadde e dei genitori
non
ricordava più nulla, neppure
sentiva più
la loro mancanza: i miei non avevano mai permesso che si sentisse
estraneo alla
nostra famiglia.
-Ci
siamo allontanati più del solito questa volta- disse Will
all’improvviso. Mi
guardai attorno e dovetti constatare che ci eravamo spinti parecchio
più a
ovest del Blackfriars Bridge di quanto eravamo soliti fare: il cielo
stava
imbrunendo rapidamente e si stava sollevando un vento alquanto gelido
che ci
colpiva sgradevolmente in viso.
***
Inciampai in qualcosa fatto
di latta che al
buio non ero riuscita a vedere ma che sbatacchiò lontano con
un rumore talmente
assordante che tutta la scatola cranica sembrò rimbombarne.
Feci per rimettermi
in piedi ma le mie gambe cedettero e di colpo mi accasciai contro un
freddo
muro di mattoni alla mia sinistra: intorno a me il silenzio totale,
interrotto
di quando in quando da scoppi di risa provenienti da un locale
dall’altra parte
della strada. Quale fosse non avrei saputo dirlo: i bassifondi
londinesi erano
sempre uguali, stradine strette a tratti tortuose, sempre
maledettamente male
illuminate, un labirinto fetido in cui l’umanità
diveniva irriconoscibile.
Donne, che non parevano più donne, sostavano agli angoli
delle strade con i
corpi scheletrici fasciati da abiti scoloriti e aperti a mostrare forme
che la
comune decenza imporrebbe di coprire, l’atteggiamento lascivo
della matrona
esperta, lo sguardo straziato e urlante un muto dolore. Durante la mia
corsa
non mi ero accorta di quante ce ne fossero, di quante mi stessero
guardando, ma
ora quella stradina mi sembrava di colpo non così solitaria.
-Bambolotto,
ti va di spassartela
un po’?- mi apostrofò quella che avevo a me
più vicina, la quale, nel buio,
aveva a malapena potuto distinguere la mia figura infilata in una
camicia e un
paio di calzoni, scambiandomi per un uomo. La superai senza risponderle
e mi
avvicinai a quella che sembrava una via abbastanza larga. Un improvviso
chiacchiericcio mi investì, seguito da una delle vedute
più orribili che io
ricordi: uomini e donne, che ben poco avevano di umano ormai, si
trascinavano
lungo strada barcollando, storditi dall’alcool, troppo
impegnati a mettere un
piede davanti al’altro per accorgersi delle persone stese per
terra, alcune nel
tentativo di dormire, altre troppo deboli per restare in piedi.
Qualcuno urlò
all’improvviso, un povero disgraziato in preda a una febbre
violenta che
tossiva soffocato dal suo stesso sangue, il braccio proteso a chiedere
aiuto ad
un medico che non sarebbe mai arrivato.
Malattie
di ogni genere
infestavano quelle vie, uniche compagne di
un’umanità abbandonata a se stessa
che non poteva far altro che attendere che Dio, in un atto di
misericordia,
consegnasse la loro anima tormentata alle fiamme.
***
Urla
ci accolsero quando svoltammo e le fiamme di colpo ci accecarono.
Qualcuno era
accorso con secchi d’acqua, altri semplicemente a guardare
mentre il teatro di
mio padre rapidamente diventava cenere. Cercai di farmi strada verso
l’ingresso
ma Will mi bloccò:
-Cosa
stai facendo, resta qui!-
-Ci
sono i nostri genitori là dentro!-
-Vado
io, non muoverti di qui-
Ovviamente
fu come parlare al vento perché ci lanciammo insieme verso
l’ingresso. Qualcuno
provò a fermarci o forse no, non ricordo, ogni volta che
penso a quella sera
vedo solo fuoco e sento solo la disperazione che quella sera mi
corrodeva come
acido. Forse qualcuno mi artigliò il braccio urlando
qualcosa, ma devo averlo
scrollato via con violenza perché non rallentai per niente
la corsa. Quando
entrammo il fumo aveva saturato l’ambiente rendendo
l’aria irrespirabile e, per
farci strada, fummo costretti a premere l’avambraccio contro
il viso.
-Tu
va’ verso il teatro, io controllo al piano di sopra- urlai a
Will, poi senza
aspettare risposta mi precipitai su per le scale. Salii tre gradini
alla volta
e raggiunsi il corridoio su cui si affacciavano le nostre camere. Andai
dritta
verso quella dei miei genitori e aprii la porta lentamente con
crescente panico
e un terribile presentimento.
-Devi
essere davvero imbecille allora!- gridò un uomo gigantesco
vestito con abiti
sudici in faccia a mio padre. L’omone l’aveva
afferrato per il bavero e costretto
contro il muro e, torreggiando su di lui, lo scrollava violentemente a
ogni
parola. Io ero in preda al panico e impietrita sulla porta senza
riuscire a
muovere un muscolo.
-Quante
persone devono ancora morire perché tu ti decida a parlare?-
gridò ancora. Fu
allora che finalmente misi a fuoco la figura di una donna riversa in
una pozza
di sangue, immobile, certamente morta. Una donna che indossava lo
stesso abito
che avevo visto addosso a mia madre quel pomeriggio.
No.
Non era possibile. Non poteva essere vero, era solo un orribile incubo.
L’uomo
sollevò un pugno per colpire mio padre per
l’ennesima volta, a giudicare dal
naso sanguinante, e solo allora io interruppi il mio mutismo e urlai.
Prima che
potessi fare un passo l’uomo si era voltato di colpo verso di
me e,
sogghignando, aveva mormorato qualcosa. Mio padre mi aveva rivolto un
ultimo
sguardo spaventato prima che la lama di un coltello gli trapassasse la
gola. Si
accasciò in ginocchio con un braccio levato verso di me
mentre io istintivamente
mi muovevo verso di lui ancora incapace di assimilare quanto era appena
successo. Rivolsi uno sguardo all’uomo che l’aveva
ucciso mentre rabbia,
incredulità e paura si mescolavano in egual misura.
***
Avanzai
in mezzo a quella
sofferenza con orrore e raccapriccio: ero un’orfana, senza un
lavoro, senza
altre capacità oltre alla recitazione, senza denaro, senza
un posto dove
dormire. Sarebbe dovuto essere quello il mio destino? Avrei dovuto
vendere il
mio corpo per avere un tetto sopra la testa e mangiare un tozzo di
pane? Oppure
anche io sarei stata risucchiata in quel vortice di malattia e
sofferenza e
l’unico modo per non vedere, per non sentire, per non essere
consumata
dolorosamente dalla fame e non accorgermi del mio corpo che sfioriva
anzitempo,
sarebbe stato sostituire l’alcool al sangue?
Continuai
a camminare,
sforzandomi di non osservare troppo attentamente ciò che
capitava intorno a me,
benché fossi pienamente consapevole del fatto che quelle
scene strazianti stavano
invece imprimendosi indelebilmente nella mia memoria.
Superai
una serie di stradine che
si perdevano poco lontano in un buio di pece, interrotto qua e
là da pochi
lampioni che parevano fluttuare sospesi in un mare
d’inchiostro. Tra quelle
mura di quelle case isolate, in quei vicoli stretti e bui
chissà quali atrocità
e mostruosi delitti, quali violenze e silenziosi soprusi venivano
perpetrati
nell’indifferenza e nel dolore. Accelerai il passo,
consapevole di stare
attirando l’attenzione: benché i miei abiti
fossero piuttosto poveri e
abbastanza mal messi, erano in verità fin troppo eleganti
per un posto come
quello, senza contare che avevo degli uomini ancora alle mie calcagna,
pronti
sicuramente a finire il lavoro che avevano cominciato. Se non avessi
trovato il
modo di sparire non sarei sopravvissuta a lungo.
***
-Oh,
che peccato per la tua bella famigliola-
sogghignò l’energumeno con il tono che si usa con
i bambini piccoli -sembra che
tu sia rimasta da sola, ma non temere, ti ricongiungerai presto a loro-
L’uomo
scoppiò a ridere e avanzò verso di me levando il
coltello insanguinato. Io
indietreggiai di un passo, poi mi voltai e cominciai a correre verso la
porta
ancora aperta e il corridoio. Sarei volata di corsa giù per
le scale se l’uomo
non mi avesse afferrato per i capelli e spinta contro il muro,
bloccandomi con
il suo corpo.
-Beh
forse prima di affidarti al creatore
potremmo divertirci- sussurrò lascivamente tra i miei
capelli. Se anche avessi
avuto ancora dei dubbi su cosa intendesse con la parola
“divertirci” questi
certamente scomparvero quando udii di una cintura slacciata e lo
strofinio
della stoffa dei calzoni che venivano abbassati.
Oh
mio Dio!
Tuttavia
non feci in tempo a ribellarmi che
l’uomo ululò di dolore e mi lasciò
andare di colpo. Mi staccai subito dal muro
e vidi Will con il pugno ancora sollevato e un’espressione
mista a furia e
disgusto. Quando i nostri sguardi si incrociarono la rabbia lo
abbandonò di
colpo, abbassò il braccio e mi afferrò la mano.
-L’edificio
sta cadendo a pezzi, hai trovato
mamma e papà?-
L’immagine
orribile dei miei genitori in un
lago di sangue mi impedì di proferir verbo e la vista mi si
offuscò di colpo.
Quando alzai lo sguardo su Will l’angoscia e lo sgomento che
gli lessi negli
occhi mi dissero che aveva capito.
-Maledizione!
Ci penseremo dopo, ora usciamo
o bruceremo vivi!-
Ci
precipitammo al piano inferiore a una
velocità impossibile e, quando vi arrivammo, quanto ci si
parò davanti ci
costrinse a fermarci: un muro di fiamme tra noi e l’uscita,
travi e assi,
quadri, tende, mobili, tutto divorato dal fuoco. Tossendo e con gli
occhi che
lacrimavano ci facemmo strada verso una finestra che si trovava
dall’altra
parte della stanza. Il fumo ormai rendeva impossibile distinguere gli
oggetti,
ogni volta che respiravamo i polmoni sembravano in procinto di
scoppiare, desiderosi
com’erano di aria che puntualmente non arrivava. Il calore ci
investiva a
ondate, sempre più insopportabile, sempre più
rovente. Sentivo la pelle che
scottava, gli occhi
mi bruciavano e sembravano
essi stessi emanare calore. Fummo invasi dalla disperazione quando
scoprimmo
che la finestra era bloccata. Mi guardai disperata alle spalle ma non
vi era
altra via di fuga che quella.
-Evelyn
spostati!- gridò d’un tratto Will con
voce roca. Mi voltai e vidi che teneva sollevata una poltrona, o quello
che era
una poltrona e che ora aveva assunto le sembianze di una gigantesca
torcia.
Feci due passi indietro e lui colpì la finestra con tutte le
sue forze
mandandola in frantumi. Poi scagliò la poltrona lontano e mi
spinse verso
l’apertura, mi mise una mano sulla testa per far
sì che i vetri acuminati non
mi ferissero e mi aiutò a scendere. Appena fuori, inspirai a
pieni polmoni
l’aria notturna che al confronto con quella che avevo
respirato fino a quel
momento mi parve gelida. Un attimo dopo anche Will mi raggiunse fuori,
tossendo
violentemente e respirando con affanno. Due uomini sbucarono di colpo
da
destra, correndoci incontro. Will mi prese per mano e insieme ci
avviammo alla
maggiore velocità che le nostre gambe potevano consentirci
ma eravamo deboli e
i nostri polmoni saturi di fumo. Dopo una ventina di metri, malgrado
fossimo
entrambi allenati a correre assai più velocemente di
così, ci fu evidente che
non avremmo mai potuto farcela. Di colpo Will si arrestò.
-Corri,
Evelyn!- mi urlò, gli uomini a pochi
metri da noi.
-No,
che stai facendo, vieni!- strillai in
preda al panico.
-Scappa!
Ora!- gridò tirando fuori un
pugnale, di cui non conoscevo neanche l’esistenza, da una
manica. Gli obbedii
ma dopo poco mi fermai, incapace di abbandonarlo. Sapeva combattere,
non so
dove l’avesse imparato, ma non fu sufficiente. Fece una
affondo che uno dei due
uomini sfruttò a suo vantaggio balzandogli alle spalle e
affondandogli il
coltello nella schiena. Io strillai quasi avessero colpito me ma la
voce mi
vene meno quando l’altro lo afferrò per i capelli
e gli tagliò la gola. Mi ero
coperta la bocca con la mano in un vano tentativo di soffocare il
dolore che mi
aveva trafitto come quel pugnale aveva fatto con lui. Il mio Will.
I
due si voltarono nella mia direzione e
presero ad avanzare.
-Corri!-
gridò la mia testa. Io mi voltai di
scatto e le obbedii, perché aveva urlato con la voce di
Will, il mio migliore
amico, mio fratello.
***
Gli
sguardi incuriositi della
gente mi trafiggevano come lame, ogni occhiata un muto e al contempo
assordante
grido di allarme che evidenziava la mia posizione come se
l’avessi urlata. Il
panico mi invase assieme a un odore pesante e sgradevole: il Tamigi
reclamava a
gran voce attenzione.
Imboccai
una stradina a caso e
seguii il mio naso cominciando a correre, come se il fiume, nel suo
continuo
incedere, avesse potuto portare via con sé anche i miei
problemi. Raggiunsi una
stradina che si piegava ad angolo acuto rispetto alla strada principale
e dalla
quale era possibile distinguere un argentato luccichio; non mi curai
del buio
che mi avvolse, ma anzi lo presi come un invito, come un mantello in
grado di
coprirmi, di nascondermi agli occhi dei miei nemici. Camminai
finchè non giunsi
al termine della stradina: magazzini si aprivano a intervalli regolari
non
lontano dalle banchine e uomini di tutte le età e stature ne
uscivano
trasportando casse e sacchi fino alle navi ancorate nei loro pressi e
poi
nuovamente dalle stive di carico al molo. Due marinai mi passarono
accanto e io
li seguii con lo sguardo fino a quando non raggiunsero una tozza nave
mercantile ancorata non lontano dal punto in cui mi trovavo,
probabilmente pronta
a partire nel giro di uno o due giorni. Fu allora che un’idea
folle,
sicuramente frutto del terribile spavento e dello shock che avevo
subito, si
impossessò di me. Mi avvicinai alla nave sperando di
intravvedere qualcuno che
assomigliasse al capitano ed ebbi fortuna: un uomo di mezza
età con baffi
spioventi e folti favoriti color piombo stava esaminando un registro
alla luce
di una lanterna; la redingote
color
ruggine e gli abiti di buona fattura che l’ accompagnavano mi
fecero supporre
di non dovermi spingere in qualche taverna malfamata del porto per
trovare ciò
che stavo cercando.
-Il
capitano?- lo apostrofai
incerta. L’uomo sollevò gli occhi dal registro e
mi squadrò con volto
corrucciato.
-Sono
io. Cosa vuoi, giovanotto?-
-Sono
in cerca di un impiego e
dei ragazzi giù da Tom mi hanno detto che la vostra nave
è in partenza,
signore!- risposi guardandolo dritto negli occhi.
Non
esisteva alcun Tom
ovviamente, ma l’esperienza
mi aveva
insegnato che il confine tra una bugia e una plausibile
verità è tanto più
labile quanto maggiore è la sicurezza sfoggiata. Il capitano
mi squadrò dalla
testa ai piedi prima di degnarmi di una risposta.
-Che
cosa sai fare?- chiese
infine.
-Non
molto a dire il vero, ma so
arrampicarmi ovunque e posso svolgere qualunque lavoro manuale vogliate
assegnarmi-
Purtroppo
non era la risposta
migliore che potessi dargli: l’uomo mi guardò
stralunato per qualche secondo
come se lo stessi prendendo in giro infine scosse la testa.
-A
me serve un uomo di mare, non
una scimmia! Sparisci, trovati altro da fare-
-Prenderò
solo mezza paga!-
esclamai disperata: dovevo allontanarmi dall’Inghilterra e se
per farlo avessi
dovuto sgobbare quasi gratuitamente l’avrei fatto senza
lamentarmi.
Il
capitano mi guardò per un
lungo istante poi sogghignò.
-Di’ la
verità, vuoi sparire non è vero?- poi
aggiunse subito -ti farò salire a bordo ma scatterai quando
lo dico io e a un
quarto di paga-
Non
mi rimase che accettare.
-Molto
bene, così mi piaci! La
Providence salperà per Boston domattina all’alba:
vedi di essere puntuale,
giovanotto, perché non ti aspetterò di certo!-
Detto
questo, tornò a studiare il
suo registro senza degnarmi di uno sguardo, lasciando chiaramente
intendere che
per lui il colloquio era finito. Mi voltai e feci per scendere sulla
banchina
quando la sua voce mi fece voltare nuovamente.
-Un
momento! Come ti chiami,
ragazzo?-
Ci
pensai per meno di una
frazione di secondo.
-Jones. Mi chiamo Oliver
Jones-
***
Passai
tutta la notte a camminare
come un’anima dannata in giro per il porto, un po’
perché non avevo un soldo
bucato con me, un po’ perché la sola idea di
addormentarmi e rischiare di
perdere la nave mi faceva stare con gli occhi sbarrati e mi privava di
ogni
oncia di sonno. Solo quando la noia mi impose di infilarmi in qualche
stradina
nelle vicinanze mi imbattei in una chiesa con l’ora ben
visibile sull’orologio
del campanile: le tre e mezza. Mancavano poche ore all’alba.
Dal
canto mio controllavo il
cielo continuamente, in attesa che quel nero pece sbiadisse almeno un
po’ e le
stelle sembrassero un po’ meno luminose. Le strade erano
deserte e il porto un
po’ meno caotico benchè
l’attività costante che lo distingueva dalle altre
parti della città non accennasse completamente ad
arrestarsi: le ultime merci
destinate alle navi in partenza venivano rapidamente caricate e la
musica
proveniente dai locali malfamati nelle vicinanze, dove i marinai
trovavano
ristoro tra un viaggio e l’altro, non sembrava diminuire in
intensità. Dopo
quella che mi parve un’eternità, finalmente il
cielo cominciò a tingersi di un
indaco molto scuro e io sentii sollievo misto ad agitazione invadermi
il petto
e farmi accelerare il battito cardiaco. Ritornai in fretta al porto e
mi
diressi verso la Providence, la quale dondolava piano sulle onde quasi
fosse
impaziente di veleggiare verso l’oceano. Sembrava che non ci
fosse nessuno
sulla nave: dal punto in cui mi trovavo il ponte appariva deserto e
tutto
lasciava supporre che l’equipaggio fosse ancora distribuito
nelle varie locande
a smaltire la sbornia.
Stavo
per andare a sedermi sulla
banchina quando un tizio con la redingote marrone emerse di colpo dalla
stiva:
era giovane, non gli avrei dato più di trent’anni,
e il suo grado non doveva
essere troppo inferiore a quello del capitano dal momento che si
aggirava da
solo per la nave come se nulla fosse.
-Scusatemi,
signore, posso già
salire?- provai ad apostrofarlo dopo che mi ebbe ignorato per due
minuti buoni.
Mi squadrò con sufficienza e storse la bocca.
-Il tuo nome, ragazzo?-
chiese, prendendo un registro
da una cassa abbandonata sul ponte in attesa di una sistemazione
migliore.
-Oliver Jones, signore-
pigolai. Per un attimo
si affacciò nella mia mente il timore che il capitano si
fosse dimenticato di
segnarmi: in quel caso avrei dovuto attendere il suo arrivo e sperare
che si
ricordasse della mia faccia osservata al buio e per pochi secondi, dal
momento
che non volevo illudermi sul fatto che si ricordasse il nome falso che
gli avevo
dato. Cercai di darmi una calmata e di non lasciarmi prendere dal
panico mentre
l’uomo scorreva l’elenco con gli occhi.
-Ah eccolo, Oliver Jones-
esclamò quando
giunse al fondo. Mi permisi di lasciarmi invadere dal sollievo mentre
mentalmente mi davo dell’idiota per non aver previsto di
essere stata segnata
per ultima, vista l’ora alla quale mi ero arruolata.
-Vieni pure su- mi
esortò mentre appoggiava di
nuovo il registro sulla cassa. Non me lo feci ripetere due volte:
felice e
contenta cominciai a salire.
-Che accidenti stai
facendo?- mi urlò l’uomo
di colpo. Sbiancai e allargai le braccia confusa: cosa stavo facendo di
male?
-Si sale sempre col piede
destro su una nave,
mai con il sinistro, porta male!- mi spiegò spazientito e
scandalizzato -dove
accidenti hai vissuto finora?-
“Non
nel Medioevo” avrei voluto
rispondergli ma dal momento che avevo bisogno di rimanere su quella
nave decisi
di ingoiare quel commento.
-Domando scusa signore-
dissi monocorde. Lui
grugnì una risposta maleducata e sparì
sottocoperta e io, che sono una persona
ragionevole ed educata, salii sulla passerella col piede sinistro. Non
me ne
intendevo un gran che di navi e non sapevo come si chiamava la maggior
parte
degli strani oggetti che vedevo mentre mi aggiravo curiosa sul ponte.
Contai
una decina di cannoni, cinque a destra e cinque a sinistra, tutti
legati al
ponte con nodi impossibili. Tre alberi si elevavano alti, le vele ben
ripiegate
e legate ciascuna a un’asta perpendicolare
all’albero e sulla cui cima vi era
una specie di gabbia alla quale si poteva accedere per mezzo di un
sistema di
corde intrecciate a rete.
-Hai finito il giro
panoramico, Oliver?- mi
rimbrottò l’uomo di prima salendo le scale che
portavano alla stiva -Perché
ci sarebbe del lavoro da fare qua, a
meno che tu non sia stato ingaggiato dal capitano per contare le assi
del ponte-
sogghignò sarcastico.
“Per
carità, non sono mica qui per soffiarti
il lavoro” pensai di dirgli, anche se alla fine mi limitai a
un –Arrivo subito,
signore- che mi sforzai di non far apparire troppo scocciato.
L’uomo mi
condusse attraverso corridoi angusti fino alla stiva di carico.
-Porta
qua le ultime casse, controlla
che tutte siano assicurate bene e i nodi siano solidi. Se non lo sono,
falli di
nuovo. A gassa d’amante andrà più che
bene- ordinò sgarbato, poi mi lasciò
lì
impalata con la bocca semiaperta e la certezza che mi avesse parlato in
quel
modo per il puro gusto di mettermi in difficoltà. Tornai
indietro cercando le
casse e quando le trovai mi venne da piangere: non avrebbero potuto
avere
un’aria più pesante. Ne sollevai una e me la
portai appresso con fatica,
trascinandola per ampi tratti a schiena curva e fermandomi
più volte senza
fiato, mentre nella mia mente si faceva strada l’idea che non
sarei
sopravvissuta neppure a quella giornata. Giunsi nella stiva di carico
dopo
diversi minuti e lasciai cadere la cassa vicino alle altre,
rimettendoci quasi
l’alluce. Mi tirai su con un sospiro sofferente e tornai
indietro a prendere le
altre. Feci su e giù sette volte e, quando ebbi finito, le
braccia mi dolevano
terribilmente e dalla schiena provenivano fitte dolorose che mi
costrinsero a
rimanere curva per qualche secondo. Gattonai fino a una cima arrotolata
lì
vicino e avvolsi le casse strettamente rimanendo poi ferma in piedi con
i due
capi in mano e un’espressione certamente ebete stampata in
faccia.
“Gassa
d’amante” pensai, senza
avere la più pallida idea di che cosa volesse dire.
-Lascia
smilzo, faccio io- brontolò burbero qualcuno alle mie
spalle, poi una manona
abbronzata mi si appoggiò sulla spalla e mi
scostò non proprio delicatamente.
Al mio fianco si stagliò un omone con la mascella quadrata e
un paio di
bicipiti che avrebbero fatto impallidire un pugile di professione.
Diede una manata
alla pila di casse raddrizzandole come se fossero state portagioie, poi
tirò le
corde e le avvolse ancora con la maestria di chi maneggia quella roba
da una
vita. Si voltò a metà verso di me e mi fece cenno
con la testa di guardare:
formò un occhiello con la corda, vi fece passare dentro un
capo formando un
altro occhiello dopo averlo fatto passare dietro al dormiente e infine
strinse
tirando. Non sembrava difficile. Presi l’altro capo e feci lo
stesso imitando
ogni sua mossa. L’uomo grugnì con approvazione.
-Impari in fretta almeno!
Come ti chiami?-
-Oliver Jones. E tu?-
L’uomo gonfiò i
pettorali immensi e raddrizzò le spalle.
-Joseph Randall. Ma tutti
qui mi chiamano Joe-
aggiunse agitando la manona. Poi mi guardò con simpatia
incrociando le braccia
sul petto.
-Sei nuovo, immagino, eh
smilzo?- mi chiese
l’armadio -non hai l’aspetto di un lupo di mare-
-Decisamente no- ne convenni
io scuotendo la
testa -non ho mai messo piede su una nave!-
L’uomo
annuì con la faccia di chi
la sa lunga.
-Allora ti toccheranno i
lavori più faticosi,
smilzo. E se non impari in fretta anche le prese per il culo della
ciurma- mi
squadrò un momento -Di’
un po’, quanti
anni hai?-
-Quattordici!- esclamai,
fingendomi orgogliosa
della mia grande età, come farebbe un qualsiasi adolescente
di questo mondo. In
verità ne avevo diciassette, ma con la voce che mi ritrovavo
avrei potuto
impersonare solo un ragazzino. Come avevo pensato l’uomo
scoppiò a ridere.
-Ne hai di strada da fare,
smilzo! Sai almeno
arrampicarti velocemente?- mi chiese.
-Oh sì, quello so
decisamente farlo!- esclamai
con un ghigno. Sì, ero un portento, poteva scommetterci!
Avevo passato la mia
infanzia a correre da una parte all’altra del palco,
arrampicandomi in ogni
dove, infilandomi in ogni pertugio per sgusciare fuori e correre sui
tetti
della città assieme a mio cugino.
Già
Will.
Ancora
vedevo il suo sguardo
agguerrito e disperato mentre mi urlava di correre via, si voltava e
fronteggiava i suoi nemici che gli tagliavano la gola dopo una decina
di secondi.
Sbattei le palpebre e tornai al presente, per non scoppiare a piangere
di
fronte a Joe.
-Beh, non è una
brutta cosa immagino- borbottò
improvvisamente distratto, poi aggiunse -Se qua non
c’è altro da fare dovremmo
andare di sopra, non vorrai perderti la tua prima partenza?- mi fece
l’occhiolino e mi diede una manata sulla schiena per
incitarmi a salire sopraccoperta
e che per miracolo non mi ruotò il costato di centottanta
gradi. Quando
riemergemmo il ponte non era più così deserto:
uomini di tutte le età e
stature, ma immancabilmente con un aspetto che avrei definito poco
raccomandabile, si affaccendavano da una parte all’altra
arrampicandosi sugli
alberi per mezzo di corde o correndo da poppa a prua concentrati in
chissà
quale compito. In mezzo alla nave c’era il tizio con la
redingote marrone che
mi aveva fatto salire, intento a inveire contro chiunque gli capitasse
a tiro e
a sbraitare ordini.
-Immagino tu abbia
già conosciuto il
quartiermastro, il signor Blackstone. Simpatico come la sabbia nelle
mutande-
commentò burbero Joe -ma in questa vita è il
secondo del capitano Smythe e a
noialtri tocca obbedirgli- aggiunse con un’occhiata
minacciosa nella sua
direzione. Ora che me l’aveva fatto notare vidi che erano
parecchi gli uomini
dell’equipaggio che gli riservavano occhiate astiose e gli
rispondevano tra i
denti.
-C’è
qualcuno che lo trova sopportabile?- gli
chiesi. Joe ridacchiò.
-Nessuno lo vuole qua:
arrogante e con la
puzza sotto al naso con la ciurma, leccaculo e viscido con il capitano.
Ogni
volta che gli rivolge la parola Smythe trova sempre una scusa per
sbolognarlo-
ghignò il mio nuovo amico -il capitano invece è
un altro bel fiorellino:
bizzoso e vigliacco, pessima accoppiata. A meno che tu non ti metta tra
lui e
il denaro, in quel caso ti mangia vivo, o almeno ci prova. Basta poco
per
rimetterlo in riga. Che bella coppia di comari, eh?- concluse Joe
sputando
fuori dalla nave con disprezzo.
-Gli hai presentato i nostri
pezzi da novanta,
Joe?- chiese all’improvviso un uomo sbucato da sopra le
nostre teste -non
dovresti spaventare i bambini, magari in
due mesi di traversata non si accorgeva di nulla!- aggiunse saltando da
un
punto imprecisato dell’albero dritto davanti a noi.
-Sam, figlio di puttana,
pensavo che l’alcool
ti avesse ucciso!- esclamò Joe sghignazzando.
-Sono in ottima forma, pezzo
di merda, e tua
madre può testimoniarlo!- urlò Sam al mio amico.
Dopo
questi splendidi convenevoli
si strinsero in un abbraccio virile battendosi poderose pacche sulla
schiena.
-Anche tu parte del gioco,
eh?- gli fece Joe
quando si furono separati.
-Non potrei mai perdermi una
traversata con
Joe Pugnodiferro Randall!- gli rispose Sam dandogli un pugno amichevole
sulla
spalla, giusto per ribadire il concetto.
-Sempre a prendere per il
culo!- rise Joe -Vieni
ti presento una giovane recluta. Questo è Oliver Jones.
Smilzo, questi è Sam
Gambalunga Carson, il marinaio più veloce dei sette mari!-
Gli
strinsi la mano.
-Staremo
a vedere!- sorrisi
sfidandolo
-Ehi, il topolino ha fegato!
Bene, bene lo
vedremo davvero!- mi rispose Sam stritolandomi la mano. Io a mia volta
strinsi
più che potei senza staccare lo sguardo dal suo.
-E ha anche una bella
stretta! Mi piaci,
Oliver, hai la stoffa del duro!- detto questo, si congedò
tornando alle sue
attività ma non prima di avermi dato un’altra
pacca sulla schiena che
probabilmente raddrizzò ciò che Joe mi aveva
piegato. Ci appoggiammo al
parapetto e guardammo in basso il porto che andava animandosi sempre
più a mano
a mano che i raggi del sole si facevano sempre meno timidi: in quel
momento,
una luce di un intenso arancione, in grado di accecare chiunque si
fosse
voltato verso la poppa rivolta ad est, investiva i numerosi
commercianti che a
quell’ora del mattino stavano cominciando a sistemare le loro
merci sulle
bancarelle e i pescherecci che tornavano dal largo per vendere il
frutto di
un’intera notte passata a gettare e ritirare reti.
-L’umanità
si sveglia e noi ci apprestiamo a
salpare!- esclamai io, sopraffatta dalla vista di un cielo limpido come
non mai
e sollevata per essermi lasciata ogni pericolo alle spalle. Joe accolse
il mio
commento con un ghigno sarcastico.