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Autore: Silver Blaze    12/12/2015    0 recensioni
[STORIA IN FASE DI REVISIONE: CAPITOLI 1 E 2 MODIFICATI E ACCORPATI]
Sono nata a Londra nel 1737. La mia vita ha attraversato due secoli, la mia piena maturità incuneata tra due rivoluzioni. Dopo quanto accaduto alla mia famiglia ho creduto che tutto fosse finito, la mia esistenza svanita tra le fiamme, ogni certezza ridotta in cenere. Ma come una fenice sono risorta, più consapevole di ciò che mi circondava, cosciente di un fatto e uno solamente: se l'umanità continuava ad esistere ciò era dovuto a qualcuno che manteneva l'ordine, qualcuno che conosceva le sue debolezze e le impediva di collassare sotto il loro peso. Se questo qualcuno avesse trionfato, giustizia e ordine sarebbero divenute realtà e non solo vuote utopie, parole belle a pronunciarsi ma prive di significato. Ho vissuto questi anni nella speranza di vedere l'alba di un nuovo mondo, un mondo di fermezza e ordine. Mi chiamo Evelyn Richards e sono una Templare.
Genere: Avventura, Azione, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Charles Lee, Haytham Kenway, Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I

 

Corsi lontano senza nemmeno preoccuparmi di dove stessi andando, troppo concentrata a mettere quanta più distanza possibile tra me e gli uomini che avevano dato fuoco al teatro. Vicoli e stradine sudice, la luce fioca di pochi lampioni incapace di illuminarmi, rumore di passi di corsa dietro di me.

Svoltai a destra, poi a sinistra o forse al contrario; innumerevoli volte cambiai direzione senza sapere dove fossi diretta. Continuai a correre anche dopo che il silenzio mi ebbe avvolto, mentre la speranza di aver seminato quegli uomini lentamente si tramutava in certezza. Il panico scorreva ancora come lava nelle mie vene, corrodendo ogni barlume di logica e spingendo i miei muscoli al limite: le gambe dolevano terribilmente, il respiro spezzato e gli eventi che mi avevano portato a quella tragedia marchiati a fuoco nella mia memoria.

***

-Sei lenta!-

-Non è vero, è difficile!-

-Ma se io sono già qui!- urlò mio cugino William con le mani a coppa ai lati della bocca affinchè la sua voce mi raggiungesse nonostante fossi a due tetti di distanza. Non ero veloce quanto lui, lo sapevo bene, eppure non lo avrei mai ammesso. Non con lui almeno.

Scoppiò a ridere e riprese a correre, volando sulle tegole rosse senza fare il minimo rumore, superò un comignolo basso poggiando entrambe le mani sulla sua sommità e scavalcandolo come se non esistesse. Ripresi a correre dietro di lui, la furia della competizione che montava. Davanti a me un tetto più alto di quello su cui stavo correndo. Anziché fermarmi accelerai e, prima di andare a sbattere, sollevai una gamba quasi volessi correre sul muro e mi diedi una spinta, poggiai le mani sulle tegole del tetto più in alto e mi tirai su rapidamente.

-Finalmente hai capito come si fa- mi prese in giro William, limitandosi a fare una piroetta per vedere dove fossi ma senza fermarsi. La provocazione funzionò a mo’ di pungolo, una scarica di nuova energia che mi invase e mi spronò a fare meglio. Volevo raggiungerlo, dimostrargli che si sbagliava su di me, che se volevo farcela ce l’avrei fatta. D’un tratto mi accorsi che la distanza tra noi stava diminuendo finchè non rimase un solo tetto, più in alto rispetto a quello su cui stava correndo lui, a dividerci. Spiccai un salto fino al comignolo più vicino e da lì gli atterrai direttamente addosso. Rotolammo sul tetto ridendo finchè io non sentii di colpo il vuoto sotto di me e un improvviso strappo al braccio: William era appeso ancora al tetto con la mano sinistra mentre con la destra mi aveva afferrato.

-Pronta?- mi chiese. Quando annuii mi lasciò la mano e io caddi agilmente sulla terra umida del cortile di una casa identica a mille altre in quella zona di Southwark. Will atterrò accanto a me con l’agilità di un gatto, senza scomporsi benché l’avesse fatto da un altezza di quasi cinque metri, e senza far rumore. Io ansimavo ancora pesantemente dopo quella corsa acrobatica di oltre mezz’ora mentre mio cugino aveva il respiro leggermente accelerato: col senno di poi ebbi la certezza che mi avesse lasciato vincere quel giorno. All’epoca però ero felice della mia vittoria e lo canzonai gioiosa scompigliandogli i capelli biondi e facendogli il verso, cercando di imitare la sua voce baritonale mentre mi urlava che ero lenta. Lui intanto rideva e accettava di farsi torturare dalla sua cuginetta pazza che seguitava a saltellargli intorno e fare ruote in mezzo alla strada. Era sempre stato un pezzo di pane mio cugino, il mio migliore amico e il fratello che i miei genitori non avevano potuto darmi: l’avevano cresciuto come fosse loro da quando, quindici anni prima, i miei zii erano morti in un incendio che aveva divorato la loro casa e quella di molti loro vicini. Incidenti simili erano molto frequenti a Londra, erano cose che capitavano. William era troppo piccolo quando accadde e dei genitori non ricordava più nulla,  neppure sentiva più la loro mancanza: i miei non avevano mai permesso che si sentisse estraneo alla nostra famiglia.

-Ci siamo allontanati più del solito questa volta- disse Will all’improvviso. Mi guardai attorno e dovetti constatare che ci eravamo spinti parecchio più a ovest del Blackfriars Bridge di quanto eravamo soliti fare: il cielo stava imbrunendo rapidamente e si stava sollevando un vento alquanto gelido che ci colpiva sgradevolmente in viso.

***

 Inciampai in qualcosa fatto di latta che al buio non ero riuscita a vedere ma che sbatacchiò lontano con un rumore talmente assordante che tutta la scatola cranica sembrò rimbombarne. Feci per rimettermi in piedi ma le mie gambe cedettero e di colpo mi accasciai contro un freddo muro di mattoni alla mia sinistra: intorno a me il silenzio totale, interrotto di quando in quando da scoppi di risa provenienti da un locale dall’altra parte della strada. Quale fosse non avrei saputo dirlo: i bassifondi londinesi erano sempre uguali, stradine strette a tratti tortuose, sempre maledettamente male illuminate, un labirinto fetido in cui l’umanità diveniva irriconoscibile. Donne, che non parevano più donne, sostavano agli angoli delle strade con i corpi scheletrici fasciati da abiti scoloriti e aperti a mostrare forme che la comune decenza imporrebbe di coprire, l’atteggiamento lascivo della matrona esperta, lo sguardo straziato e urlante un muto dolore. Durante la mia corsa non mi ero accorta di quante ce ne fossero, di quante mi stessero guardando, ma ora quella stradina mi sembrava di colpo non così solitaria.

-Bambolotto, ti va di spassartela un po’?- mi apostrofò quella che avevo a me più vicina, la quale, nel buio, aveva a malapena potuto distinguere la mia figura infilata in una camicia e un paio di calzoni, scambiandomi per un uomo. La superai senza risponderle e mi avvicinai a quella che sembrava una via abbastanza larga. Un improvviso chiacchiericcio mi investì, seguito da una delle vedute più orribili che io ricordi: uomini e donne, che ben poco avevano di umano ormai, si trascinavano lungo strada barcollando, storditi dall’alcool, troppo impegnati a mettere un piede davanti al’altro per accorgersi delle persone stese per terra, alcune nel tentativo di dormire, altre troppo deboli per restare in piedi. Qualcuno urlò all’improvviso, un povero disgraziato in preda a una febbre violenta che tossiva soffocato dal suo stesso sangue, il braccio proteso a chiedere aiuto ad un medico che non sarebbe mai arrivato.

Malattie di ogni genere infestavano quelle vie, uniche compagne di un’umanità abbandonata a se stessa che non poteva far altro che attendere che Dio, in un atto di misericordia, consegnasse la loro anima tormentata alle fiamme.

***

Urla ci accolsero quando svoltammo e le fiamme di colpo ci accecarono. Qualcuno era accorso con secchi d’acqua, altri semplicemente a guardare mentre il teatro di mio padre rapidamente diventava cenere. Cercai di farmi strada verso l’ingresso ma Will mi bloccò:

-Cosa stai facendo, resta qui!-

-Ci sono i nostri genitori là dentro!-

-Vado io, non muoverti di qui-

Ovviamente fu come parlare al vento perché ci lanciammo insieme verso l’ingresso. Qualcuno provò a fermarci o forse no, non ricordo, ogni volta che penso a quella sera vedo solo fuoco e sento solo la disperazione che quella sera mi corrodeva come acido. Forse qualcuno mi artigliò il braccio urlando qualcosa, ma devo averlo scrollato via con violenza perché non rallentai per niente la corsa. Quando entrammo il fumo aveva saturato l’ambiente rendendo l’aria irrespirabile e, per farci strada, fummo costretti a premere l’avambraccio contro il viso.

-Tu va’ verso il teatro, io controllo al piano di sopra- urlai a Will, poi senza aspettare risposta mi precipitai su per le scale. Salii tre gradini alla volta e raggiunsi il corridoio su cui si affacciavano le nostre camere. Andai dritta verso quella dei miei genitori e aprii la porta lentamente con crescente panico e un terribile presentimento.

-Devi essere davvero imbecille allora!- gridò un uomo gigantesco vestito con abiti sudici in faccia a mio padre. L’omone l’aveva afferrato per il bavero e costretto contro il muro e, torreggiando su di lui, lo scrollava violentemente a ogni parola. Io ero in preda al panico e impietrita sulla porta senza riuscire a muovere un muscolo.

-Quante persone devono ancora morire perché tu ti decida a parlare?- gridò ancora. Fu allora che finalmente misi a fuoco la figura di una donna riversa in una pozza di sangue, immobile, certamente morta. Una donna che indossava lo stesso abito che avevo visto addosso a mia madre quel pomeriggio.

No. Non era possibile. Non poteva essere vero, era solo un orribile incubo.

L’uomo sollevò un pugno per colpire mio padre per l’ennesima volta, a giudicare dal naso sanguinante, e solo allora io interruppi il mio mutismo e urlai. Prima che potessi fare un passo l’uomo si era voltato di colpo verso di me e, sogghignando, aveva mormorato qualcosa. Mio padre mi aveva rivolto un ultimo sguardo spaventato prima che la lama di un coltello gli trapassasse la gola. Si accasciò in ginocchio con un braccio levato verso di me mentre io istintivamente mi muovevo verso di lui ancora incapace di assimilare quanto era appena successo. Rivolsi uno sguardo all’uomo che l’aveva ucciso mentre rabbia, incredulità e paura si mescolavano in egual misura.

***

Avanzai in mezzo a quella sofferenza con orrore e raccapriccio: ero un’orfana, senza un lavoro, senza altre capacità oltre alla recitazione, senza denaro, senza un posto dove dormire. Sarebbe dovuto essere quello il mio destino? Avrei dovuto vendere il mio corpo per avere un tetto sopra la testa e mangiare un tozzo di pane? Oppure anche io sarei stata risucchiata in quel vortice di malattia e sofferenza e l’unico modo per non vedere, per non sentire, per non essere consumata dolorosamente dalla fame e non accorgermi del mio corpo che sfioriva anzitempo, sarebbe stato sostituire l’alcool al sangue?

Continuai a camminare, sforzandomi di non osservare troppo attentamente ciò che capitava intorno a me, benché fossi pienamente consapevole del fatto che quelle scene strazianti stavano invece imprimendosi indelebilmente nella mia memoria.

Superai una serie di stradine che si perdevano poco lontano in un buio di pece, interrotto qua e là da pochi lampioni che parevano fluttuare sospesi in un mare d’inchiostro. Tra quelle mura di quelle case isolate, in quei vicoli stretti e bui chissà quali atrocità e mostruosi delitti, quali violenze e silenziosi soprusi venivano perpetrati nell’indifferenza e nel dolore. Accelerai il passo, consapevole di stare attirando l’attenzione: benché i miei abiti fossero piuttosto poveri e abbastanza mal messi, erano in verità fin troppo eleganti per un posto come quello, senza contare che avevo degli uomini ancora alle mie calcagna, pronti sicuramente a finire il lavoro che avevano cominciato. Se non avessi trovato il modo di sparire non sarei sopravvissuta a lungo.

***

-Oh, che peccato per la tua bella famigliola- sogghignò l’energumeno con il tono che si usa con i bambini piccoli -sembra che tu sia rimasta da sola, ma non temere, ti ricongiungerai presto a loro-

 L’uomo scoppiò a ridere e avanzò verso di me levando il coltello insanguinato. Io indietreggiai di un passo, poi mi voltai e cominciai a correre verso la porta ancora aperta e il corridoio. Sarei volata di corsa giù per le scale se l’uomo non mi avesse afferrato per i capelli e spinta contro il muro, bloccandomi con il suo corpo.

-Beh forse prima di affidarti al creatore potremmo divertirci- sussurrò lascivamente tra i miei capelli. Se anche avessi avuto ancora dei dubbi su cosa intendesse con la parola “divertirci” questi certamente scomparvero quando udii di una cintura slacciata e lo strofinio della stoffa dei calzoni che venivano abbassati.

Oh mio Dio!

Tuttavia non feci in tempo a ribellarmi che l’uomo ululò di dolore e mi lasciò andare di colpo. Mi staccai subito dal muro e vidi Will con il pugno ancora sollevato e un’espressione mista a furia e disgusto. Quando i nostri sguardi si incrociarono la rabbia lo abbandonò di colpo, abbassò il braccio e mi afferrò la mano.

-L’edificio sta cadendo a pezzi, hai trovato mamma e papà?-

L’immagine orribile dei miei genitori in un lago di sangue mi impedì di proferir verbo e la vista mi si offuscò di colpo. Quando alzai lo sguardo su Will l’angoscia e lo sgomento che gli lessi negli occhi mi dissero che aveva capito.

-Maledizione! Ci penseremo dopo, ora usciamo o bruceremo vivi!-

Ci precipitammo al piano inferiore a una velocità impossibile e, quando vi arrivammo, quanto ci si parò davanti ci costrinse a fermarci: un muro di fiamme tra noi e l’uscita, travi e assi, quadri, tende, mobili, tutto divorato dal fuoco. Tossendo e con gli occhi che lacrimavano ci facemmo strada verso una finestra che si trovava dall’altra parte della stanza. Il fumo ormai rendeva impossibile distinguere gli oggetti, ogni volta che respiravamo i polmoni sembravano in procinto di scoppiare, desiderosi com’erano di aria che puntualmente non arrivava. Il calore ci investiva a ondate, sempre più insopportabile, sempre più rovente. Sentivo la pelle che scottava,  gli occhi mi bruciavano e sembravano essi stessi emanare calore. Fummo invasi dalla disperazione quando scoprimmo che la finestra era bloccata. Mi guardai disperata alle spalle ma non vi era altra via di fuga che quella.

-Evelyn spostati!- gridò d’un tratto Will con voce roca. Mi voltai e vidi che teneva sollevata una poltrona, o quello che era una poltrona e che ora aveva assunto le sembianze di una gigantesca torcia. Feci due passi indietro e lui colpì la finestra con tutte le sue forze mandandola in frantumi. Poi scagliò la poltrona lontano e mi spinse verso l’apertura, mi mise una mano sulla testa per far sì che i vetri acuminati non mi ferissero e mi aiutò a scendere. Appena fuori, inspirai a pieni polmoni l’aria notturna che al confronto con quella che avevo respirato fino a quel momento mi parve gelida. Un attimo dopo anche Will mi raggiunse fuori, tossendo violentemente e respirando con affanno. Due uomini sbucarono di colpo da destra, correndoci incontro. Will mi prese per mano e insieme ci avviammo alla maggiore velocità che le nostre gambe potevano consentirci ma eravamo deboli e i nostri polmoni saturi di fumo. Dopo una ventina di metri, malgrado fossimo entrambi allenati a correre assai più velocemente di così, ci fu evidente che non avremmo mai potuto farcela. Di colpo Will si arrestò.

-Corri, Evelyn!- mi urlò, gli uomini a pochi metri da noi.

-No, che stai facendo, vieni!- strillai in preda al panico.

-Scappa! Ora!- gridò tirando fuori un pugnale, di cui non conoscevo neanche l’esistenza, da una manica. Gli obbedii ma dopo poco mi fermai, incapace di abbandonarlo. Sapeva combattere, non so dove l’avesse imparato, ma non fu sufficiente. Fece una affondo che uno dei due uomini sfruttò a suo vantaggio balzandogli alle spalle e affondandogli il coltello nella schiena. Io strillai quasi avessero colpito me ma la voce mi vene meno quando l’altro lo afferrò per i capelli e gli tagliò la gola. Mi ero coperta la bocca con la mano in un vano tentativo di soffocare il dolore che mi aveva trafitto come quel pugnale aveva fatto con lui. Il mio Will.

I due si voltarono nella mia direzione e presero ad avanzare.

-Corri!- gridò la mia testa. Io mi voltai di scatto e le obbedii, perché aveva urlato con la voce di Will, il mio migliore amico, mio fratello.

***

Gli sguardi incuriositi della gente mi trafiggevano come lame, ogni occhiata un muto e al contempo assordante grido di allarme che evidenziava la mia posizione come se l’avessi urlata. Il panico mi invase assieme a un odore pesante e sgradevole: il Tamigi reclamava a gran voce attenzione.

Imboccai una stradina a caso e seguii il mio naso cominciando a correre, come se il fiume, nel suo continuo incedere, avesse potuto portare via con sé anche i miei problemi. Raggiunsi una stradina che si piegava ad angolo acuto rispetto alla strada principale e dalla quale era possibile distinguere un argentato luccichio; non mi curai del buio che mi avvolse, ma anzi lo presi come un invito, come un mantello in grado di coprirmi, di nascondermi agli occhi dei miei nemici. Camminai finchè non giunsi al termine della stradina: magazzini si aprivano a intervalli regolari non lontano dalle banchine e uomini di tutte le età e stature ne uscivano trasportando casse e sacchi fino alle navi ancorate nei loro pressi e poi nuovamente dalle stive di carico al molo. Due marinai mi passarono accanto e io li seguii con lo sguardo fino a quando non raggiunsero una tozza nave mercantile ancorata non lontano dal punto in cui mi trovavo, probabilmente pronta a partire nel giro di uno o due giorni. Fu allora che un’idea folle, sicuramente frutto del terribile spavento e dello shock che avevo subito, si impossessò di me. Mi avvicinai alla nave sperando di intravvedere qualcuno che assomigliasse al capitano ed ebbi fortuna: un uomo di mezza età con baffi spioventi e folti favoriti color piombo stava esaminando un registro alla luce di una lanterna; la  redingote color ruggine e gli abiti di buona fattura che l’ accompagnavano mi fecero supporre di non dovermi spingere in qualche taverna malfamata del porto per trovare ciò che stavo cercando.

-Il capitano?- lo apostrofai incerta. L’uomo sollevò gli occhi dal registro e mi squadrò con volto corrucciato.

-Sono io. Cosa vuoi, giovanotto?-

-Sono in cerca di un impiego e dei ragazzi giù da Tom mi hanno detto che la vostra nave è in partenza, signore!- risposi guardandolo dritto negli occhi.

Non esisteva alcun Tom ovviamente, ma l’esperienza  mi aveva insegnato che il confine tra una bugia e una plausibile verità è tanto più labile quanto maggiore è la sicurezza sfoggiata. Il capitano mi squadrò dalla testa ai piedi prima di degnarmi di una risposta.

-Che cosa sai fare?- chiese infine.

-Non molto a dire il vero, ma so arrampicarmi ovunque e posso svolgere qualunque lavoro manuale vogliate assegnarmi-

Purtroppo non era la risposta migliore che potessi dargli: l’uomo mi guardò stralunato per qualche secondo come se lo stessi prendendo in giro infine scosse la testa.

-A me serve un uomo di mare, non una scimmia! Sparisci, trovati altro da fare-

-Prenderò solo mezza paga!- esclamai disperata: dovevo allontanarmi dall’Inghilterra e se per farlo avessi dovuto sgobbare quasi gratuitamente l’avrei fatto senza lamentarmi.

Il capitano mi guardò per un lungo istante poi sogghignò.

 -Di’ la verità, vuoi sparire non è vero?- poi aggiunse subito -ti farò salire a bordo ma scatterai quando lo dico io e a un quarto di paga-

Non mi rimase che accettare.

-Molto bene, così mi piaci! La Providence salperà per Boston domattina all’alba: vedi di essere puntuale, giovanotto, perché non ti aspetterò di certo!-

Detto questo, tornò a studiare il suo registro senza degnarmi di uno sguardo, lasciando chiaramente intendere che per lui il colloquio era finito. Mi voltai e feci per scendere sulla banchina quando la sua voce mi fece voltare nuovamente.

-Un momento! Come ti chiami, ragazzo?-

Ci pensai per meno di una frazione di secondo.

 -Jones. Mi chiamo Oliver Jones-

                                                              ***

Passai tutta la notte a camminare come un’anima dannata in giro per il porto, un po’ perché non avevo un soldo bucato con me, un po’ perché la sola idea di addormentarmi e rischiare di perdere la nave mi faceva stare con gli occhi sbarrati e mi privava di ogni oncia di sonno. Solo quando la noia mi impose di infilarmi in qualche stradina nelle vicinanze mi imbattei in una chiesa con l’ora ben visibile sull’orologio del campanile: le tre e mezza. Mancavano poche ore all’alba.

Dal canto mio controllavo il cielo continuamente, in attesa che quel nero pece sbiadisse almeno un po’ e le stelle sembrassero un po’ meno luminose. Le strade erano deserte e il porto un po’ meno caotico benchè l’attività costante che lo distingueva dalle altre parti della città non accennasse completamente ad arrestarsi: le ultime merci destinate alle navi in partenza venivano rapidamente caricate e la musica proveniente dai locali malfamati nelle vicinanze, dove i marinai trovavano ristoro tra un viaggio e l’altro, non sembrava diminuire in intensità. Dopo quella che mi parve un’eternità, finalmente il cielo cominciò a tingersi di un indaco molto scuro e io sentii sollievo misto ad agitazione invadermi il petto e farmi accelerare il battito cardiaco. Ritornai in fretta al porto e mi diressi verso la Providence, la quale dondolava piano sulle onde quasi fosse impaziente di veleggiare verso l’oceano. Sembrava che non ci fosse nessuno sulla nave: dal punto in cui mi trovavo il ponte appariva deserto e tutto lasciava supporre che l’equipaggio fosse ancora distribuito nelle varie locande a smaltire la sbornia.

Stavo per andare a sedermi sulla banchina quando un tizio con la redingote marrone emerse di colpo dalla stiva: era giovane, non gli avrei dato più di trent’anni, e il suo grado non doveva essere troppo inferiore a quello del capitano dal momento che si aggirava da solo per la nave come se nulla fosse.

-Scusatemi, signore, posso già salire?- provai ad apostrofarlo dopo che mi ebbe ignorato per due minuti buoni. Mi squadrò con sufficienza e storse la bocca.

 -Il tuo nome, ragazzo?- chiese, prendendo un registro da una cassa abbandonata sul ponte in attesa di una sistemazione migliore.

 -Oliver Jones, signore- pigolai. Per un attimo si affacciò nella mia mente il timore che il capitano si fosse dimenticato di segnarmi: in quel caso avrei dovuto attendere il suo arrivo e sperare che si ricordasse della mia faccia osservata al buio e per pochi secondi, dal momento che non volevo illudermi sul fatto che si ricordasse il nome falso che gli avevo dato. Cercai di darmi una calmata e di non lasciarmi prendere dal panico mentre l’uomo scorreva l’elenco con gli occhi.

 -Ah eccolo, Oliver Jones- esclamò quando giunse al fondo. Mi permisi di lasciarmi invadere dal sollievo mentre mentalmente mi davo dell’idiota per non aver previsto di essere stata segnata per ultima, vista l’ora alla quale mi ero arruolata.

 -Vieni pure su- mi esortò mentre appoggiava di nuovo il registro sulla cassa. Non me lo feci ripetere due volte: felice e contenta cominciai a salire.

 -Che accidenti stai facendo?- mi urlò l’uomo di colpo. Sbiancai e allargai le braccia confusa: cosa stavo facendo di male?

 -Si sale sempre col piede destro su una nave, mai con il sinistro, porta male!- mi spiegò spazientito e scandalizzato  -dove accidenti hai vissuto finora?-

“Non nel Medioevo” avrei voluto rispondergli ma dal momento che avevo bisogno di rimanere su quella nave decisi di ingoiare quel commento.

 -Domando scusa signore- dissi monocorde. Lui grugnì una risposta maleducata e sparì sottocoperta e io, che sono una persona ragionevole ed educata, salii sulla passerella col piede sinistro. Non me ne intendevo un gran che di navi e non sapevo come si chiamava la maggior parte degli strani oggetti che vedevo mentre mi aggiravo curiosa sul ponte. Contai una decina di cannoni, cinque a destra e cinque a sinistra, tutti legati al ponte con nodi impossibili. Tre alberi si elevavano alti, le vele ben ripiegate e legate ciascuna a un’asta perpendicolare all’albero e sulla cui cima vi era una specie di gabbia alla quale si poteva accedere per mezzo di un sistema di corde intrecciate a rete.

 -Hai finito il giro panoramico, Oliver?- mi rimbrottò l’uomo di prima salendo le scale che portavano alla stiva  -Perché ci sarebbe del lavoro da fare qua, a meno che tu non sia stato ingaggiato dal capitano per contare le assi del ponte- sogghignò sarcastico.

 “Per carità, non sono mica qui per soffiarti il lavoro” pensai di dirgli, anche se alla fine mi limitai a un –Arrivo subito, signore- che mi sforzai di non far apparire troppo scocciato. L’uomo mi condusse attraverso corridoi angusti fino alla stiva di carico.

-Porta qua le ultime casse, controlla che tutte siano assicurate bene e i nodi siano solidi. Se non lo sono, falli di nuovo. A gassa d’amante andrà più che bene- ordinò sgarbato, poi mi lasciò lì impalata con la bocca semiaperta e la certezza che mi avesse parlato in quel modo per il puro gusto di mettermi in difficoltà. Tornai indietro cercando le casse e quando le trovai mi venne da piangere: non avrebbero potuto avere un’aria più pesante. Ne sollevai una e me la portai appresso con fatica, trascinandola per ampi tratti a schiena curva e fermandomi più volte senza fiato, mentre nella mia mente si faceva strada l’idea che non sarei sopravvissuta neppure a quella giornata. Giunsi nella stiva di carico dopo diversi minuti e lasciai cadere la cassa vicino alle altre, rimettendoci quasi l’alluce. Mi tirai su con un sospiro sofferente e tornai indietro a prendere le altre. Feci su e giù sette volte e, quando ebbi finito, le braccia mi dolevano terribilmente e dalla schiena provenivano fitte dolorose che mi costrinsero a rimanere curva per qualche secondo. Gattonai fino a una cima arrotolata lì vicino e avvolsi le casse strettamente rimanendo poi ferma in piedi con i due capi in mano e un’espressione certamente ebete stampata in faccia.

“Gassa d’amante” pensai, senza avere la più pallida idea di che cosa volesse dire.

-Lascia smilzo, faccio io- brontolò burbero qualcuno alle mie spalle, poi una manona abbronzata mi si appoggiò sulla spalla e mi scostò non proprio delicatamente. Al mio fianco si stagliò un omone con la mascella quadrata e un paio di bicipiti che avrebbero fatto impallidire un pugile di professione. Diede una manata alla pila di casse raddrizzandole come se fossero state portagioie, poi tirò le corde e le avvolse ancora con la maestria di chi maneggia quella roba da una vita. Si voltò a metà verso di me e mi fece cenno con la testa di guardare: formò un occhiello con la corda, vi fece passare dentro un capo formando un altro occhiello dopo averlo fatto passare dietro al dormiente e infine strinse tirando. Non sembrava difficile. Presi l’altro capo e feci lo stesso imitando ogni sua mossa. L’uomo grugnì con approvazione.

 -Impari in fretta almeno! Come ti chiami?-

 -Oliver Jones. E tu?- L’uomo gonfiò i pettorali immensi e raddrizzò le spalle.

 -Joseph Randall. Ma tutti qui mi chiamano Joe- aggiunse agitando la manona. Poi mi guardò con simpatia incrociando le braccia sul petto.

 -Sei nuovo, immagino, eh smilzo?- mi chiese l’armadio -non hai l’aspetto di un lupo di mare-

 -Decisamente no- ne convenni io scuotendo la testa -non ho mai messo piede su una nave!-

L’uomo annuì con la faccia di chi la sa lunga.

 -Allora ti toccheranno i lavori più faticosi, smilzo. E se non impari in fretta anche le prese per il culo della ciurma- mi squadrò un momento  -Di’ un po’, quanti anni hai?-

 -Quattordici!- esclamai, fingendomi orgogliosa della mia grande età, come farebbe un qualsiasi adolescente di questo mondo. In verità ne avevo diciassette, ma con la voce che mi ritrovavo avrei potuto impersonare solo un ragazzino. Come avevo pensato l’uomo scoppiò a ridere.

 -Ne hai di strada da fare, smilzo! Sai almeno arrampicarti velocemente?- mi chiese.

 -Oh sì, quello so decisamente farlo!- esclamai con un ghigno. Sì, ero un portento, poteva scommetterci! Avevo passato la mia infanzia a correre da una parte all’altra del palco, arrampicandomi in ogni dove, infilandomi in ogni pertugio per sgusciare fuori e correre sui tetti della città assieme a mio cugino.

Già Will.

Ancora vedevo il suo sguardo agguerrito e disperato mentre mi urlava di correre via, si voltava e fronteggiava i suoi nemici che gli tagliavano la gola dopo una decina di secondi. Sbattei le palpebre e tornai al presente, per non scoppiare a piangere di fronte a Joe.

 -Beh, non è una brutta cosa immagino- borbottò improvvisamente distratto, poi aggiunse -Se qua non c’è altro da fare dovremmo andare di sopra, non vorrai perderti la tua prima partenza?- mi fece l’occhiolino e mi diede una manata sulla schiena per incitarmi a salire sopraccoperta e che per miracolo non mi ruotò il costato di centottanta gradi. Quando riemergemmo il ponte non era più così deserto: uomini di tutte le età e stature, ma immancabilmente con un aspetto che avrei definito poco raccomandabile, si affaccendavano da una parte all’altra arrampicandosi sugli alberi per mezzo di corde o correndo da poppa a prua concentrati in chissà quale compito. In mezzo alla nave c’era il tizio con la redingote marrone che mi aveva fatto salire, intento a inveire contro chiunque gli capitasse a tiro e a sbraitare ordini.

 -Immagino tu abbia già conosciuto il quartiermastro, il signor Blackstone. Simpatico come la sabbia nelle mutande- commentò burbero Joe -ma in questa vita è il secondo del capitano Smythe e a noialtri tocca obbedirgli- aggiunse con un’occhiata minacciosa nella sua direzione. Ora che me l’aveva fatto notare vidi che erano parecchi gli uomini dell’equipaggio che gli riservavano occhiate astiose e gli rispondevano tra i denti.

 -C’è qualcuno che lo trova sopportabile?- gli chiesi. Joe ridacchiò.

 -Nessuno lo vuole qua: arrogante e con la puzza sotto al naso con la ciurma, leccaculo e viscido con il capitano. Ogni volta che gli rivolge la parola Smythe trova sempre una scusa per sbolognarlo- ghignò il mio nuovo amico -il capitano invece è un altro bel fiorellino: bizzoso e vigliacco, pessima accoppiata. A meno che tu non ti metta tra lui e il denaro, in quel caso ti mangia vivo, o almeno ci prova. Basta poco per rimetterlo in riga. Che bella coppia di comari, eh?- concluse Joe sputando fuori dalla nave con disprezzo.

 -Gli hai presentato i nostri pezzi da novanta, Joe?- chiese all’improvviso un uomo sbucato da sopra le nostre teste  -non dovresti spaventare i bambini, magari in due mesi di traversata non si accorgeva di nulla!- aggiunse saltando da un punto imprecisato dell’albero dritto davanti a noi.

 -Sam, figlio di puttana, pensavo che l’alcool ti avesse ucciso!- esclamò Joe sghignazzando.

 -Sono in ottima forma, pezzo di merda, e tua madre può testimoniarlo!- urlò Sam al mio amico.

Dopo questi splendidi convenevoli si strinsero in un abbraccio virile battendosi poderose pacche sulla schiena.

 -Anche tu parte del gioco, eh?- gli fece Joe quando si furono separati.

 -Non potrei mai perdermi una traversata con Joe Pugnodiferro Randall!- gli rispose Sam dandogli un pugno amichevole sulla spalla, giusto per ribadire il concetto.

 -Sempre a prendere per il culo!- rise Joe -Vieni ti presento una giovane recluta. Questo è Oliver Jones. Smilzo, questi è Sam Gambalunga Carson, il marinaio più veloce dei sette mari!-

Gli strinsi la mano.

-Staremo a vedere!- sorrisi sfidandolo

 -Ehi, il topolino ha fegato! Bene, bene lo vedremo davvero!- mi rispose Sam stritolandomi la mano. Io a mia volta strinsi più che potei senza staccare lo sguardo dal suo.

 -E ha anche una bella stretta! Mi piaci, Oliver, hai la stoffa del duro!- detto questo, si congedò tornando alle sue attività ma non prima di avermi dato un’altra pacca sulla schiena che probabilmente raddrizzò ciò che Joe mi aveva piegato. Ci appoggiammo al parapetto e guardammo in basso il porto che andava animandosi sempre più a mano a mano che i raggi del sole si facevano sempre meno timidi: in quel momento, una luce di un intenso arancione, in grado di accecare chiunque si fosse voltato verso la poppa rivolta ad est, investiva i numerosi commercianti che a quell’ora del mattino stavano cominciando a sistemare le loro merci sulle bancarelle e i pescherecci che tornavano dal largo per vendere il frutto di un’intera notte passata a gettare e ritirare reti.

 -L’umanità si sveglia e noi ci apprestiamo a salpare!- esclamai io, sopraffatta dalla vista di un cielo limpido come non mai e sollevata per essermi lasciata ogni pericolo alle spalle. Joe accolse il mio commento con un ghigno sarcastico.

-Sulla partenza non sarei esattamente d’accordo: il capitano sta passeggiando sulla banchina da un quarto d’ora sbuffando come una baleniera. Stiamo chiaramente aspettando qualcuno che non vale la pena di lasciare a terra. Prevedo scocciature a non finire- ghignò Joe. Non poteva immaginare quanto avesse ragione
   
 
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