CAPITOLO 1
In cui il cielo offre
una soluzione non
convenzionale e Brian ne capisce ben poco
La nonna si era
impegnata tutta la sua vita per dare ai propri nipoti sani principi e
valori
saldi su cui crescere e, se c’era una cosa in cui aveva
sempre creduto
fermamente, era che il cielo avrebbe provveduto.
Lo aveva sempre
ripetuto come un mantra, spesso alzando gli occhi al cielo e poi
sorridendo
sicura ai nipotini dubbiosi.
Non che la
nonna fosse stata una persona particolarmente religiosa, al contrario.
Nel corso della
sua vita, dopo aver vissuto molti momenti difficili e molti dolori,
aveva
abbandonato la fede cristiana, per avvicinarsi a una religione
personale, uno
strano mix di animismo, wikka e credenze popolari.
La nonna
credeva negli spiriti delle cose, credeva che la forza da rispettare
fosse
Madre Natura, credeva che se fai una buona azione, questa
ritornerà. Il
karma.
Si vestiva con
fibre naturali dei colori del bosco, intrecciava fiori tra i capelli e
cantava
alle piante. Gestiva con
orgoglio l’antica fioreria e vivaio di famiglia (era
lì da generazioni) e, nel
tempo libero, leggeva tazzine di caffè e tarocchi.
Per questo,
quando era in difficoltà, chiudeva gli occhi e
sperava che qualcuno
(qualcosa) lassù la sentisse e facesse piovere
qualche soluzione. Un po’
più di
pioggia, o i fiori non saranno belli come l’anno scorso; un
po’ più di sole, per
rafforzare le piante. Solitamente veniva accontentata.
Dopo la morte
della nonna, era rimasta al negozio. Aveva ereditato
la passione per fiori, alberi e qualsiasi cosa facesse la fotosintesi
tranne,
forse, le alghe, anche se bisognava ammettere che anche loro erano, a
loro
modo, carine. Un po’ viscide,
forse.
Aveva insistito
perché suo fratello non cambiasse i propri piani e andasse a
studiare nella
città vicina e ora, nonostante le mancasse molto, si riteneva felice,
soddisfatta.
Tutto sommato
viveva una vita tranquilla, isolata, lontana dal rumore e dalla
frenesia.
Si teneva in
contatto con le persone che le interessavano, chiacchierava
puntualmente con
suo fratello, non amava la folla, o le persone in generale, preferiva
la
compagnia delle piante, i suoni della campagna, i suoi gatti.
Le piante, le
poteva capire: i loro bisogni, i loro problemi, come curarle. Gli
uomini?
Tutt’altro discorso.
Non le piaceva
perdersi in chiacchiere inutili: le parole erano abusate, per esprimere
i
concetti bastava poco.Cercava di
mantenere la calma, di usare la logica, affrontando ogni problema con
lucidità
e razionalità.
Eppure, ora,
trovare una soluzione sembrava difficile perché i problemi,
come sempre fanno, si erano accavallati gli
uni sugli altri.
A fine
Settembre.
Senza contare
che qualche giorno prima c’era stato un temporale molto
violento e il ramo del
platano piantato sulla strada davanti al suo negozio era stato
strappato via
dal vento, cadendo sulla serra principale e rovinandola
inesorabilmente. A pensarci non
sapeva se strapparsi i capelli per la serra o mettersi
piangere per il platano.
Insomma, era
ormai Ottobre inoltrato, l'inverno alle porte, e sperava veramente che
qualcuno la aiutasse perché e
per il momento era sola a gestire l’enorme vivaio.
Inutile dire
che era tremendamente indietro con le preparazioni invernali, con una
serra
da riparare in qualche modo, le piante da proteggere, le aiuole da
risistmare e, a dirla tutta, non aveva nessuno a cui chiedere
(non poteva certo disturbare suo fratello): ciò di cui aveva
bisogno era,
letteralmente, un aiuto dal cielo.
Ma, forse, era
chiedere troppo, perché, nonostante le sue richieste, nulla
era accaduto e ora
si trovava a notte fonda, in pigiama, a dover correre, da sola, sul
retro, per
chiudere il tetto della piccola veranda-trasformata-in-serra dei cactus.
Il tetto era
in
vetro trasparente, e poteva scorrere e aprirsi. Quel pomeriggio ne
aveva
approfittato perché le piante grasse potessero godere degli
ultimi raggi di sole
e, persa al telefono con il Comune (il ramo di quel platano
l’avrebbe
perseguitata), se ne era dimenticata.
Ora era ormai
buio, la pioggia veniva giù a secchiate e lei si domandava
se almeno una
cosa potesse andarle bene. Una. Non
chiedeva tanto.
Rucola
l’aveva
seguita nella sua corsa verso la veranda e ora, rimanendo sulla porta
(comodamente all’asciutto), la guardava con sufficienza.
Improvvisamente,
un tonfo.
Viola alzò gli occhi al cielo con orrore (non un
altro ramo, non
un altro ramo, ti prego) mentre un’ombra indistinta
piombava sul tetto
facendo tremare i vetri e scivolava inesorabilmente sulla superficie
bagnata
del tetto spiovente.
Fino
all’apertura.
Per atterrare
con malagrazia dentro, sulla yucca.
Non era
possibile. Amava quella pianta. L’aveva cresciuta con amore.
Con uno
scatto
finì di chiudere il tetto e si precipitò verso la
pianta, scansando con
malagrazia la cosa che le aveva appena rovinato la
serata (e, forse, la
pianta).
Grazie al cielo
la yucca era stata presa di striscio, e solo alcune foglie erano state
danneggiate.
Ma, comunque.
Arricciò
il
naso, un gesto, per
lei, solitamente
così dosata, profondo segno di irritazione e, giusto per
essere sicura, storse
anche la bocca. Si voltò verso
la causa dei suoi mali.
Sul pavimento della sua veranda, miracolosamente atterrato nello spazio vuoto tra la yucca e il largo vaso con la numerosa famiglia di Uebelmannia (la famiglia Spinoselli, come la chiamava lei) stava un uomo.
Al momento
era
intento a massaggiarsi la zona lombare, grondava acqua come un pulcino
bagnato,
l’impermeabile che indossava nero dalla pioggia e
appicciacato al corpo. I capelli,
scuri e zuppi, stavano attaccati alla testa e gli coprivano gli occhi. Molto sospetto.
Viola guardò con disapprovazione tutta l’acqua sul pavimento e poi cercò conforto negli occhi di Rucola alla porta. Due paia d’occhi le restituirono lo sguardo: alla prima gatta si era aggiunto anche Ravanello e ora entrambi guardavano lei e l’estraneo con regale curiosità.
Rendendosi
conto di essere osservato, l’uomo in questione
alzò la testa, scostandosi la
frangia dagli occhi (le punte dei capelli bagnati rimasero a puntare al
cielo,
come una cresta, o una leccata di mucca) e si voltò a
guardarla, sorridendo.
Viola non si scompose. Ma alzò un sopracciglio con disapprovazione.
“Cosa ci
fai
qua?” chiese perentoria.
Lui si
passò
una mano tra i capelli fradici, mentre dalla manica
dell’impermeabile zuppo cadevano
tante goccioline d’acqua.
Tossì.
“Ehm…
una
passegiata sui tetti?” chiese titubante, sorridendo.
Aveva le
fossette. Viola socchiuse gli occhi, ancora più indisposta.
“Cioè,
lo so
che sembro un ladro e forse anche un maniaco, ma passavo per caso e
sono
scivolato, davvero, e neanche volevo entrare qui. Lo giuro! Non mi
guardare
così! Sai, penso di essermi essermi fatto un po’
male.
Comunque,
ripeto, non ho cattive intenzioni, te lo giuro, ma posso
stare qui finché
non smette di piovere? Per favore? Perché fuori fa freddo e
anche un po’ paura;
e piove, ci sono i lampi e il vento e non so dove andare.
La guardò
con
occhi imploranti, da cucciolo. Da cucciolo bagnato, per la precisione.
Viola chiuse
gli occhi, portandosi una mano alla radice del naso. Perché
parlava così tanto?
E così veloce? Gesticolando. Facendo schizzare
l’acqua dappertutto.
Sulla veranda
era calato il silenzio, e fuori la pioggia continuava a cadere senza
tregua,
uno scroscio indistinto.
I gatti
continuavano a giudicare dal loro angolo.
L’uomo
sorrideva.
Viola lo
squadrava.
A un certo
punto lui parve rianimarsi, come scosso da un’epifania
improvvisa. “Non mi sono
presentato! Scusa, eh! Sono Brian, piacere!”.
Viola non
commentò, guardando accigliata la sua mano tesa.
Poi, improvvisamente,
tutto ebbe
senso.
Un uomo piovuto dal cielo.
La risposta ai suoi
problemi!
Prima di
stringergli la mano guardò in alto, verso il buio, verso le
nuvole e l’ignoto.
“Viola. Incantata. Dimmi Brian, non è che sei pratico di giardinaggio?”.
***
Brian aveva
avuto la gioia di convivere con Viola per circa un mese. Urgeva fare un
punto
della situazione.
Si era sempre
ritenuto una persona comprensiva. Non aveva mai
avuto problemi a farsi amici ed era aperto e solare, gli piaceva stare
in
compagnia, circondato dalle persone.
E il problema
stava proprio qui.
C’erano
tanti
piccoli dettagli di lei che lo facevano impazzire, perché
cercava di metterli
insieme per ricomporre
l’immagine originale ma, nonostante gli sforzi, non riusciva
ad afferrarla.
Oltre a dover
riparare la serra, bisognava raccogliere certi bulbi, metterne a dimora
altri
(qualsiasi cosa questo volesse dire), zappare le aiuole prima delle
gelate,
riparare piante, mettere a riposo le rose e innumerevoli altre cose per
lui
assolutamente incomprensibili, tutte appuntate diligentemente su una
lista di
cartoncino verde che Brian aveva appeso di fianco al divano su cui
dormiva.
Ogni sera si premurava di depennare le cose che aveva (o credeva di
avere)
fatto.
Per il resto,
Viola non era particolarmente loquace.
Bisogna
capire
che Brian non sopportava il silenzio. Sua madre, un’estrosa e
stravagante
signora di Glasgow, gli aveva tramandato uno spirito indomito e la
passione per
i viaggi e le conversazioni. E anche quella per il calcio, in
realtà, anche se
ora non c’entrava.
Per questo, non
solo voleva riempire i silenzi, ma lo faceva anche con immensa gioia.
Certo,
non poteva rivelare troppo sulle condizioni (per quanto deliziosamente
tragicomiche e certamente
meritevoli di essere raccontate) che lo avevano portato a piombare dal
cielo in
una serra per cactus, ma aveva altri modi per riempire i silenzi:
preferenze
personali, ricordi d’infanzia, apprezzamenti del giardino
(questi erano i suoi
preferiti perché portavano sempre sul viso di Viola una
malcelata gioia).
Quando aveva
chiesto a Viola se le sue chiacchiere la disturbassero, lei lo aveva
guardato
inclinando leggermente la testa e, tutta seria e compunta, gli aveva
chiesto
“Se non rispondo, smetti?”. Lui, per quanto
spiazzato, le aveva risposto
negativamente e allora lei gli aveva donato un piccolo sorriso,
rispondendo
“Allora parla pure quanto vuoi”.
E Brian era
veramente fiero di sé per essere riuscito a strapparle
questa manifestazione di
piacere (poco contava che, quando ci ripensava, arrossiva e sembrava
perdere
l’uso della parola).
Nonostante un
sorriso in sé non fosse gran cosa, un’altra delle
caratteristiche che rendevano
Viola assolutamente incredibile, era che il suo viso era sempre
impassibile,
riflessivo e serio.
A cosa
pensava,
poi?
Una leggera
(e,
onestamente, adorabile) arricciatura del naso significava fastidio e si
manifestava, ahimé, a certe sue battute, allo squillo del
telefono, al ramo
che, mestamente, se ne stava ancora in mezzo alla serra sfasciata.
Brian la
studiava con fascinazione, di nascosto, quando affiancati raccoglievano
i bulbi
delle dalie e lui cercava di non farsi notare mentre osservando lo
sbaffo di
terra sul suo zigomo o il reticolo che l’ombra delle sue
ciglia proiettava
sulle guance arrossate dal freddo.
E le
lentiggini. Le lentiggini! Erano deliziose e, per quanto melenso e
assolutamente sdolcinato, avrebbe voluto seguirle con le dita
e
tracciare costellazioni sulla sua pelle.
E poi,
bruscamente, si fermava, bacchettandosi mentalmente, perché
no, non ne voleva
sapere, aveva già abbastanza gatte da pelare
così, grazie tante.
Altro punto
degno di nota dopo questo mese di convivenza erano i gatti di
Viola.
Rucola e
Ravanello, sempre insieme, sempre in mezzo ai piedi. Sempre a guardarlo
con
sospetto e superiorità, appollaiati in tutti i luoghi
più improbabili: in cima
alla credenza, sulle mensole del negozio, sul tetto della rimessa.
Oltre a loro
c’era Ranuncolo, un gatto più largo che alto che
passava le sue giornate a
dormire, sia nella cesta in negozio, sia sul dondolo in veranda, sia
(con sua
grande irritazione) sul suo letto posticcio.
Grazie al
cielo
non era allergico.
Viola sembrava
avere con i suoi gatti un rapporto esclusivo, fatto di comprensione e
riguardo. Com’era
possibile per lei avere un rapporto civile con le stesse creature che
guardavano lui con disprezzo, nonostante non avesse fatto loro nulla di
male? I
misteri.
Tanto lui
preferiva i cani. Gnè gnè.
Fatto sta che
lui si era abituato alla tranquilla quotidianità che lei gli
aveva offerto:
dormiva nel retro del negozio, collegato alla fatidica serra in cui era
caduto,
su un divano insapettatamente comodo, mentre la casa di Viola era al
primo
piano.
Ogni mattina,
puntuale come un orologio svizzero, Viola, accompagnata dalle due palle
di pelo
(e unghie), lo svegliava.
Bussava alla
porta con discrezione e poi, dopo aver ricevuto il via libera con un
grugnito
di risposta, entrava e scostava le tende con decisione.
Solitamente
teneva i capelli rossicci raccolti in una treccia e indossava abiti da
lavoro:
vecchi jeans, salopette, maglioni dai colori del bosco: verde scuro,
rosso,
crema, marrone.
Dopo avergli
dato il buongiorno risaliva, lasciandogli il tempo di vestirsi e di
togliersi
il sonno di dosso.
Quando era
arrivato non aveva nulla se non gli abiti che indossava ma, per
l’ennesima fortuna,
Viola aveva un fratello che apparentemente studiava nella
città vicina, e
quindi lui metteva i suoi vestiti. Il fratello
doveva essere più alto ed esile di lui, ma i vestiti erano
principalmente da
lavoro e quindi, se erano stati larghi al fratello, a lui andavano
abbastanza
bene.
Quindi saliva
le scale, venendo accolto nella cucina, dove Viola faceva colazione con
lui.
Lui ne
approfittava per uscire: voleva concludere i suoi lavori il prima
possibile,
prendersi i giusti meriti e lavarsene le mani.
Un'altra cosa
era sicuramente degna di nota: la casa e la cucina Viola erano entrambe
assolutamente deliziose.
La casa era
vecchia
e gli interni avevano un nota antica e rustica, con muri dai colori
caldi,
mobili in legno pesante, travi a vista, finestre ampie e luminose,
l’angolo del
lavello piastrellato con motivi blu e bianchi. Cerano molti tappeti,
ninnoli
luccicanti, strane pietre e cristalli dappertutto, tende dai colori
importanti
e, ovviamente, piante.
Molte piante.
In vaso, per
terra, sulle mensole, pendenti da ganci sul soffitto. Nel complesso era
affascinante e ipnotico, la casa risultava vissuta e non disordinata;
per lui,
che considerava la casa come un luogo transitorio, in cui dormire prima
di
tornare al lavoro, era certamente una sensazione nuova e benaccolta.
Brian non
aveva
potuto rubare molti angoli della casa, dato che dopo la colazione
andavano
subito in giardino, ma fissava spesso la grande foto appesa tra una
vetrina che conteneva
piatti colorati e la dispensa.
La bambina
teneva per mano quello che senza ombra di dubbio era il suo fratellino
perché,
nonostante gli occhi, di un blu incredibile, quasi lilla, quelli di
lui, color
nocciola quelli di lei, aveva gli stessi capelli rossicci, le stesse
lentiggini
e la stessa espressione concentrata, ma intenta a guardare oltre la
cornice.
La
somiglianza
era notevole e Viola lo teneva stretto, come preoccupata che lui
scappasse
oltre il bordo.
Dietro di loro,
con le mani sulle loro spalle, stava un’anziana signora che
sorrideva benevola,
come se stesse trattenendo a stento un risata. I capelli sembravano un
nuvola
argentea ed erano intrecciati con fiori e fili di perline; la donna
portava
numerose collane e indossava un abito verde come l’edera e
uno scialle di lana.
Brian moriva
dalla voglia di chiedere dettagli, ma si tratteneva (seppure a stento).
Anche oggi,
cercando di concentrarsi sulla sua colazione, latte e cereali,
non riusciva a fare a meno di
lanciare occhiate fugaci alla bambina della foto.
“Cosa
guardi?”
Brian
sobbalzò,
sentendo la voce di Viola rompere inaspettatamente il silenzio.
“Quella
foto”
indicò, optando per la sincerità. Anche
perché, diciamocelo, voleva togliersi
il dubbio. “È molto bella. Chi sono?”
Lei lo
guardò
per un momento prima di ritornare a concentrarsi sul pane imburrato.
“La
mia
famiglia” rispose con un sospiro. “Io, mio
fratello, e la nonna. Lui, come ti
ho detto, è via per l’università, lei
è morta due anni fa”.
Brian si
sentì
improvvisamente in imbarazzo e a corto di parole, soprattutto
perché lei si
rifiutava di guardarlo negli occhi, continuando imperterrita a
imburrare la sua
fetta di pane caldo.
“Sai, io
non ho
mai conosciuto mio padre”. Dirlo gli uscì naturale
e, nonostante sentisse un
leggero calore alle guance, rifiutò categoricamente
l’idea di stare arrossendo.
“Sì,
mia madre
mi ha avuto a diciannove anni. Quando lo disse a mio padre, che allora
era il
suo ragazzo, lui le disse che le sarebbe stato vicino, ma invece
sparì poco
dopo. Non l'ha più visto né sentito. Anche i
rapporti con i miei nonni non erano dei migliori.
Così lei
chiese
loro dei soldi, una specie di buona uscita, e levò le tende.
Ci credi? Era
incinta e sola, e mollò tutto per venire in Italia. E la
cosa più strana?
Lei per un
po’
fece tutti i tipi di lavori che le passavano sottomano, puliva, lavava,
con i
soldi dei nonni comprò un appartamentino, il resto lo mise d
parte.
Dopo un po'
cominciò a
interessarsi al cucito, inizialmente perché pensava che
così avrebbe potuto
risparmiare sui vestiti, ma la signora Mirella, la sarta, che ci aveva
preso in
simpatia, notò del talento e cominciò a
insegnarle.
Insomma, senza
fartela troppo lunga, adesso
la signora Mirella non riuscirebbe a centrare la cruna
dell’ago neanche con un
binocolo e allora la mamma ha ereditato la sua butique.
Guadagna, fa
ciò che le piace e può viaggiare. E le piace
spedire cartoline ai nonni!
Perché
loro trovano ancora scandaloso che non si sia sposata e che, tra tutte
le cose,
faccia la sarta” Brian fece spallucce,
perché, se prima aveva parlato a
ruota libera, improvvisamente si era reso conto di aver raccontato
qualcosa di
alquanto personale “ma va bene così. È
felice. Siamo felici. Prendiamo il tè
insieme e ridiamo pensando alle loro espressioni” concluse
imbarazzato,
grattandosi la nuca e guardandola di sottecchi.
Viola, che
aveva ascoltato con la massima serietà, sorrise, un sorriso
che le illuminò gli
occhi e colorò le guance e no, cuore, stai
tranquillo, perché non puoi
saltare sul tavolo, non ora, non qui.
“Tua madre
è
stata davvero fantastica. Sai, anche mia nonna ci ha cresciuti da sola.
I nostri
genitori sono morti in un incidente d’auto quando eravamo
piccoli e noi saremmo dovuti andare in affido a qualche sconosciuto,
ma la nonna piantò i piedi e pretese che venissimo affidati
a lei”. Viola rise
e, onestamente, Brian realizzò perché Viola non
rideva mai.
Perché
altrimenti avrebbe conquistato il mondo.
“Quindi
siamo
cresciuti qui. Anche a noi è andata bene. Questa fioreria e
il vivaio
appartengono alla mia famiglia da generazioni, anche mio padre
ci lavorava.
“Piacere mio!” rispose prima di tapparsi la bocca con una cucchiaiata di latte e cereali perché doveva trattenersi e non dirle che se lei gli avesse sorriso ancora l’avrebbe seguita anche in capo al mondo.
“Io vado
giù,
devo cominciare a potare le rose. Questo pomeriggio dovrebbero arrivare
a
portare i ricambi per la serra. Tu pensi di riuscire a finire di
raccogliere i
bulbi di begonia? Così questo pomeriggio facciamo quello.
Ah, e quando hai
finito metti i piatti nel lavello e il burro, il latte e la marmellata
in
frigo. Grazie. Ti aspetto giù.”
E andò via.
“Ragazzo,
ci
sei? È da un po’ che non ci sentiamo”
“Signore,
ci
siamo sentiti ieri” sussurrò, non sapendo se Viola
fosse già uscita.
“Ancora da
quella ragazza, eh? Sai che mi fido di te, ma tieni a mente che, se
dovesse
rimanere coinvolta, sarebbe davvero spiacevole per tutti. Forse avrei
dovuto
oppormi con più decisione”.
Brian si avvicinò alla finestra: Viola era sul retro, nel roseto.
“Lo
so” rispose
Brian con un sospiro, evitando di guardarla. “E sono
assolutamente intenzionato
a tenerla fuori da tutto ciò. Ma ci stiamo lavorando da
anni, e non voglio
perdere tutto così. Mi rendo conto che non è la
soluzione ideale, ma che altro possiamo
fare? Rinunciare? Questo posto è comodo, non posso andarmene
ora”.
Se c’era
una
cosa che sua madre gli aveva insegnato, era mai gettare la spugna.
“Lo so, lo so, hai ragione. È che questa situazione non mi piace per nulla. È una questione delicat e importante, ma meno gente lo viene a sapere, meglio è. Non gliene hai parlato, spero".
"No, signore" rispose, malcelando una punta di vergogna.
"Bene. Come stanno i
tuoi
contatti?”
“Li ho
ripresi”
ammise Brian, non senza una certa soddisfazione.
“Sarà
meglio,
ragazzo. Buona fortuna”.
Brian chiuse la
chiamata, pensieroso. Sollevando gli occhi, vide che Rucola e Ravanello
lo
guardavano con chiaro disprezzo da sopra la credenza.
Note
dell'autrice:
Buongiorno a tutti!
Questa è la prima storia che pubblico e spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto, mi sento come una mamma che porta la sua primogenita all'asilo per la prima volta... per favore, amate la mia bambina.
La storia è nata ascoltando la celeberrima canzone da cui prende il titolo, potete ascoltarla qui e leggerne il testo qui (è delizioso, se non ci avete mai fatto caso, fatelo).
Per chi fosse curioso: yucca (non fatevi ingannare, punge) e uebelmannia. Per la casa di Viola mi sono ispirata ai primi interni del film di animazione Il castello errante di Howl: cucina; anche il negozio di fiori me lo immagino come quello di Sophie (scusate, per questa non ho trovto screen). Se non avete visto il film, fatevi un favore e guardatelo, è bellissimo.
Detto questo, sapendo di essere una scrittrice molto pigra, ho aspettato di averla conclusa prima di pubblicarla e quindi niente paura, esiste una fine, aspettatevi aggiornamenti settimanali.
Se voleste lasciare una recensione mi rendereste veramente felice, ovviamente se ci sono errori fatemeli notare, idem per appunti sull'impaginazione (ho perso più tempo a sistemare l'impaginazione che a sistemare gli errori di ortografia...). Se qualcuno sa perché il testo è più grande delle note me lo faccia sapere, non riesco a immaginare una spiegazione. E fatemi pure tutte le domande che volete, adoro parlare.
Nei prossimi capitoli aspettatevi un po' più d'azione e qualche chiarimento sul ruolo di Brian.
Vi lascio, un abbraccio a chiunque
sia passato di qua e
vorrà tornare, un bacio a chi lascerà una
recensione, ci vediamo la settimana
prossima con il Capitolo 2: In cui un
cuore viene infranto e Viola prende una decisione.