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Autore: kanagawa    14/12/2015    1 recensioni
Lentamente, tutto si sbriciola, pezzo dopo pezzo ....
Ci sono delle mattine in cui mi piacerebbe svegliarmi e ritrovarti accanto, mentre il sole solleva i monti dietro alla livida alba nordica.. La mattina che mi svegliai e non c’eri, compresi che cosa fosse la solitudine. Non ti cercai. Tutto ciò che feci, fu di ritrovare la strada di casa. Perché di quella libertà pura e corrosiva che tu ami tanto, io, non sapevo che farmene.
I giorni di gioia e perdizione, bruciati lungo quel tratto di strada selvaggia, dove non c’era nulla... tempo, linguaggio, umanità; nulla. Il respiro di una natura sferzante e incontaminata che sulla pelle sapeva infliggere carezze terribili, e ad avvolgere ogni cosa, la nebbia.
“Incontriamoci tra dieci anni, Maki. Io ti aspetterò al solito posto.”
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[Edit capitolo 3 e 6]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kenji Fujima, Shinichi Maki
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Light from a dead star'
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Warning: rosso tendente all'arancio.
 


“Solcando i secoli, oggi un sole fosco si è levato sulla foresta vergine, piena di veleni, maestosa e pesante.
Esalava vapori voluttuosi di orchidee; la giungla odorava di sudore dolciastro e lussuria. 
Perché in questa terra, incompiuta e abbandonata da Dio nella sua ira, gli uccelli non cantano, gridano di dolore,
e colossali alberi intricati si artigliano uno con l’altro come in una gigantomachia, da orizzonte a orizzonte, tra le esalazioni di una creazione che qui non si è ancora conclusa.
... Mi sono guardato alle spalle
e nello stesso odio ribollente si ergeva iraconda e fumante la foresta vergine, mentre il fiume nella sua maestosa indifferenza e condiscendenza sprezzante annientava ogni cosa:
la fatica degli uomini, il peso dei sogni, le pene del tempo.”
 
Werner Herzog, La conquista dell’inutile
 
 
 
 
Vägen hem - 1291,209 miles 


In quei giorni non c’era nulla. Ore vuote, attese, aeroporti sovraffollati, la dogana; tra scali interminabili, controllori grassi e insolenti... Le strade tagliavano attraverso fitte vegetazioni man mano che quell’unico collegamento terrestre procedeva a singhiozzo per poi fermarsi definitivamente nel bel mezzo del nulla, quando il conducente annunciò che la vettura non sarebbe più ripartita a causa di un guasto meccanico; allora erano scesi loro due soli, senza attendere il mezzo di soccorso, e avevano preso a costeggiare a piedi il sentiero battuto per i restanti 35 km... Il sole tramontava alle loro spalle, incendiando precipitosamente tutto ciò che incontrava nella sua discesa. Sulla foresta, la notte tratteneva il respiro in un nugolo di lamenti. Trascinandosi con i bagagli lungo quella polverosa strada peruviana, uno strano guizzo di felicità intrecciava i loro cuori... Quella sera avevano pernottato in un casolare abbandonato, mentre una pioggia leggera cadeva fuori.
Stanchi e affamati, davanti a un fuoco acceso con i mezzi di fortuna si erano saziati con gli sguardi l’uno dell’altro.
Se doveva delineare una prima volta, era stata senza dubbio quella... La prima volta che comprese la bellezza intossicante di quel corpo, ignorata fino ad ora e che adesso rischiava di bruciarlo nella totale perdizione, lasciandolo a fiato corto e senza difese. Il corpo inceneriva e la coscienza si godeva in disparte quello spettacolo, compiacendosene della sua distruzione... E se il mondo fosse finito l’indomani, a questo punto, non gliene importava più un granché.
Lasciò che il calore del fuoco gli sfiorasse la pelle, mentre si adagiava sulla durezza attutita del pavimento sotto il giaciglio dei loro abiti. Le braccia tese a reggerne il peso e subito dietro di lui, sopraggiunse il compagno. Maki si avventò sulle sue labbra, corrodendole in un bacio inquieto e vorace. Il disegno della mandibola, il collo, l’incavo delle spalle; notò che le clavicole tese erano incredibilmente definite e pronunciate, come se scavassero due sottili canyon nella pelle candida; nell’alveo, un piccolo neo sperduto, che colse con delicatezza, come a volerlo racchiudere in una scintilla di memoria istantanea.
Ignorava il volto estatico del compagno, il corpo inarcato sotto di sé a recepire ogni filamento di sensazioni che vi propagava... La mente elaborava silenziosamente diversivi impellenti. Avvertì la mano di Fujima scivolare in un punto dove ora era forse sconsigliato sostare, e con desiderio scoprì di averlo invece aspettato con ansia, quando sentì quel tocco farsi più mirato e preciso. D’istinto abbassò anche il resto degli indumenti, lasciandogli spazio libero di agire. Maki gemé sotto i suoi occhi.
Lo guardò fisso in viso, mentre le mani scorrevano sul suo sesso, godendo di quell’espressione con una certa dose di sadismo. Si umettò le labbra, come colto da improvvisa ispirazione, lo sospinse fino a indurlo a coricarsi sulla schiena; si inclinò verso il bassoventre del compagno andandosi a cercare quella porzione di pelle scossa dai brividi, e la rasentò dapprima con il fiato, preparando il terreno alla scia umida della lingua che discese intermittente e avida, nel clamore del respiro, fino a incontrare l’oggetto del desiderio, puntualmente svettante nell’ansiosa meta. A quel punto, inaspettatamente, Maki soffocò una risata involontaria nell’avvertire un fremito di solletico ribellarsi all’ondata di eccitazione, e gli accostò subito una mano colpevole ai capelli, «scusami», invitandolo a proseguire. Attendibile riscontro, gli morse per ripicca il membro, facendolo sussultare. Aveva decisamente scordato con chi aveva a che fare... E non lasciandogli tempo di assestare quella presa di coscienza, lo accolse tra le pareti umide della bocca, mandando a farsi benedire qualunque sua volontà di protestare. Maki ingoiò un ansito che rischiò di andargli di traverso, la gola secca e desiderosa di aria che cominciò a mancargli repentinamente...
Si accorse, sopra il fascio di confusione mentale, di quanto insperatamente esperta fosse quella piccola bocca vermiglia... Pensò in effetti che, quella da lui considerata un’anteprima assoluta poteva anche non rivestire del medesimo senso per entrambi, in fondo erano trascorsi parecchi anni tra di loro e Kenji era un ragazzo estremamente bello... Quell’indugio traversò fugacemente la notte per poi sciogliersi sotto una calda pioggia torrenziale, la sua lingua superba e vigorosa.
Questo piacere, era così differente; da cosa dipendeva? Forse finora non aveva ancora compreso che cosa fosse realmente, il piacere... Fujima, scandì forte il suo nome quando superò il culmine e sentì il mondo tutt’intorno venire meno. Per un istante. Lasciò che il proprio seme sgorgasse sul suo palato umido, e rovesciò sconfitto il capo all’indietro.
Boccheggiò e non si aspettò più altre mosse dal compagno, ma quella notte Maki imparò a tradimento un altro aspetto del sesso che forse avrebbe preferito anche non subire: per orgoglio maschile, come si suol dire. Quegli occhi belli e assassini, scorse il ghigno breve di Fujima, l’attimo prima di afferrare le sue reali intenzioni....
E questo fu quanto.
 
«Ho come.. impressione che tu ti stia vendicando dopo l’ultima volta, o sbaglio?» Fujima ridacchiò sommessamente, lasciandosi abbracciare senza responso, schiena stretta contro il petto del compagno e il suo respiro lieve tra i capelli. Fuori, una luna affilata si stagliava sopra la foresta, dove ogni canto pareva ora acquietarsi in attesa dell’alba...
 
 
Lima, Pucallpa, Santa Maria de Nieva, Manaus, Belém do Parà, Rio, Buenos Aires, poi giù, proseguendo nella Patagonia argentina fino a Perito Moreno, dove il mondo finisce in una lingua di ghiaccio che avanza imponente per 30 km, prima di tuffarsi nello specchio d’acqua di fronte a sé. Cominciando dal Sudamerica, dove Fujima intratteneva i suoi rapporti di lavoro in un settore marginale noto solo a livello locale, e dove con sorpresa aveva scoperto un portoghese fluente e qualche residuo di spagnolo dalla bocca di Maki -il quale, a dir il vero, masticava egregiamente ben tre lingue straniere per esigenze professionali-, per quasi un anno erano vissuti praticamente in strada, bivaccando in locande gocciolanti dove capitava e la mattina dopo subito in viaggio... Il bagaglio si alleggeriva sempre più, chilometro dopo chilometro, fintantoché non ne fossero contate solo quelle poche cose di reale necessità, mentre i loro passi accanto alle menti si sollevavano sulla strada più leggeri della polvere stessa. Le uniche ansie erano legate alla giornata, alba e tramonto, finché la notte non ricuciva le loro braccia nel segreto delle sue ore.
In quel periodo, ciò che succedeva in Giappone sembravano fatti di un mondo estraneo, lontano anni luce. Il loro cammino procedeva senza una meta definita e senza un futuro, affiancati della certezza di esistere solo e unicamente in quel preciso attimo di respiro, e tutto il resto -la realtà stessa- era solo un sogno.
Subito dopo la sua fuga, nonostante gli scongiuri dei suoi -compresi gli stessi genitori di Maki che ne erano venuti a conoscenza-, la fidanzata che aveva all’epoca, Noriko Hasegawa, per disperazione aveva scelto di abortire. Non la rivide più da allora, per quanto ne sapeva... eppure ci sarebbe comunque arrivato da solo alle medesime conclusioni.
Ancora oggi, gli capitava di pensare a quel bambino mai nato, che Noriko aveva strappato via con rancore dai recessi della propria carne, così come lui nella totale indifferenza non aveva esitato ad abbandonarla... E chissà perché, tutte le volte, gli veniva in mente il volto di sua figlia. Sora.
 
 
 
«In Svezia?»
A Saramiriza, era la stagione delle piogge. In quella piccola città scavata nella foresta pluviale, costantemente sommersa dalle acque torbide del Rio Maranõn, dal quale dipendeva -nella buona e nella cattiva sorte- per i suoi ritmi di vita e commercio fluviale, il corso indolente della sua esistenza si aggrappava con tenacia alle rive fangose del fiume, e un giorno il fiume se la porterà via.
Le abitazioni su palafitte si innalzavano al di sopra del terreno umido: un’unica stanza che odorava di paglia e sigarette, mobilia essenziale-antidiluviano, tra cui, un ventilatore a soffitto. La reticella alle finestre e sopra il letto, come una cascata, si gettava bianchissimo il velo della zanzariera. «...Vorresti andarci?» Maki si mise a sedere sopra la coperta, a gambe incrociate, dove il compagno lo raggiunse, sistemando accuratamente lo spiraglio aperto alle spalle. Gli si coricò tra le braccia, circondandogli la vita con le gambe nude, i capelli ancora umidicci di doccia a sfiorare il collo e la pelle già madida del clima tropicale in contatto. Senza lamentarsi del peso e del caldo, Maki lo tenne stretto a sé.
«Sì, credo sia arrivato il momento...» Gli soffiò sulle clavicole, a occhi chiusi. Maki odorava di muschio e terra bagnata. In certi tratti della pelle, emergeva una vaga nota marina; anche nella cecità di una notte profonda, avrebbe saputo tracciare la mappatura olfattiva del suo corpo... Fujima sollevò il capo e lo fissò negli occhi. «Verrai con me?» E vi brillava, in essi, quella stessa inquietudine devota con cui aveva interrogato suo padre, più di 20’anni fa, quando sognavano insieme una luna lontana e favolosa. Ma lui non sapeva né di quelle stelle, né di quel gelo secco e penetrante.
Per tutta risposta, Maki gli aveva sorriso, prima di posare un bacio lieve e gentile sulla sua fronte, senza dire una parola.
“Sempre.”
 
 
A pensarci bene, non raccontavi spesso di te. Lo so, non è mai stata una nostra peculiarità parlare delle vicende personali; così era anche in passato, in quelle ore vuote spese tra i sedili della metro dove, in fin dei conti, non ci siamo mai conosciuti veramente. Quindi rimane un mistero, il perché io abbia continuato a cercarti, nonostante tutto...
 
Non era per discrezione. Il fatto è che, non era nel suo indole raccontare di sé. Con nessuno.
Di certo, Fujima aveva vissuto momenti di grande solitudine, incessantemente specchiato in se stesso. Potevano scatenarsi tempeste irreparabili nei suoi abissi ed esaurire tutto in essi, ancor prima che una sola goccia riesca a giungere in superficie, e che siano trascorsi secondi o settimane intere, frattempo nel mondo, nulla aveva a che fare con lui e i suoi pensieri.
Ed era consapevole delle tante cose andate perdute lungo questa cieca corsa interiore; ancora oggi, era complice di irrefrenabile angoscia... Eppure, perché.. Perché tuttora non era in grado di fermarsi?
 
Quel giorno, erano venuti a chiamarlo durante l’ora di letteratura giapponese e senza tanti giri di parole gli dissero di rifarsi subito la cartella. Toru che gli sedeva accanto lo aveva guardato in apprensione, mentre con un sorriso gli diceva che sarebbe tornato subito.
Poi, ingoiando le lacrime, Fujima era salito sul taxi che lo avrebbe condotto all’ospedale...
Era l’estate del suo secondo anno di liceo.
 
Si diceva da qualche parte che, prima di venire adottato, avesse vissuto in un ambiente non del tutto adeguato, malsano. Ma erano solo voci... Il padre non godeva di buona salute, questo era vero; così come era vero che spesso e volentieri si abbandonasse anche ai sollievi dell’alcool. Cirrosi epatica. Ryuichi non si era mai risposato.
Per quanto male facesse, era vissuto fino all’ultimo aggrappato al proprio dolore, così come avrebbe goduto delle gioie più feconde in questa esistenza, con la medesima sbaragliante intensità, mentre covava in segreto nel cuore l’angoscia per quel figlio troppo giovane e cresciuto troppo in fretta, che lui stesso aveva rigettato nella solitudine di questo mondo... Non gli disse di essere forte. Non gli chiese perdono.
Brusca e banale, arriva la fine; non fai in tempo a mettere il punto e la frase già si sgretola a piè di pagina.
... Non è che fingesse di essere più forte, o volesse fare lo spavaldo; solo che non sapeva come formularla, quella voragine sibilante che gli scavava tra le pareti del cuore, tanto imponente da paralizzarlo. I sentimenti che provava erano contrastanti. Dopo tutto quel tempo, era difficile sentire ancora un dolore concreto. Rabbia, costernazione, senso di impotenza, sollievo, ma nulla che fosse sufficiente a riempire quel vuoto incontrastato davanti a sé.
Assistere alla lenta caduta del padre verso la commiserazione, al progressivo assottigliarsi del suo arco vitale, con quei suoi occhi di adolescente; vestirlo perché lui non sapeva più distinguere una manica da un taschino, sorreggerlo se i suoi passi si facevano incerti e correggerlo dolcemente quando sragionava... Tenendo stretto a sé per tutto il tempo, come il più caro dei suoi averi, il fardello dell’amore e la consapevolezza insopprimibile che tutto questo un giorno gli verrà strappato.
Si era chiesto allora che cosa avrebbe fatto d’ora in poi... Perché i polmoni si stringevano e gli bruciavano terribilmente nella cassa toracica; perché una volta fuori da quel bozzolo di veleni assuefanti, si era sentito mancare l’aria e non sapeva più come respirare. E avrebbe preferito mille volte tornarsene nel suo antro buio e rimanerci per il resto della vita...
Nessun uomo nasce libero. Non la si sceglie a priori; può capitare.
Inutili attestazioni e scritti probatori, la libertà non avrebbe senso che nella sua stessa privazione; perciò nel momento in cui la vivi, già essa non lo è più. Una sorta di desiderio anemico, di input vitale bruciante e insaziabile, senza nome, senza oggetto, e probabilmente priva di ogni ragione... Perché se si cercasse di spiegarla a parole, sarebbe solo fiato sprecato: vivere o morire non ha importanza, è solo una sensazione, dipende dall’ispirazione del momento.
Un primo passo tentennato, ne avrebbe compiuto altri in mille miglia ancora, senza fermarsi, senza comprendere mai quale sia il suo posto nel mondo. Ma importante è andare avanti, il resto è sulla strada...
“Vivi solo per te stesso. Non prenderti pesi inutili e guarda solo avanti. Promettimelo.” .... Perciò, tuttora, non era capace di contraddirsi.
 



 
"So raise your voices on high tonight...


We came a long long way back home,

To see you one more time,

To see you and say goodbye."



 
Da un giorno all’altro erano partiti. Il volo da Lima per l’Europa, la prima sosta in Spagna, risalendo la costa iberica fino alle Prealpi al confine con l’Italia; qualche escursione nell’entroterra e gite al mare, per respirare a pieni polmoni l’essenza del clima mediterraneo, che ricordava tanto quelle belle stagioni a Kamakura, ma con colori più vividi e molto più schietti. Il viaggio in treno sarebbe stato affascinante, ma optarono per l’aereo a Ginevra, volendo approfittare del caldo per giungere a Stoccolma prima che cadesse la prima neve; di lì, non ci sarebbe voluto molto...
 
Più si andava a nord e più il giorno si faceva lungo, fino a fermarsi del tutto, sospeso a mezzo cielo.
La luce, quella luce intensa e al tempo stesso caliginosa, così tipica in certi paesaggi nordici su tela, da orizzonte a orizzonte, inondava i suoi occhi -abituati ai grigiori metropolitani asiatici quanto i colori estenuanti del sud emisfero-, schiariva e accecava l’immensa vallata fluviale che si estendeva fuori dal finestrino, proprio come un quadro del tardo romanticismo, mentre il treno traballava attraverso chilometri di foreste di conifere, intrecciando, di tanto in tanto, specchi d’acqua dolce spezzati nell’ultima glaciazione.
Era l’estate svedese. Dardeggiante e rigogliosa; fredda e fuggente. La Terra al risveglio dopo una lunga notte di tenebra primordiale...
Al centro del paese, nella contea di Örebro, sorgeva una piccola cittadina di nome Nora. 6796 abitanti, temperatura freddo-mite, precipitazioni, quasi nullo -a parte quelle di forma nevosa che abbondantemente assediano l’intera penisola scandinava a partire da metà novembre-. La ferrovia descriveva un tratto del riva lago prima di arrivare in vista della vecchia stazione con il tetto verde e i mattoni rossi; già da lontano, nella lingua di vegetazione che sporgeva sull’acqua si poteva scorgere il campanile bianco della chiesa toccare leggere le nuvole ancorate al capriccio del vento.
A prima vista, parrebbe un luogo di villeggiatura estiva e magari di pesca sul ghiaccio nella stagione fredda, una località anonima ai più. Non c’era nulla di particolare, di sfarzoso. In quelle stradine lastricate illuminate a festa, nelle vetrine dei suoi modesti alimentari e botteghe o sui volti vigorosi delle persone al passeggio, ogni dettaglio si stagliava nell’amabile insignificanza e vitalità di un qualunque paesello europeo sul fare della sera; così naturale e ovvio, da spezzare il cuore... «Sei teso?» Maki gli strinse una mano madida di sudore, mentre scaricava i bagagli. «No.» Scosse il capo, il lago splendeva vividamente alle spalle della stazione, una serata troppo bella per rabbuiarsi. Sorrise incoraggiante il compagno e gli passò un braccio attorno alle spalle. «D’accordo, andiamo allora.»
La famiglia di Kristin si era trasferita da tempo nella parte meridionale del paese, verso Götaland, dove si godeva di un clima più gradevole. In compenso, aveva lasciato una fattoria nel vecchio Svealand, poco fuori Nora. La si raggiungeva tagliando attraverso una fitta boscaglia di betulle e il sentiero poco praticabile, segnalato su una mappa impolverata recuperata al municipio, era decisamente allusivo ai decenni di abbandono che avrebbero trovato al loro arrivo: divorata da una natura mai addomesticata che si era ripreso il suo diritto di permanenza appena i proprietari furono partiti, scavando il terreno circostante, sradicando recinti, arrampicandosi sulle pareti e scrostandole, laddove recavano ancora tracce di un’antica vernice rossa, come tralci di un’edera metodica ed erosiva. Una bella catasta di macerie da ereditare, a quanto pare... La casa dove era cresciuta sua madre. Schioccandovi uno sguardo ironico, il casolare gli restituì quella medesima transigente malinconia.
Giù al paese, avevano trovato alcune famiglie che si ricordavano ancora dei Marklund, ma nessuno sapeva che Kristin avesse avuto un figlio; era comunque una ricerca senza senso, dettata dalla schietta curiosità... «Che vuoi fare, adesso?» Una sera che erano alla taverna, accanto a una comitiva che brindava a suon di pinte un evento ignoto -gli europei di calcio, stando alla trasmissione in onda-, una dozzina di giovani escursionisti che avevano fatto tavolata con i vecchietti arzilli della zona, alla fine parevano anche loro una coppia di escursionisti. «Andiamo al nord.» Erano decisamente a un punto cieco: di riparare quel residuato post-atomico non se ne parlava proprio, e poi non c’era nessuna reale utilità. Quindi cosa era opportuno fare ora? «Non vuoi andare verso sud?» ...A rintracciare gli eventuali superstiti dei Marklund, forse ancora residenti a Malmö, come sosteneva il baffuto locandiere. Ma Kenji non pareva del tutto convinto, mentre scrutava il sopracciglio arcuato del compagno dal fondo schiumoso del boccale. «No, voglio vedere le montagne.» Maki si allungò sul tavolo con fare inquisitorio. «Non mi sembra che tu stia prendendo sul serio questa faccenda...» Prima di vedere una forchettata mancina infilzargli l’ultima polpetta rimasta nel piatto, «niente affatto, sono serissimo» e il sorrisetto sghembo, se la trangugiava con venale soddisfazione in un solo boccone.

 
 .... E lì, dove il giorno finisce, ho atteso che tu arrivassi.
 
La neve aveva iniziato a cadere mentre erano ancora in viaggio. Sul lungo treno per Narvik, sordo e sonnolento rombo attraverso le sterpaglie interrotte, un poco alla volta, i vagoni si svuotavano. A ogni fermata, sempre meno passeggeri salivano, mentre nella corsia accanto, carichi di metallo grezzo provenienti dalle miniere di Kiruna e Gällivare sballottavano straripanti e imperterriti verso i lontani porti di Luleå, Umeå e Sundsvall lungo la costa: ed era proprio lì, dove erano diretti; quel nord sperduto nella notte polare, senza nome, senza età, che il silenzio del gelo racchiudeva. Il cielo si apriva sul respiro rappreso del mondo e l’estate usciva di scena in quel breve tratto ferroviario attraverso i fulvi colori di un autunno alquanto precipitoso; foreste decidue appena abbozzate, sul delimitare della vista, come sgorbi di carboncino sfumato.
Maki sprofondava in un sonno leggero sulla poltrona accanto alla finestra, ridestandosi intermittente a quei lievi movimenti che il dondolio della ferrovia finiva per inghiottire; mancavano ancora molti chilometri. Nella fila di sedili accanto c’era un bambino che aveva continuato a scrutarli, allungandosi sul bracciolo e impuntando gli azzurri occhioni indiscreti sui loro insoliti profili. La madre leggeva una rivista, assorta. A Murjek, Fujima gli rispose per la prima volta con una breve linguaccia, e da lì, si intrattennero in una lunga conversazione a base di smorfie e boccacce colorite fino all’arrivo della destinazione.
Sulla banchina della piccola stazione, il monello biondo era sceso insieme a loro. Gli si avvicinò e strattonandogli con delicatezza una manica, inaspettatamente, fece un sorriso e scandì in uno sdentato svedese «välkommen tillbaka!*», che lui non comprese. Al sollecito della madre, mentre correva via, Fujima lo osservò che spariva tra le schiene infagottate dei viaggiatori.
A 12.000 metri di altezza, un germe di cristallo ramificato cominciò a precipitare, volteggiando in una traiettoria inesistente attraverso gli strati d’aria sino ad esaurirsi, carico del proprio peso fuggiasco, batuffolo di brina sulle sue ciglia.
Ad Abisko, l’inverno era appena cominciato.
 
 
††
 

«Congratulazione per la promozione, Takeshi-kun!»
Maki strinse la mano al più giovane collega del suo team, che levò raggiante il volto fresco di laurea. «Grazie per essersi preso cura di me in questi mesi, Maki-san!»
Il 66° piano in un giorno feriale inondato di luce, dove raramente un kohai dei livelli inferiori metteva piede, avevano sede quegli ingenti uffici del consiglio di dirigenza, ed era lì che Maki era giunto a 37 anni: salendo gradino per gradino quella ristretta scalinata straripata di impiegati e le loro giovani ambizioni, trasferendosi di piano in piano, dopo un breve lasso di tempo, aveva scalato quell’intero grattacielo nel cuore pulsante di Tokyo. Ora, aveva il mondo sotto i piedi, letteralmente, ma non sentiva di calpestare le nuvole... Al contrario, se allungava il naso oltre la vertiginosa vetrata paronimica in cui era incastonato il suo spazioso ufficio, nei giorni nuvolosi, sopra la città vedeva ammollarsi solo quella cortina impenetrabile di smog e il grigio traffico risuonare.
Eppure, il fatto di poter salire sull’ascensore e premere il tasto di un piano designato PH, dovrebbe farti sentire invincibile...
A fine riunione, precedenza sulla soglia ai dirigenti anziani, per ultimi a lasciare la sala tra un riso scherzoso e l’altro, Maki gli accennò fortuitamente una pacca sulla spalla, da bravo capo informale. «Passa dal mio ufficio dopo, ci sono ancora un paio di carte che dovrei darti.»
Il ragazzo fece un inchino, prima di congedarsi.
... Gemiti soffocati contro la parete. Scossa da leggere vibrazioni, una stilografica rotolava lentamente giù dalla scrivania. In un angolo della stanza, il fusto svettante della Dracena Marginata li osservava nella sua sorda immobilità tropicale.
Infine si rivestirono, e Maki lo sogguardò, le dita esperte a ristringere il nodo della cravatta. «Mi mancherai, Takeshi-kun... Telefonami ogni tanto da Fukuoka, ok?» Lui ridacchiò. «Tanto lo so che non è vero!» Gambe dondolanti sul lucente piano di mogano, lo fissava, senza più dire altro. Gli enormi occhi nocciola brillavano di intelligenze maliziose, su un viso da bambola che la frangia delicata adombrava. 22 anni, tanto bello e avido da provocare un sospiro di dubbio anche ai più scettici del mestiere...
Aveva i capelli castano-dorati.
 
 
Mi chiedo, dove tu sia ora, cosa stia facendo; se non stia sentendo il suono della pioggia o le sirene di questo traffico... Senza accorgermene, il tempo è passato.
Ho ancora negli occhi, l’immagine di quel giorno innevato, tra ciuffi di sterpaglia addormentata, i nostri passi che affondavano sui cumuli bianchi e soffici a valle, inciampando ogni tre e rialzandosi altrettante volte, i polmoni schiacciati dal gelo arido; il sole, il tuo riso. A fiato corto, avevo cercato invano per lo sguardo un orizzonte che vi fosse in quell’azzurro sterminato dell’etere e allora mi resi conto che eravamo ai margini di questo mondo, io e te.
Io e te.
Non passi giorno che non me lo chieda.
Ho timore di star scordando il tuo volto... Se ti rivedessi ora, non so se sarei in grado di riconoscerti ancora. Ma ancora, stringo tra le mani il tuo nome. La sola cosa che mi rimane di te, speranza, sottile, di poterti rivedere un giorno, da qualche parte sotto questo stesso cielo.
 
 
«Maki, siamo nel paese di Santa Claus!» Gridò Fujima adocchiando un cartello stradale con la sagoma di una renna incriminante. E lui si schiaffò una mano in fronte, costernato. «Sì, ma preferivo ignorare questo dettaglio...» A parte la slitta parcheggiata accanto a una staccionata e quel mantello rosso molto sospetto sul sedile -si presume di un operatore turistico-, stavano camminando su una strada statale della Lapponia svedese. Latitudine 60° 49ˈ, a Kiruna era il giorno di Santa Lucia, che segna l’inizio del mese dell’Avvento lungo la processione della notte polare.
Il tempo si ferma al secondo in cui il disco solare tocca l’orizzonte e quelle vibrazioni vi permangono infinitamente, un crepuscolo eterno sul mondo.
Tutt’altro che depresso dalla mancanza di luce diurna, in quei giorni Fujima pareva transitare in uno stato di innaturale euforia, sbandando qua e là come un ubriaco sulle piste innevate. I botti di perforazione nella città mineraria, il sapore del vino speziato accanto al camino acceso e quei terribili bastoncini zuccherati a strisce rosse e bianche che quell’invasato del suo compagno aveva voluto comprare a tutti i costi... Come l’immagine di certe cartoline pacchiane che gli sarebbe capitato di spedire per le sue bimbe, quelle con casette di legno in un bosco tutto illuminato, e che tutte le volte gli faceva venire in mente quel Natale in Svezia con mezzo metro di neve fuori dalla porta. Era, in effetti, un pensiero piuttosto stupido...
 
 
 

Passando in città, aveva acquistato una coppia di “El Commercio” nella solita bettola postale da cui faceva rifornimenti; Fujima era via da due giorni per una trattativa in zona. «Hay un telegrama para usted, señor L’omino, un mezzo giapponese con sangue indio, gli passò il pacchetto di sigarette insieme a un foglio tutto sgualcito dall’umidità locale. «Gracias...» Un po’ sorpreso, Maki lo prese in mano; l’espressione immobile, lo scorse nelle sue poche righe di testo e quando ebbe finito se lo cacciò subito in tasca. Dopodiché pagò la spesa e se ne andò. 
Del suo contenuto, non lo raccontò mai a Fujima. Questo era successo otto mesi fa, a Iquitos.
 
 
 

A un certo punto, il primo grumo di neve cominciò a sdrucciolarsi sugli alberi, e allora parve che quel palloncino asmatico -rimasto impigliato ai suoi rami per tutto l’inverno- avesse deciso di riprendere finalmente quota, nella foschia dell’orizzonte, inondando poco alla volta l’intero altipiano di una luce iridescente. A nord-est, i cumuli di ghiaccio persistevano ancora, gli ultimi a nebulizzarsi sulle praterie ingiallite che lentamente si coloravano di un verde smagliante. A scossoni, la vita veniva risvegliata e un po’ indispettita sgusciava fuori dalle grotte umide per scrutarsi intorno. Faceva ancora freddo in realtà, e più che risveglio, era una sbadigliante levataccia.
E con il sole arrivò anche l’ispirazione. Quando la neve cominciava a sciogliersi, erano tornati nella cittadella di Nora.
Con l’aiuto di alcuni falegnami giù in paese avevano deciso di rimettere in piedi la fattoria, o perlomeno, dare una raddrizzata a ciò che rimaneva della sua struttura portante fatiscente. Gli era sembrata una buona idea, del resto, doveva pur impiegare in qualche modo l’ingente cifra ereditata dai Fujima... Il lavoro era lungo e macchinoso, c’era più da abbattere che ricostruire. Ogni tanto capitava che si affacciasse qualche vicino ficcanaso, sbalordito dall’improvviso movimento nel terreno dei vecchi Marklund e scuotendo la testa poi se ne andava; qualcuno mormorava di una losca multinazionale asiatica, ma quando compresero che era solo un’innocente capriccio edile, si misero il cuore in pace.
Per il resto del tempo, facevano passeggiate nei boschi confinanti o se ne stavano sulla veranda appena riverniciata -praticamente, c’era solo quella- a prendere il sole e guardare quel giardino dall’aria primitiva potato a fatica, in mezzo al quale avevano piantato una tenda per la notte, che per ora era diventata la loro casa.
Le serate davanti al fuoco, avvolti nella coperta di lana, le sue guance infiammate e le note della chitarra che strimpellava. «Dove hai imparato a suonare?» Da Miguel, gli rispose; e quando gli chiese chi fosse, Fujima aveva solo sorriso, senza aggiungere altro...
In quelle giornate così tranquille non c’erano mai imprevisti, a parte i colpi di testa che uno dei due raramente assestava, come la volta in cui Kenji era tornato a casa completamente fradicio dalla testa ai piedi, e mentre quell’altro se ne stava bellamente piegato in due, disse di aver visto un grosso luccio al lago; sempre sghignazzando, Maki gli aveva strofinato i capelli con un asciugamano, dandogli poi un bacio sulla punta del naso. Si era beccato allora un bel raffreddore e per due settimane se ne stette alla larga da qualunque tentazione ittica.
Si sarebbero aggiunti poi un materasso e dei semplici servizi igienici, quando furono abbastanza sicuri che il tetto non gli sarebbe crollato in testa, così da poter abbandonare il frugale giaciglio in giardino, anche se a malincuore.
In quel posto dove non succedeva mai niente, lentamente, stava prendendo forma nei loro occhi e nelle loro mani, un qualcosa di molto simile all’espressione “futuro”. 
 

Un giorno, mentre rientrava dai lavori, era squillato all’improvviso il cellulare.
Vide che la chiamata proveniva da un numero sconosciuto, rispose, ma per lunghi secondi nessuno parlò all’altro capo; un segnale bianco intermittente.
˹... Kenji-kun?˼
Quando stava quasi per mettere giù, una fievole voce femminile emerse dallo speaker. Rimase interdetto con il telefono accostato all’orecchio, lentamente, la destra si appoggiava contro il grezzo ripiano su cavalletto all’ingresso. «Shizune.. Shizune-san, sei tu?» Sentì la donna sospirare, tra sollievo e dolore. ˹Oh, meno male! Sei tu, Kenji-kun! Mi hanno dato questo numero ma non sapevo se--˼ Il tono distorto dall’emozione, riusciva a figurarsi il tremolio della sua schiena ossuta in quel salotto con divano beige che conosceva tanto bene. «Calmati, Shizune, ti ascolto.» Lei ingoiò un singhiozzo fugace. ˹Mi rincresce disturbarti così, ma non sapevo davvero più come comportarmi. Sono mesi che non abbiamo più sue notizie. Non ha mai risposto al nostro telegramma e dopo il Perù non sapevamo più dove fosse e il suo cellulare continuava a non essere raggiungibile, e abbiamo pensato che.. Dio, ero così in pensiero! Allora, mi sei venuto in mente tu, e.. È che non ci ha detto niente quando se ne è andato... Dimmi, è lì con te?˼ Fujima guardò alla soglia della porta. «No, non c’è, adesso.» Sul sentiero, si stava facendo sera. Chiuse gli occhi e immaginò la sua schiena stretta nel cappotto leggero, mentre lo percorreva tra gli scricchiolii del crepuscolo.
˹Capisco...˼ Con un consenso di capo che il suo interlocutore non avrebbe scorto, Shizune Maki infine dava corpo alle proprie supposizioni; il suo cuore di madre l’aveva capito fin dall’inizio. ˹...Ti prego, non voglio accusarvi di nulla. Ormai non importa. Però, ascolta, devi riferirgli che suo padre sta molto male, i medici dicono che potrebbe non farcela e la situazione continua a peggiorare, se va avanti così--˼ Una pausa soffocata e un altro singhiozzo. ˹Io non ce la faccio più così, sono a pezzi... Ti prego, dì a Shin di tornare a casa, noi, noi tutti lo stiamo aspettando, io e suo padre. Kenji-kun, te lo chiedo per favore!˼
Dopo aver chiuso la telefonata, Fujima rimase a lungo al buio, senza staccarsi dal bordo del tavolo.
I pennelli sporchi di rosso abbandonati sul pavimento e i barattoli vuoti. Era l’inizio della primavera, avevano da poco terminato di ridipingere la facciata esterna.
 
 
 
Poi era successo qualche sera dopo. Erano seduti in cucina a rivedere le carte della ristrutturazione e inchiodandosi su un piccolo dettaglio, poco alla volta il discorso era precipitato. Entrambi testardi e incapaci di cedere posizione quando si trattava dell’altro, come al solito. Il primo a perdere la testa fu Maki. «Scusa ma se c’è la possibilità di dare un senso a questo affare non vedo perché dovremo scartarla!» Lasciò cadere malamente sul tavolo il disegno della piantina più allegati burocratici e si accasciò sulla sedia impagliata, proclamando la fine della tregua. Fujima tese il busto sopra quel cumulo cartaceo, le braccia spalancate a dominare la sua visuale oscurata. «Questo affare fin dall’inizio non aveva alcun senso! Perché ti ci sbatti tanto?! Che te ne fai di una fattoria piantata in mezzo al nulla??» Gesticolò nervosamente, mentre Maki se ne stava con le mani in tasche a fissarlo in cagnesco. «Io penso al futuro...»
«Sì, futuro... Sei proprio un ottimista del cazzo!» Fece stridere le gambe della sedia e se ne andò sbattendogli la porta in faccia.
Scese velocemente i gradini della veranda e dietro di sé, un secondo colpo contro gli stipiti. «Se sei già stufo, dillo chiaramente!» La voce alterata di Maki lo esortò a girare i tacchi, in un lampo di furia crescente. «Oh, piantala di fare il gradasso con me! Andiamo, ma ti sei visto?? Dalla mattina alla sera non fai che gironzolare qua intorno, come un pensionato a puntare qualche chiodo e piantare un palo! Per quanto tempo credi di poter andare avanti così, Maki?! Qui non c’è alcun futuro! Perché continui a far finta di niente??» Argomentò più loquacemente del solito e vide l’altro schiaffarsi un palmo esasperato sulle palpebre. «Dio, ci risiamo. Ogni volta che spunta qualche problema tu non fai altro che scappare! Pensi che andandocene risolveremo tutto?? Per una volta, prendi in mano questa merda di situazione e guarda in faccia alla realtà, Kenji!» ...Rimase senza fiato, le labbra socchiuse incredule.
«Io non.. scappo
«Vallo a dire al tuo pallone da basket!»
Un colpo decisamente basso, lo aveva calcolato; si aspettò che tornasse indietro a replicare un bel pugno d’indignazione e stette perciò sulle difensive, invece dovette ricredersi, quando lo sorprese a distogliere quel cipiglio scazzato e soffiare tra i denti qualcosa di sottilmente interpretabile come “fanculo”, prima di ritornare sui propri passi. Sulla soglia, Maki gli gridò ancora. «Che diamine è successo, si può sapere??»
Strisciando le suole sul selciato, Fujima si voltava verso la casa e attraverso le tenebre lo fissò con tacita gravità. Ci vollero secondi prima che rinvenisse parole.
«Mi ha chiamato Shizune.»
... E per quella sera, non ci furono più altre discussioni.
Maki lo riportò in casa, lo issò sul tavolo e gli sfilò le scarpe infangate. Dopo poco, fecero la pace.
 

 
Seduto su un cumulo di tronchi accatastati, guardava la staccionata oltre la quale si stagliava un fosco orizzonte.
Un albero come una sentinella delimitava il confine della fattoria: quella strada polverosa finiva lì, in quel breve tratto di terra che dava inizio all’imperscrutabile, dove dense nubi si sollevavano e le sue iridi, fuochi scalpitanti, vi si tendevano irrequiete... Al fremito delle prime foglie, avvisaglia nel cuore, il vento si alzava.
 
.... È ora di andare.
 
 
Il sottobosco odorava di muschio e mughetto, sotto le palpebre, aloni di iride si spandevano. Lentamente, le aprì. Pilastri scuri si innalzavano contro le trame del cielo, un liquido azzurro si schiariva nella vertiginosa cattedrale silvana. Fujima si sollevò di colpo e prese a correre sul terriccio umido chiazzato di bianchi anemoni, tra i tralci marcescenti di licheni gialli disseminati che saltava con prorompente agilità ferina. Giunse stravolto alla staccionata della proprietà e vi si poggiò contro, il petto ansante, le braccia congiunte a fissare la sagoma del casolare lontano immerso ancora nella nebbia, mentre il respiro si acquietava.
Alle spalle, passi fruscianti e soffocati sul tappeto erboso. Nell’aria frizzante, avvertì il calore di una spalla robusta premere contro la sua un po’ incassata. «Ti sei alzato presto.» Lui annuì, senza distogliere lo sguardo, senza voltarsi.
«Perché non mi hai detto niente?»
Non ebbe risposta.
Dopo un po’, vide il suo braccio sporgersi oltre lo steccato e indicare un punto imprecisato davanti a loro. «Sai quello spiazzo abbandonato laggiù, potremo costruirci una stalla. Sarebbe perfetto per un allevamento di cavalli.» Mimò la forma di una tettoia, il sorriso tra le labbra.
«Maki...»
Tra le dita, si studiò lungamente un rametto secco e in una leggera pressione lo fece spezzare. «È stata una mia decisione.»
I primi richiami presero a pigolare tra i rami, da qualche parte nel cuore della foresta. E le loro sagome immobili l’una accanto all’altra, mentre il giorno sorgeva tutt’intorno, nella roccia addormentata, nei fili di rugiade su ragnatele, in un battito di ciglia come d’ali soffocate, entrambi sul punto di dirsi qualcosa che non sapevano cosa. Se solo quel sole non fosse mai sorto e la neve rimasta sulle colline... Avrebbe pensato di voler restare così, in silenzio accanto a lui, finché uno dei due non avesse ceduto o lo stomaco gorgogliato per la fame.
«Questa non è la tua vita, Maki. Dovresti invece tornare a casa, e poi--» In un unico fiato raccolto, si issò sulla palizzata e con le braccia tese, bilanciò la curva della schiena. In quel punto, se ci si sporgeva un po’, si riusciva a vedere un sorso del lago scintillare tra le fronde di riflessi dorati e le strisce della riva opposta, il campanile bianco e l’eco dei suoi rintocchi sotto i quali il paesello si stava risvegliando. Assottigliò gli occhi e espirò ancora. «E poi dovresti anche sposarti... Una famiglia, avere dei figli.» Sulla superficie dell’acqua, banchi di nebbia caliginosa evaporavano al sole. Il compagno scosse la testa e rise a cuor leggero alle sue parole. «Non ci sono portato per queste cose! Non credo che sarei mai capace di amarli...»
Sorrideva, Kenji, in quell’ondeggiare leggero nel bagliore del mattino, mentre da sopra una spalla lo guardava e gli diceva. «Se fosse tuo, io lo amerei moltissimo.»
 

Che cosa desideravi in quell’istante, Fujima? Quali preghiere avevi covato dentro di te? Me lo sono chiesto spesso... Sono riuscito a darti così poco in questa esistenza, e quelle poche parole, quei gesti esigui, mi chiedo se siano bastati ad alleviare un po’ la tua solitudine.
Ora, finalmente, credo di comprendere quali fossero stati i tuoi desideri per me, quella mattina di inizio giugno, quando il sole sorgeva e io non potevo fare altro che amarti, disperatamente.
 
La mattina successiva, al risveglio Maki trovò nuovamente il letto vuoto, ma in cuor suo sapeva che se anche lo avesse cercato, non lo avrebbe trovato da nessuna parte. Allora si era riparato con il dorso quegli occhi inondati di sonno. L’orizzonte bruciava.
Sul cuscino, un pezzo di carta e poche parole.
“Tra dieci anni. Al solito posto.”
Lapidario e indolore. Un filo di ironia che trasse sottilmente, ma senza alcun riso …
 
 

 
 
 

Siamo arrivati al traguardo, Maki. Non te ne sei reso conto, vero?
Mi dispiace. Perdonami, se puoi... Mi dispiace. Ma io avevo capito che se non me ne fossi andato, tu, pur di mentirmi, saresti rimasto con me fino alla fine; e so quanto male ti faccia, non potevo sopportare di sottrarti alla tua vita.
La bugia che mi hai raccontato, ne sono stato felice. Immensamente felice. Non sono mai riuscito a trovare le parole giuste... Mi dispiace.
Ci sono effettivamente così tante cose che non ci siamo mai detti, così tante cose che avremmo potuto fare insieme, così tante vite da vivere, incontrarci, ogni volta come la prima... Mi chiedo se attaccherai mai quelle assi in cucina, quelle che detestavi tanto; ti ricorderai di pagare i falegnami la prossima volta che vengono? Ora che ci penso, sul tavolo era rimasto del caffè da finire... Quando ti alzerai, immagino sarà già freddo; te ne farai un'altra tazza? Ho scordato di dirti che abbiamo finito ieri l’altro i filtri, li andrai a prendere in paese? Che cosa farai oggi, Maki? In quella casa... Su quella veranda... Vorrei immaginarti mentre vai a raccogliere la legna nel bosco, con indosso quella camicia di flanella a quadretti rossi che portavi sempre sbottonata, sopra una maglietta grigia; vorrei immaginare la tua schiena che si curva verso i rovi, le braccia nude tese e le dita agili a sfiorare l’edera fresca sui cumuli di tralci scricchiolanti, la nebbia dei boschi, il sole che sorge … Tutte le mattine della nostra vita. Sempre, sempre.
Maki ....
 
Aveva preso il pullman al primo chiarore dell’alba, quando Nora ancora dormiva. Si era seduto all’ultima fila, accanto alla finestra, sprofondando a riccio nel riparo tiepido del cappotto. La luce veniva da est, offuscata, lentamente. Baciava il vetro, la fronte ottenebrata, mentre i monti si allontanavano rapidamente in quel muto susseguirsi di fotogrammi inafferrabili e senza nomi, inerpicandosi e srotolandosi incessantemente ai margini della foresta, e i pensieri un po’ sonnolenti, sopra l’algido paesaggio nordico, le sue possenti conifere, le sue rocce aspre e nude; in qualche punto sotto il guardrail, doveva scorrere un ruscello... Aveva mai amato davvero questi luoghi? Tutto sommato, ne era abbastanza indifferente. Ma sarebbe stato bello morire qui, un giorno... Abbozzò quest’idea e subito la accantonò dietro a un sorriso. Lo sarebbe stato di certo.
... La prima volta che lo vide, lui stava leggendo il giornale sul treno. La seconda volta, non lo riconobbe; fu quando gli sferrò quasi un gancio destro dopo la partita. Maki non l’aveva mai saputo. Aveva una carnagione molto particolare, spalle ben piazzate e robuste; scarpe da ginnastica al posto dei mocassini e l’aria imbronciata di chi si è svegliato male la mattina. Per giorni, lo aveva osservato in silenzio, pensando che lui non lo avesse notato... La terza, non avrebbe più voluto lasciarlo.
Gli ci erano voluti 10 anni per capirlo.
Ma ora, non sarebbe tornato indietro...
“.....Signore e signori, vi preghiamo di tenere le cinture allacciate durante la fase del decollo.”
Nel rombo crescente del motore, l’attimo prima che i carrelli si staccassero da terra, sotto il bracciolo del sedile, Maki gli aveva stretto in silenzio la mano... Forse non avrebbe mai più sentito un tale senso di calore e felicità, come l’istante in cui partirono insieme dall’Aeroporto di Narita, dopo quel sussulto di esistenza consumata nell’inseguirsi e rinnegarsi, nel perdersi e ritrovarsi, tornare per scoprire di non essere mai partito, chilometro dopo chilometro da un capo all’altro del mondo, contando i giorni che lo separavano da lui e da quella mano, che ora sentiva distintamente nella sua, e che avrebbe voluto di certo stringere ancora e ancora, e ancora....
....... Maki ....
L’ultima traccia di neve, intravvista su una cima lontana, svanì dietro alla svolta dell’ennesimo tornante. Allora ricadde il sipario e venne buio nei suoi occhi.
Nella vertigine, i timpani che fischiavano per il cambio di pressione, la gola gli si strinse e il respiro cominciò a mancargli. Inchiodato alla rigidezza senza scampo dello schienale, tra le mani, un’ondata di disperazione lo assaliva.
... Maki ......... Maki ....
Sbandò fino alla prima stazione di servizio, dove scese e si precipitò in bagno a vomitare. Saliva, bile, anima. Si accasciò a terra accanto al lavabo e prese a tremare violentemente. Boccheggiò a vuoto ingoiando lacrime, il viso incatenato tra le braccia, il fiato incenerito dagli spasmi. Avrebbe voluto gridare, ma furono solo singhiozzi strozzati, contro una patetica fila di linoleum da rivestimento... Quando finì, dopo qualche minuto, riuscì a trovare la forza per rialzarsi e come niente fosse riprendere il viaggio.
 

Dopo un anno e nove mesi di questa fuggiasca vita insieme, lungo un tratto di strada asfaltata, Fujima lasciò il suo compagno. La sua famiglia. Per ridargli nuovamente la sua libertà e per riprendersi la propria.
I giorni si chiusero dietro al suo cammino e con essi la verità del suo cuore, che mai raccontò ad alcuno. E in fin dei conti, non aveva importanza.






 
"Everything done and said.

Lives beyond the quick and the dead.

Heritage passed along,

To the sons like a blessed song.

So raise your voices on high tonight...


I came a long long way back home,
To see you one more time,

To hold you and say goodbye."

A long way - Josh Garrels


 



 
 

 
Fine quarta parte_


“Välkommen tillbaka”= bentornato, disse il bimbo svedese al protagonista alla stazione di Abisko, che era un po lui stesso.
Saramiriza e Iquitos sono due città peruviane, mi affido al diario del regista di "Fitzcarraldo" per le impressioni sul Sudamerica. 
Secondo Google, la Svezia si sviluppa longitudinalmente in tre regioni naturali: Norrland (Abisko, Kiruna), Svealand (Nora, Stoccolma) e Götaland (Malmö). A dir il vero all'inizio la Svezia non era prevista e la loro separazione doveva avvenire in Perù... Negli stessi luoghi dove si erano innamorati i genitori, volevo che Fujima vi ritornasse insieme al suo compagno.
Mi sarebbe piaciuto poter spiaccicare lungo l'intero itinerario di lettura le basi sonore che avevano edificato la trama seppur barcollante, e invece ve li beccate qua (sempre che ne abbiate compiacimento). Cose a random, senza fondamenta intelligibile:
Coracao Selvagem - Joyce

Mother Earth - Killigrew (non la versione migiore)
Fortune's Fool - Hiatus, Shura
Promise me - Will Young (quarto cap)
 

(Du gamla Du fria - ft. Day, sesto cap)
(Aurora Borealis - John Clarke, sesto cap)


......

La storia non finisce qui... ho impressione di aver tralasciato un mucchio di dettagli vitali. Tipo una scena fondamentale Kainan-Shoyo, oppure il ritorno di Fujima dopo un anno e la rottura definitiva... Se potessi riscriverla. Per il finale, se avrete ancora voglia di seguirmi, vedrò di ponderarci sopra. Tempo. Datemi solo tempo. 
  
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