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Autore: GiuliaStark    15/12/2015    0 recensioni
Brooklyn, inizio anni novanta. Un gruppo di otto ragazzi, amici fin dalla nascita; tutti diversi tra loro eppure così uguali. Michael, Calum, Joey, Elizabeth, Ashton, Kayla, Luke e Ross. Gli outsiders del quartiere, i casi sociali, i sognatori, quelli che sfidavano i limiti della vita cercando di respirarne il più possibile. Quelli che trovavano un porto sicuro tra di loro, che si raccoglievano i pezzi a vicenda per ricomporli assieme. La musica come scudo dal mondo, il solito pub come rifugio e la loro voglia di scappare come una tacita promessa. Le promesse che sia fanno tra amici alle due mattina, da ubriachi mentre si vaga per strada ma che alla fine sono quelle che rimangono, sono le più vere. Le avventure, disavventure, i loro sbagli, i sogni e gli amori di un’età sempre in bilico tra la follia e l’oblio. Una generazione abbandonata a se stessa. Una storia: la loro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Perdonate il clamoroso ritardo, ma gli impegni scolastici mi tolgono tutto il tempo libero. Per farmi perdonare ho scritto un capitolo abbastanza lungo, spero che vi piaccia e che non vi risulti pesante, ma le cose che ho scritto mi sono venute spontaneamente e servono a descrivere con maggior attenzione la vita di questi otto ragazzi. Spero rimarrete soddisfatti e che lascerete anche una piccola recensione.
Detto questo vi lascio alla lettura.
un bacio, a presto

GiuliaStark

~~
Brooklyn era una città molto grande, ma c’erano pochi luoghi che sentivamo veramente nostri come il pub. Uno di questi si trovava nei pressi dei vecchi attracchi dei battelli, proprio in prossimità del ponte. Quel grande gigante di ferro che da una parte ci faceva sentire protetti, mentre dall’altra ci incuteva un profondo timore. Una volta Calum mi disse che lui vedeva il ponte come un divisorio, come se volessero confinarci qua e separarci dal resto del mondo. Ero d’accordo. Questa città sembrava maledetta agli occhi di molti. Era come se fossimo confinati qua, come se non dovessimo provare a scappare perché altrimenti avremmo intaccato ogni cosa con la nostra oscurità. Ci sedevamo spesso quaggiù sui container una volta usati come alloggi per gli operai, ci fermavamo lì ed ammiravamo da lontano Manhattan. La città dello sfarzo, dei ricchi, di quelli che, apparentemente, stavano meglio di noi dei borghi ma che in realtà non avevano nulla. Loro non sapevano cosa voleva dire un’amicizia come la nostra, non sapevano come ci si sentiva ad essere se stessi. Anche noi portavamo una maschera delle volte, ma la loro era certamente più pesante. Il loro mondo non era reale. Non era la vera vita quella che respiravano, ma soltanto una farsa. Non conoscevano quel brivido di follia che ti prendeva dalle viscere e ti scuoteva fino al midollo, che ti faceva tremare di gioia. No. Vivevano in una bolla. Avevano una vita perfetta e programmata nei minimi dettagli; non erano ammessi fuori programma o colpi di testa. Loro non avevano nulla. A quest’ora della mattina la città si stava svegliando. I ragazzi come noi andavano a nascondersi nelle ombre, calavamo la maschera diventando sagome silenziose e lasciavamo il posto a chi sapeva come vivere sotto la luce del giorno senza rimanerne danneggiato. Loro andavano liberamente in giro per le strade, noi le evitavamo. I vecchi attracchi non erano un luogo frequentato e questo lo rendeva ancora più speciale perché lo vedevamo come un piccolo rifugio dal quale potevi ammirare da lontano la vita che andava avanti mentre la tua aveva deciso di fermarsi un po’. Le nostre erano perennemente arenate proprio come la vecchia carcassa del battello che giaceva ancorato qualche metro più in là, coperto di ruggine ed abbandonato da tutti. Un po’ come noi. Ovviamente avevamo le nostre scorrazzate, le nostre piccole avventure ed i nostri luoghi di ritrovo, ma in generale eravamo fermi. Ci muovevamo sempre nello stesso spazio, come un trenino che girava in tondo sulla ferrovia giocattolo dov’era posto. Non uscivamo mai dai nostri binari, ci sentivamo protetti ed al sicuro all’interno di essi, come se ci difendessero dalla crudeltà di quello che ci circondava. In realtà era la solita favoletta che ci raccontavamo per giustificare la paura che avevamo di andar via che faceva a pugni costantemente con la voglia di essere liberi. Dio mio che menti malate siamo. Eravamo complicati fuori misura e pieni di insicurezze a doppio senso che si scontravano con i nostri sogni. Sogni che tenevamo ben nascosti o, a seconda dell’umore, ben stretti nelle mani. I desideri di un gruppo di sognatori al quale era stato tolto questo privilegio molto tempo fa; ma la vita è così che ti tratta. O almeno tratta così quelli come noi. I ragazzi di Brooklyn non venivano trattati con i guanti. Delle volte sembrava di vivere in un grande riformatorio pieno di ragazzi tristi e dagli occhi spenti, ragazzi che gridano senza emettere un fiato, che chiedono aiuto senza essere ascoltati da nessuno, che cadono e non si rialzano. Noi eravamo fortunati. L’uno aveva l’altro, in questo modo sapevi che, almeno in parte, non eri solo, che c’era qualcuno pronto a prenderti se cadevi a terra, qualcuno che asciugava le tue lacrime se piangevi, ma soprattutto che ascoltava le tue urla se gridavi. Ed era questo che spesso e volentieri facevamo qui. Urlavamo. Liberavamo le nostre anime dal peso che ci portavamo dietro, davamo sfogo al nostro dolore gridando verso il cielo, verso il ponte, verso Manhattan e, soprattutto, verso il mondo intero. Sentivamo le nostre voci disperate riecheggiare fino perdersi in lontananza verso l’orizzonte, fin quasi ad arrivare dove la terra toccava il cielo. Il più delle volte facevamo a gara a chi urlava più forte. Ci sedevamo sul bordo del container e davamo sfogo a tutto ciò che avevamo dentro; ascoltavamo le urla l’uno dell’altro. Ne studiavamo la consistenza, controllavamo il grado di disperazione, ci perdevamo in quel suono straziante che esprimeva i nostri stati d’animo più di mille parole. Anche oggi eravamo seduti qui, accanto a me Kayla e vicino a lei l’immancabile Ashton. Chissà se lei si sarebbe mai accorta di cosa provava nei suoi confronti. Gli altri parlavano allegramente mentre io mi ero momentaneamente isolata. Vagavo con la mente in una specie di dimensione parallela che mi isolava da ciò che avevo intorno. La tranquillità che c’era qui era talmente appagante che era come se risanasse l’anima, anche quella più oscura e nera qui poteva trovare facilmente riposo. Perfino la mia taceva. Nulla, nemmeno un suono, perfino le grida nella mia testa sparivano magicamente:

- Ehi, terra chiama Ross, ci sei? – fu la voce di Joy a riportarmi alla realtà.

- Ehm… scusate – ridacchiai – Dicevate? – mi voltai a guardarla e notai il suo sorriso divertito.

- Che ti prende? – domandò Cal alzando le sopracciglia.

- Già, di solito sono io quella che ha la testa tra le nuvole – sorrise Beth.

- Tranquilla non ti ruberei mai il ruolo tesoro – le feci l’occhiolino mentre mi accendevo una sigaretta.

- Allora? – guardai verso Michael – Che ti prende? –

- Stavo pensando – feci spallucce.

Aspirai del fumo dalla sigaretta e lo buttai fuori guardando in alto verso il cielo godendomi la leggera brezza del fiume. Continuavo a guardare in alto e a lasciare in sospeso la domanda di Mike anche se sentivo letteralmente gli occhi di tutti su di me. Non è mai stato una novità per loro il mio strano carattere. Beh a dire la verità eravamo tutti strani, ma io lo ero in modo diverso. La mia stranezza era quella scura, quella che nei momenti più inaspettati ti metteva una nuvola grigia addosso rovinandoti anche i bei momenti come questo. Continuavo a guardare avanti a me verso l’orizzonte, guardavo Manhattan, il cielo, ammiravo ogni dettaglio, respiravo la vita degli altri per compensare l’assenza della mia. Mi piaceva nutrirmi della bellezza che avevo attorno, che fosse di una persona, un paesaggio, un oggetto o una foto, perfino una canzone; qualunque cosa contenesse bellezza la facevo mia. La immagazzinavo dentro di me come a voler coprire la mia aura scura, a volerla mascherare, nasconderla per paura che magari si vedesse troppo. Questo accadeva soprattutto nei momenti in cui mi sentivo forte e sicura di me, quando mi sentivo in grado di arrivare sul tetto del mondo e urlare per farmi sentire, per dire che c’ero; questi momenti, però, capitavano solo quando ero con i miei amici. Quando ero sola invece mi sentivo estremamente fragile, insicura, come se fossi scoperta e vulnerabile a qualsiasi colpo mi fosse stato inferto dalla vita; dovevo però ammettere che delle volte amavo sentirmi così. Mi piaceva percepire quella sensazione di estrema fragilità che mi pesava sulle spalle, mi piaceva crollare sotto il peso di essa per poi rimettere insieme i pezzi ricostruendo una nuova me più forte e scura dentro, ma anche più danneggiata:

- Ross? –

La voce di Luke mi riportò alla realtà ricordandomi che aspettavano ancora una mia risposta; lo guardai di sfuggita negli occhi e notai la sua espressione. Aveva lo sguardo puntato su di me, uno sguardo indagatore. Quando Luke ti osservava lo faceva con attenzione, come se volesse leggerti attraverso le barriere fino a toccarti l’anima; si fermava e stava in silenzio con le labbra leggermente dischiuse e si perdeva in te. Nei tuoi gesti, nelle tue parole e nei tuoi sguardi. Amava capire le persone, farle in qualche modo sue per poi trasformarle in testi di canzoni. Luke era il vero artista del gruppo. Sospirai e sorrisi nuovamente tra me e me mentre ripresi a guardare il fiume:

- In realtà stavo pensando di trasferirmi qua – dissi mentre aspiravo altro fumo dalla sigaretta.

Calò un leggero silenzio durante il quale si scambiarono degli sguardi confusi e delle risate divertite; Kayla si girò verso di me, e dopo aver aspirato del fumo dalla mia sigaretta, mi sorrise facendomi l’occhiolino:

- Ma sei seria? – domandò Joy con una risatina ed un’espressione abbastanza confusa.

- Serissima! – esclamai con un sorriso velato.

- Tu sei tutta strana – ridacchiò Calum scuotendo la testa mentre cacciava fuori una risata.

- Mi hanno fatto insulti peggiori – feci spallucce mentre facevo cadere un po’ di cenere dalla sigaretta – E poi senti chi ha parlato, Mister Normalità – lo imbruttii mentre lui alzava il dito medio verso di me; sgranai gli occhi fingendomi offesa e mi alzai leggermente per tirargli un buffetto dietro il collo.

- Io dico che non è una cattiva idea – disse Kayla mentre aspirava nuovamente dalla mia sigaretta.

- Grazie! – esclamai sollevata che qualcuno la pensasse come me.

- Beh si, ha il suo fascino vivere in stile eremita e contemplare ciò che ti circonda finché non diventerai pazza per il troppo silenzio – aggiunse Mike in tono sarcastico.

- Più o meno – ridacchiai.

- Io lo trovo un ottimo rifugio – aggiunse Beth mentre guardava il cielo sopra le nostre teste e fantasticava – Sapete quando non vuoi essere trovato e allora ti crei il tuo piccolo fortino? Beh, qui sarebbe perfetto – guardò di sfuggita verso di me per poi tornare a fissare le nuvole con un leggero sorriso sul volto, il sorriso da sognatrice che la rappresentava e che noi tutti amavamo – Potresti chiuderti qui nella tua piccola bolla felice e lasciarti tutto alle spalle, quaggiù nessuno verrebbe a cercarti, no? –

- Esatto… - sussurrai mentre mi osservavo le punte degli anfibi – Qui spariresti facilmente -

- E tu vuoi sparire? – domandò Luke inarcando le sopracciglia e dischiudendo leggermente le labbra rosee.

Sentivo lo sguardo di tutti puntato addosso; non era una novità per noi fare discorsi del genere, ma non sapevo perché ogni volta li tiravo in ballo io tutti diventavano più cauti, forse perché temevano che lo avessi fatto veramente prima o poi. Spesso mi chiedevo se ne avrei avuto veramente il coraggio, prendere il necessario e sparire. Nascondermi dal ponte, da Brooklyn, da quella che era la mia famiglia sfasciata e soprattutto dalla me stessa che mi sarei lasciata alle spalle. Partire mi avrebbe fatto bene. Respirare aria nuova, aria pulita che non sapesse di disperazione e prigionia era ciò che un giorno avrei sperato di fare; magari sarei potuta partire e creare una nuova Ross, cambiare nome, personalità. Spogliarmi della vecchia me e vestirmi di nuovo, di pulito, smacchiare la mia anima dal nero che l’aveva intaccata e semplicemente vivere ancora:

- Perché no? – sospirai seppur mantenendo un mezzo sorriso – Qui è tutto così tranquillo, tutto tace, perfino l’urlo di Brooklyn non arriva fin qui –

- Ross, sai cosa intendiamo per sparire – precisò Ash con sguardo serio.

Guardai Ashton negli occhi e in quell’istante notai una leggera preoccupazione. Lui era fatto così, al minimo segnale che qualcuno stava male scattava. Non importava il momento o l’ora, no. Per lui era importante aiutare gli altri prima di se stesso. Spostai lo sguardo anche sugli altri e piano piano vidi nascere sui loro volti la stessa espressione, così, per non affrontare l’argomento ora, sorrisi e scossi la testa. Non volevo allarmarli inutilmente, ma purtroppo ogni tanto la mia nuvoletta nera veniva a farmi ombra:

- Io, sparire? – inarcai le sopracciglia – Non vi libererete così facilmente di me –

- Meglio così – annuì Mike con un’espressione fin troppo seria sul volto.

- Ciò non toglie che non sarebbe affatto male vivere qui – ribattei mentre buttai la cicca a terra e la schiacciai con la suola della scarpa.

- Si ok, sarà pure fighissimo e tutto quello che volete, ma io lo trovo anche leggermente poco igienico – ribatté Joy mentre Calum annuiva d’accordo con lei.

- Ma perché dovete sempre smontarci tutto? – sbuffò Kayla – Non cogliete la bellezza e l’essenza di questo posto –

- Tesoro lo sai che ti vogliamo bene, ma ti prego, le frasi da filosofa non le sai fare –

- Fanculo Hood – rispose con un mezzo sorriso mentre si accendeva una sigaretta.

- E tu Lukey? Non dormiresti qui? – gli domandai con un sorriso furbo.

- Con te? – inarcò le sopracciglia.

- Oh, oh! – esclamò Michael scambiandosi uno sguardo d’intesa con Calum – Questo è un chiaro invito –

- Certo! Un invito a prenderle – risposi scuotendo la testa.

- Ma perché oggi vuoi solo picchiare la gente!? – esclamò il biondo gettando le braccia all’aria.

- Forse perché voi quattro idioti mi ispirate violenza? – risposi retorica.

- Sicura che ti ispiriamo solo quello? – domandò Calum con aria maliziosa facendo scoppiare tutti a ridere mentre io continuavo a guardarlo minacciosamente ma con pur sempre un leggero sorriso.

- Non credo che vorreste sapere la mia risposta – scossi la testa alzando lo sguardo al cielo.

- Andiamo Ross, sappiamo che siamo irresistibili – disse Mike facendo l’occhiolino.

- Oh si, si – esclamò Joy – Basta crederci ragazzi –

- Ahi – tutti e quattro contemporaneamente si misero una mano sul cuore fingendo un forte dolore – Così ci ferisci profondamente tesoro –

- Sopravvivrete – ridacchiò Kayla facendo spallucce.

- Senza le nostre ragazze preferite? Non credo – aggiunse Ashton scuotendo la testa.

- Dite così solo perché non avete uno straccio di ragazza – ridacchiò Beth mentre li prendeva in giro.

- Questo lo prendo come un insulto personale! – le disse Calum fingendosi offeso mentre le puntava il dito contro.

- Prendetelo come vi pare, ma è così – ridacchiai.

- Vi dimostreremo il contrario allora – rispose Luke guardando fisso verso di me e battendo il cinque a Cal.

Mi aprii in un leggero sorriso ed abbassai la testa distogliendo lo sguardo da lui. Erano solo un gruppo di quattro ragazzi idioti con gli ormoni in panne, pronti a fare qualunque cosa pur di mostrare che sapevano il fatto loro. Mentre gli altri continuavano a blaterare mi venne in mente quella volta che Calum e Michael fecero una scommessa. Era una di quelle cose stupide che si fanno tra maschi per farsi ‘’grandi’’ con gli amici. In poche parole quei due grandissimi idioti avevano scommesso a chi avrebbe invitato per primo ad uscire Sally Roseswitt, la ragazza più popolare della scuola nonché la più… beh mi verrebbe da dire idiota, ma poi risulterebbe poco carino, quindi mi limiterò a dire che non brillava per intelligenza quando si trattava di questioni morali. Sally era una di quelle ragazze che si sentivano il centro esatto dell’universo semplicemente perché aveva i soldi per poterselo permettere. Non era una cattiva ragazza, solo che basava esclusivamente la sua vita sull’apparire, un po’ come i ragazzi che vivevano a Manhattan. Lei non era stata intaccata dall’anima di Brooklyn e in un certo senso la invidiavo anche, mentre dall’altro non sapevo se mi incuteva una certa tenerezza o meno; io ero diventata così grazie a questa città ed alle sue strade, avevo permesso che mi entrassero dentro e mi plasmassero a loro piacimento come un pezzo d’argilla. Lei no. Lei era, in un certo senso, ‘’pura’’ dal nero, ma troppo bianca e luminosa per la gente come noi. La strada ti formava, ti induriva, ti aiutava a vedere le cose come stavano veramente e nascondersi per impedirlo non ti garantiva la sopravvivenza, anzi, era come se avessi firmato la tua condanna a morte. Tornando alla scommessa, beh ecco… diciamo che nessuno dei due era riuscito pienamente nell’intento visto che Sally, non solo aveva accettato entrambi gli inviti ma li aveva anche bidonati non presentandosi all’appuntamento. Le loro facce furono epiche, anche se credo che per loro fu tutt’altra storia vista l’umiliazione subita al loro inesistente, o quasi, orgoglio maschile. Una cosa che ogni volta che ero a scuola mi balzava in mente era che molto probabilmente Sally aveva una stratosferica cotta per Luke. Delle volte mi capitava di sorprenderla a guardarlo da lontano per i corridoi, in mensa, una volta perfino in classe, cosa rara per lei visto che teneva moltissimo al suo rendimento scolastico. Mi veniva da ridere: la ragazza super perfetta che si prendeva una sbandata per il ragazzo problematico… tipica storia da film sdolcinato. Peccato che Luke non la guardasse neanche e lei, abituata alla moltitudine di ragazzi che le morivano dietro, non accettava il fatto di essere ignorata. Tornai alla realtà per qualche secondo e mi voltai verso gli altri: Calum e Michael erano impegnati a fare gli idioti, come sempre del resto, in una sorta di gara a chi riusciva ad infilarsi più sigarette in bocca, cosa che fece letteralmente inorridire Ashton che alzò gli occhi al cielo in segno di disperazione e magari pregando anche qualche divinità che un po’ di intelligenza si fosse insinuata in quei due cervelli vuoti. Sorrisi leggermente e mi strinsi le gambe al petto poggiando la guancia sulle ginocchia e semplicemente godendomi lo spettacolo che avevo di fronte: quei due continuavano a riempirsi la bocca, Ash pregava ancora in tutte le lingue del mondo per fermarli ed evitare una corsa al pronto soccorso, Beth e Joy li guardavano allibite a metà tra l’ammirazione e lo spavento ma con sempre quel loro sorriso speciale che spuntava solo quando si trattava di Mike e Cal; Kayla… niente, lei rideva e basta, gettava la testa all’indietro e si lasciava andare in una risata di pura gioia regalandoci il privilegio di ascoltare la sua voce cristallina che riempiva l’aria. Quando rideva Kayla tutto si fermava, forse perché era quella che lo faceva di meno. Lei diceva lo stesso di me. Una volta mi fece notare che quando ridevo io tutti si fermavano a guardarmi, come se fosse uno spettacolo riservato a pochi; mi diceva che risate come le nostre erano speciali perché non si sentono spesso, sono come dei tesori nascosti che tutti cercano e che delle volte saltano fuori inaspettatamente. Aveva una visione completamente sua di ogni cosa, una visione artistica, da sognatrice silenziosa rispetto a Beth che, invece di mascherarlo, lo andava a sbandierare fiera davanti a tutti. Delle volte mi sorprendeva la mia somiglianza con Kayla, sembravamo due parti divise di un’unica cosa. Aveva la sua stramba teoria che ci vedeva come sorelle, ma che, per tragici motivi, furono separate alla nascita ed adottate da due famiglie diverse. Lei raccontava, io la ascoltavo e ridevo beandomi della sua esaltazione nel volermi assolutamente come parte di lei. Due anime buie e nere che in un modo malsano riuscivano ad amalgamarsi perfettamente alla luce brillante dei nostri compagni di malefatte. Improvvisamente mentre mi beavo della bellezza di quel momento, qualcosa di remoto bussò alla parte cosciente della mia testa portando a posarsi su di me nuovamente la mia solita nuvoletta: dovevo tornare a casa. Mi alzai dal tetto del container e mi tolsi la polvere dalle gambe, mi guardai intorno e con un sospiro mi voltai verso gli altri:

- Dove vai Ross? – mi domandò Michael.

- Devo tornare a casa – dissi sospirando mentre alzavo gli occhi al cielo.

- Sicura di voler andare? – mi domandò Ash con cautela.

Non appena avevo accennato al fatto che sarei tornata a casa tutti si erano zittiti, perfino l’ambiente attorno a noi sembrava essersi fermato e questo succedeva ogni volta. Tutti erano terrorizzati dal mio ‘’torno a casa’’. Forse perché non si sentivano tranquilli, soprattutto visti i precedenti con James, il compagno di mia madre:

- Devo per forza ragazzi, vorrei rimanere ma sapete la situazione –

- Tranquilla tesoro, ti capiamo perfettamente – sorrise leggermente Joy.

- Grazie – sussurrai.

- Ci vediamo dopo? – domandò Cal con una certa incertezza della voce.

- Che avete in mente di fare? –

- Volevamo andare allo skate park nel pomeriggio – fece spallucce.

- Ok, va bene – annuii mentre con la testa ero già proiettata verso quello che mi aspettava una volta tornata a casa.

- Sicura di star bene? – chiese Beth osservandomi con i suoi grandi occhioni scuri.

- Non lo so… - feci spallucce con un mezzo sorriso – Non credo che la parola ‘’bene’’ mi si addice molto -

- Siamo in due bambolina – mi fece l’occhiolino Kayla mentre ci scambiavamo un sorriso d’intesa.

- Sai che ci siamo per qualunque cosa, no? – ribadì Ash con la sua solita espressione seria che improvvisamente gli calava sul volto in questi casi.

- Lo so ragazzi, lo so – ridacchiai.

- Vuoi che ti accompagno? – mi chiese Luke con un filo di voce mentre mi guardava con attenzione.

- Tranquillo, non serve – sorrisi leggermente.

- Come vuoi – sospirò – Allora ti passo a prendere più tardi per andare allo skate park –

- Non ho bisogno della balia – ridacchiai scuotendo leggermente la testa ed incrociando le braccia al petto.

- Ma sta zitta – rise anche lui – Tu adori avermi intorno –

- Non contarci troppo Hemmings – sorrisi nuovamente, poi mi voltai verso gli altri – A dopo ragazzi –

- A dopo! – risposero tutti assieme.

Scesi dal tetto del container e con le mani nelle tasche mi diressi verso casa, anche se chiamare quelle quattro mura ‘’casa’’ era un parolone. Forse ero io che sbagliavo ed affibbiavo quella parola ad un luogo dove ti sentivi amata e protetta, ma non potevo farci niente… lì c’era tutto fuorché amore, anzi, regnava solo l’indifferenza. Un’indifferenza fredda e glaciale di chi ormai aveva privato se stesso dei sentimenti positivi che poteva provare e riempiendosi solo di freddezza. Eravamo agli inizi di agosto e faceva un caldo tremendo, quel caldo che ti mandava a fuoco la pelle anche se ti trovavi in ombra e che sembrava volerti sciogliere fino alle ossa per poi farti sparire. Delle volte credevo che sarei evaporata nel nulla. Le uniche cose positive dell’estate erano le vacanze e le lunghe nottate passate fuori a cantare in strada e guardare le stelle; per il resto preferivo di gran lunga l’inverno. Amavo avvolgermi nelle coperte e sentirmi circondata dal calore, una calore artificiale che sostituiva quello che non ricevevo dalla mia famiglia. Forse era questa la cosa che preferivo di più di quella stagione. Potevo facilmente sostituire le mancanze affettive semplicemente stringendomi nelle coperte o ad un qualche stupido peluche. Mi sentivo incredibilmente patetica. Ma cos’altro potevo fare? Dovevo tappare i buchi e quello era l’unico modo per farlo. Quello ed i miei amici. Di molte cose non avevo alcuna certezza, ma su una in particolare non avevo dubbi: la casa era dove si trovava il cuore. Non doveva trattarsi unicamente di un luogo preciso formato da un paio di muri, no, poteva benissimo essere un luogo comune come ad esempio il bar o gli attracchi, poteva trattarsi di un oggetto che ti dava familiarità o una persona. Per me il significato di casa era strettamente legato a quella banda di scalmanati che chiamavo amici. Loro sapevano sempre come accoglierti, come comportarsi, come farti sentire ben accetto e parte integrante di qualcosa. Eravamo l’uno la casa dell’altro. Non solo la forza, ma anche il rifugio. Per tornare indietro bisognava passare in mezzo ad una vecchia strada abbandonata ai cui lati si innalzavano dei grandi palazzoni in mattoni dal leggero color sabbia, come se chi li aveva costruiti, usando una tonalità più chiara, avesse voluto in qualche modo smorzare l’imponenza di quegli edifici. Questo vicolo era abbandonato da anni. I palazzi erano in rovina, le finestre sbarrate, altre rotte, graffiti e scritte varie comparivano sulle pareti come a testimoniare l’abbandono. La strada era qua e là ricoperta da fogliacci e pezzi di carta vari lasciati dai pochi che osavano avventurarsi fin qui per scendere fino agli attracchi, come a testimoniare il loro passaggio ed il coraggio di essersi spinti fin qua. Volevano lasciare un pezzetto di loro. Era una strada fantasma. Delle volte ai lati dei marciapiedi era parcheggiata qualche auto, sicuramente rubata, ma la cosa che faceva più impressione era il grande silenzio che c’era. Come se si entrasse in una specie di dimensione parallela fuori dal mondo dove i suoni non esistevano, nulla, tutto taceva e le orecchie ti scoppiavano per la troppa tranquillità paragonata con l’intenso cuore pulsante della città. La maggior parte delle volte che vi ci passavo alzavo lo sguardo e mi fermavo ad osservare quelle grandi costruzioni che avrebbero dovuto ospitare qualche casa, ufficio o fabbrica e mi perdevo nella loro maestosità ed inquietudine, nel loro abbandono al nulla. Era come se Brooklyn li avesse inghiottiti. Anche loro erano caduti sotto la rovina di questa città. Grandi ammassi di mattoni e cemento ridotti a degli scheletri, quasi spettri agli occhi della gente. Ombre che stavano ai lati della strada ed osservavano silenziose e pazienti, che ti squadravano, ti incutevano timore e nel frattempo aspettavano. Aspettavano di venir corrose dal tempo, aspettavano di vivere e nell’attesa osservavano la vita degli altri che gli scorreva intorno facendo di essa i propri ricordi ed il proprio vissuto. Vedevano generazione dopo generazione andar via, le vedevano trasformarsi in polvere mentre loro resistevano oltre lo spazio ed il tempo rendendosi immortali, invincibili. Rendendosi complici della maledizione di Brooklyn. Non appena mi ritrovai davanti la porta di casa fui subito invasa da un impulso che mi spingeva ad andarmene, fare marcia indietro e tornare dai ragazzi ma non potevo. Odiavo dover stare in questa casa ma non avevo scelta, l’unico luogo a darmi conforto lì dentro era la mia camera. Guardavo immobile quella costruzione a due piani e mi sentivo come imprigionata in una gabbia di filo spinato. Era una casa di periferia in mattoni rosso scuro e gli infissi bianchi sbiaditi dal tempo: aveva un’atmosfera cupa e sinistra, come a volermi ricordare la sofferenza che mi aspettava all’interno, anzi, sembrava che quella stessa sofferenza trasparisse in ogni dettaglio, come se volesse uscire fuori e scappare dalla sua stessa prigione. Tirai un lungo sospiro e mi avvicinai alla porta aprendola con le chiavi; appena misi piede all’interno un forte odore di alcool e fumo mi arrivò alle narici facendomi spuntare sul volto un’espressione di puro disgusto. In un paio d’ore che ero mancata la casa si era trasformata in un porcile e sapevo perfettamente a chi attribuire la colpa: James, il compagno di mia madre. Lo disprezzavo. Non poteva essere nemmeno considerato un uomo visto che era molto più giovane di lei; veniva qui quando gli faceva più comodo e tutto quello che sapeva fare era bere, fumare, svuotarci il frigo ed alla fine, come se non bastasse, mettere tutto a soqquadro. Mi chiusi la porta alle spalle e nel mentre mi uscì un altro sospiro; mi guardai attorno e già dal corridoio notai varie bottiglie mezze vuote sparse a terra ed alcune cicche vicino ad esse. Non sapevo perché mia madre gli dava il permesso di comportarsi così. Lo aveva fatto entrare con prepotenza non solo nella sua vita, ma anche nella mia; gli concedeva di dormire qui per giorni, di mangiare con noi, di rovistare in casa e rubarle i soldi che già di loro scarseggiavano. Stava sfruttando mia madre e lei non se rendeva conto, anzi, gli dava perfino il via libera per farlo; era come se non le importasse di altri che lui. Ciò che pensava, diceva o faceva per lei valevano oro, come se fossero vitali. Ogni volta che doveva prendere una decisione si rivolgeva sempre a lui. Sembrava quasi lo venerasse. All’inizio dello scorso anno quando tutto cominciò non dissi nulla perché capivo il suo bisogno di avere qualcuno accanto dopo anni; mio padre ci aveva lasciato quando ero piccola e non aveva dato più notizie di se. L’unica cosa che ricevetti da parte sua fu a tredici anni per Natale: era un piccolo pacchetto con dentro una miniatura del London Bridge direttamente dal suo ultimo viaggio e con esso una cartolina che riportava poche parole, perlopiù formali, e che in grandi linee dicevano che si era trasferito a New York. Mia madre non superò mai il divorzio e quando mi presentò James come suo nuovo compagno sperai veramente che l’avrebbe resa felice, poco importava se aveva 9 anni più di me, poco importava se non aveva un lavoro ed i suoi genitori lo buttavano fuori casa di tanto in tanto; l’unica cosa che contava era che alla fine di tutto mia madre sarebbe stata meglio. Ma questo non accadde. Lei credeva di essere felice. Non si rendeva conto di quello che le faceva James, delle liti da ubriachi, degli oggetti che volavano e delle nottate che trascorrevano fuori fino all’alba. Delle volte sparivano per giorni senza dare notizie ed al loro ritorno mia madre sembrava sempre più stanca, magra ed invecchiata. Non sapevo dove andavano e sinceramente nemmeno volevo saperlo, mi chiudevo nella mia camera lasciando tutto fuori dalla porta e mi perdevo a fissare il soffitto per ore finché la vista mi si offuscava o qualcuno dei miei amici veniva a bussarmi alla porta riportandomi alla realtà. Da un lato potevo anche capirla. Si sentiva desiderata dopo tempo, anche se era in modo malsano ed osceno, a lei non importava. Aveva James e sembrava che lui fosse tutto quello di cui aveva bisogno. Ero completamente sparita ai suoi occhi, mi considerava poco più di un’ombra che vagava per casa ed ogni tanto si degnava di sedersi con loro a tavola a giocare alla famiglia felice. James mi aveva tolto quella che una volta consideravo mia madre, l’aveva cambiata e riportata a me come una persona diversa. Non sprecherò tempo a dire che mi mancava la nostra vita a due senza nessun uomo intorno o che mi mancava il suo affetto perché anche quando eravamo solo noi sembrava una candela esposta al vento e che minacciava di spegnersi, no, non mi sarei abbandonata a quei ricordi. Dovevo rendermi forte, determinata e cercare di cacciare da questa casa quell’ammasso di immondizia che era James. Raccolsi con uno scatto di rabbia le bottiglie ed entrai a passo spedito in cucina, presi un sacchetto di plastica e le misi all’interno, poi iniziai a mettere in ordine il disastro che c’era in quella stanza. Era pieno di lattine di birra, bicchieri, altre bottiglie di alcolici, piatti sporchi, confezioni di biscotti e patatine, un cartone della pizza ed altre cicche. Delle volte avevo provato a non riordinare e far vedere a mia madre il disastro del suo compagno, ma lei sembrava come se avesse le bende sugli occhi. Era inutile parlarle e soprattutto parlar male di lui, non ascoltava, dava la colpa a me perché per lei era più semplice rinnegare me che il suo ‘’grande amore’’ come lo chiamava lei. Mentre ero indaffarata a sistemare sentii dei passi pesanti scendere giù dalle scale, segno che James era ancora qui ad appestare questa casa. Nonostante fossi in cucina riuscivo a sentire la puzza che si portava dietro; avevo i nervi a fior di pelle:

- James! – uscii a passo svelto dalla cucina e determinata andai verso di lui – Quante volte ti ho detto che non voglio sentire in casa mia la puzza del tuo alcool e delle tue sigarette da quattro soldi! –

Si voltò a guardarmi con quegli occhi verdi e acquosi per via dell’alcool e chissà quale delle altre sostanze di cui faceva uso; si vedeva lontano un miglio che era ubriaco fradicio e non erano nemmeno le tre del pomeriggio. Io non mi reputavo migliore di lui. Bevevo e fumavo anche io, ma lo facevo lontano da mia madre, lontano dalla mia casa e mai mi sarei presentata qui ubriaca fradicia quanto lui. Mi guardava dall’alto in basso con quell’espressione da malato di mente che aveva, come se avrebbe voluto da un momento all’altro saltarmi addosso. Si sentiva padrone di questa casa, di mia madre ma non riusciva ad avere anche me e questo lo infastidiva:

- Buongiorno anche a te tesoro – disse con un disgustoso sorriso mentre si poggiava alla ringhiera delle scale.

- Non chiamarmi tesoro – risposi la con solita espressione disgustata che gli riservavo – Ancora devo capire cosa ci trova mia madre in te – dissi a denti stretti mentre mi voltavo per tornare a sistemare la cucina.

Non appena mi voltai, James mi afferrò per un braccio e con forza mi spinse all’indietro finché non finii con le spalle al muro. Era davanti a me, pochi centimetri ci separavano; potevo sentire l’odore del suo alito appestato dall’alcool, la sua puzza di fumo e sudore e tutto ciò mi dava la nausea. Il solo contatto con la sua pelle mi faceva ribrezzo in un modo indicibile. Con la mano sinistra teneva ancora stretto il mio braccio impedendomi così ogni movimento, mentre la destra era poggiata sulla parete dietro di me. Ero bloccata lì, tra lui ed il muro. Mi continuava ad osservare in ogni minimo dettaglio, come se volesse farlo suo, assorbirlo. Voleva che mi sottomettessi come mia madre. Lo spazio tra noi era così ridotto che sentivo le punte dei suoi capelli sfiorarmi le guance facendomi rabbrividire dal ribrezzo e dalla paura. Cercai di divincolarmi ma nulla, nonostante fosse ubriaco continuava ad essere molto più forte di me; aumentò la stretta attorno al mio braccio facendomi leggermente male, mentre spostò l’altra mano dal muro al mio fianco direttamente sotto la maglietta. Rabbrividii nuovamente alla sensazione della sua mano calda e sudata a contatto diretto con la mia pelle e trattenni ancora una volta i conati di vomito; distolsi lo sguardo girando il volto verso sinistra e lo puntai verso la porta. Lui rise. Una roca e profonda risata che gli veniva direttamente da dentro e che non faceva che confermare la mia teoria che, oltre ad essere ubriaco, era decisamente pazzo:

- Vieni in camera da letto e te lo faccio vedere tesoro – mi sussurrò all’orecchio mentre continuava a strofinarmi il fianco.

Quando si avvicinò ancora di più mi irrigidii cercando in qualche modo di divincolarmi prima che riuscisse a fare qualunque cosa avesse in mente, così, presa da un impeto di rabbia, lo spinsi via con tutte le forze che avevo riuscendo finalmente a staccarmelo di dosso:

- Mi fai schifo – dissi a denti stretti mentre cercavo di trattenere il fiatone che avevo.

- Ah si? – sorrise leggermente – Io non credo proprio – disse mentre mi afferrava per i fianchi spingendomi ancora al muro.

- Toglimi le mani di dosso –

- Altrimenti cosa fai? – domandò retorico mentre mi prendeva il mento tra il pollice e l’indice avvicinando il mio viso al suo – Mi scateni contro uno dei tuoi amichetti disagiati come l’altra volta? – aveva ancora quel ghigno sulle labbra. Quanto avrei voluto stapparglielo via con un paio di sberle.

- Non scherzarci troppo su, potrei farlo –

- Non ho paura di loro – ridacchiò scuotendo la testa.

- Nemmeno loro di te –

- E tu piccola? – si avvicinò nuovamente – Tu hai paura di me? –

- No – risposi con decisione.

- Dovresti invece -

Lo vidi avvicinarsi nuovamente e, capite le sue intenzioni, agii prima di lui tirandogli uno schiaffo. Rimasi per qualche secondo a fissarlo mentre si massaggiava la guancia ed alla fine corsi su per le scale per poi chiudermi nella mia camera. Girai la chiave nella serratura e poggiai la schiena contro la porta socchiudendo gli occhi mentre lasciavo andare la testa all’indietro. Il respiro era leggermente affannato e tremavo; sentivo ancora le sue mani addosso che mi davano una sensazione di sporco, di impuro. Mi si appiccicava in profondità fino a rimanermi dentro. All’improvviso mi svegliai dal torpore e spalancai gli occhi: dovevo togliermi quell’orribile sensazione. Iniziai a spogliarmi in gran fretta e con anche una certa rabbia, gettai i vestiti a terra e raggiunsi la doccia; non appena fui sotto il getto caldo tutto quel sudiciume che sentivo addosso scomparve. James era scomparso. L’acqua curava le mie ferite e leniva il mio dolore, placava i miei demoni e mi rinnovava portandomi ad una specie di rinascita. Sentivo tutto scivolarmi addosso e nel mentre mi beavo di quella sensazione poggiai la fronte contro le piastrelle bianche e fredde della doccia socchiudendo gli occhi. Nonostante avessi le palpebre serrate ancora riuscivo a vedere il volto sogghignate di James: sapevo benissimo che il suo sguardo da pazzo non lo avrei dimenticato e che mi avrebbe tormentata mentre dormivo aggiungendo nuovi incubi a quelli che già avevo. Nella mia mente la scena di poco fa continuava a ripetersi. Sembrava che fossi finita in una dimensione infernale. Non mi erano affatto nuovi i comportamenti di James, ma odiavo non poter far nulla per fermarlo, odiavo non essere abbastanza forte. Diversi mesi fa successe che, durante uno dei nostri innumerevoli litigi, lui avesse alzato le mani; non era la prima volta che accadeva, ma prima non aveva mai lasciato alcun segno. Quella volta si. Mi ritrovai con un alone violaceo sulla guancia ed una contusione alla spalla per la violenza con cui mi aveva sbattuto al muro. Dopo la litigata ero corsa fuori da casa e senza prendere fiato o fermarmi feci la strada di corsa fino agli attracchi sedendomi sul tetto del solito container e cominciando ad urlare. Non sapevo per quanto tempo ero rimasta lì, ma doveva essere abbastanza perché quando alla fine mi vennero a cercare lì avevano tutti un viso preoccupato. Beth aveva perfino pianto. Joy mi abbracciò di getto mentre Kayla mi osservava e basta con la sua solita espressione vacua. Aveva capito tutto. Lei riusciva a leggermi dentro semplicemente perché la nostra situazione era simile. I ragazzi invece si guardavano con espressioni confuse e solo quando mi staccai dall’abbraccio notarono la leggera sfumatura violacea che avevo sullo zigomo. Calò un silenzio ancora più profondo del solito. Io ero ancora seduta a terra e loro mi guardavano dall’alto aspettando una parola, un gesto un segnale, qualunque cosa; ma io non sapevo cosa dire, fissavo il vuoto e basta. Mi ricordo ancora quando Ash si inginocchiò di fronte a me e mi prese il volto tra le mani costringendomi a guardarlo dritto nelle sue iridi verdi, mi chiese in un sussurro cosa era successo ma io continuavo a tacere. I ricordi di quell’episodio sono tutt’ora leggermente confusi dato che ero sotto shock, ma ricordo alla perfezione quando Luke mi prese in braccio e tutti insieme mi portarono a casa sua. In quel momento mi affidai completamente a loro. Mi curarono le ferite esterne, mi trattarono come fossi di porcellana; Cal mi tenne la mano tutto il tempo alternandosi con gli altri di tanto in tanto e solo nel momento in cui vidi i volti di tutti in procinto di crollare sotto i mille pensieri che gli frullavano in testa parlai. Inutile dire come reagirono quelle quattro teste calde di Luke, Calum, Michael ed Ashton. Già, perfino Ashton ci si era messo in mezzo. Quando mi videro ridotta in quel modo per colpa di James qualcosa in loro scattò, non li avevo mai visti così. Avevano i nervi a fior di pelle, si poteva percepire la rabbia che scorreva nei loro corpi. Le mani di Calum e Mike erano strette a pugno e tremavano scosse da spasmi incontrollabili; la tensione era talmente densa in quella stanza che si poteva addirittura tagliare con un coltello, si percepiva a pelle, impregnava ogni cosa e racchiudeva tutti quanti in una bolla statica, elettrica come se da un momento all’altro qualcuno fosse saltato e scoppiato per il nervosismo. Nei giorni successivi le cose non migliorarono, anzi, qualcosa iniziò a cambiare, i ragazzi cambiarono. Quei quattro divennero sfuggenti nel giro di pochi giorni, ci davano buca ed erano completamente assenti. Una settimana dopo capii perché. Era una sera normale, beh l’aggettivo normale era fuori luogo in casa mia ma sorvoliamo; comunque quando rientrò James a casa, dopo una lunga e pesante giornata a girovagare per i bar di Brooklyn ad ubriacarsi, era completamente ricoperto di lividi e sangue rappreso che gli usciva dal naso e dal labbro inferiore decisamente spaccato. Non mi servivano conferme, sapevo perfettamente chi era stato, anzi, chi erano stati. Il giorno dopo quando ci incontrammo tutti al bar non dissi nulla, non c’erano bisogno di parole bastavano gli sguardi che ci eravamo scambiati e la vista delle loro nocche arrossate e leggermente scorticate. Settimane dopo Mike mi disse che fu Luke a proporre ed organizzare il tutto, ecco perché aveva le mani messe peggio degli altri. Uscii dalla doccia con un asciugamano ben stretto attorno al corpo e mi sentii subito più rilassata sapendo che qui dentro ero finalmente al sicuro. Tra queste mura niente poteva farmi male, ero irraggiungibile. La mia camera era la mia fortezza. Non riuscivo a spiegare appieno la sensazione che avevo ogni volta che ero chiusa qui, ma era qualcosa di molto simile al concetto di casa. Ero sempre stata dell’idea che la camera di qualcuno fosse qualcosa di estremamente personale ed espressivo, come se fosse una bacheca dove esporre se stessi. Ti rappresentava, eri tu sotto forma di oggetti e colori, era la tua anima, la tua essenza; parlava di te a chi era bravo non solo ad osservare, ma anche ad ascoltare, non con le orecchie ma con l’anima. Ascoltare le vibrazioni e le storie nascoste in ogni singola cosa presente all’interno della stanza. Un piccolo spazio solo tuo dove potevi esprimere te stesso. La mia non era affatto diversa. Ovunque ti voltavi si poteva leggere la mia firma sopra, la mia personalità. Tutto ciò che nascondevo, qui veniva a galla sotto forma di un poster, una foto, qualunque cosa. La mia anima faceva sede qui. Sapevo che sarebbe stata più al sicuro tra queste mura che fuori in strada con me, almeno qui nessuno l’avrebbe calpestata. Le anime della gente dovrebbero essere tutte lasciate nelle proprie camere da letto e non portate in giro. Amavo far mie queste mura e ritrovarmi in esse ogni volta che mi perdevo. Erano la mia mappa, la mia storia, semplicemente me in ogni mia sfumatura. I muri erano di un bianco leggermente sbiadito per via degli anni, ma non si notava più di tanto visto che erano completamente, o quasi, tappezzato di poster soprattutto nello spazio sopra il letto. Di fronte la porta si trovava una piccola finestra rettangolare, di fianco ad essa, nell’angolo, c’era appunto il letto con di fianco un comodino con una lampada che accendendola faceva una sfocata luce rossa; di fronte trovava posto un armadio e di fianco ad esso la mia scrivania sempre invasa dal disordine. C’era un piccolo spazio, sulla parete nel lato sinistro dell’armadio, che era letteralmente tappezzato di foto di tutti noi assieme: erano la nostra storia ed il nostro percorso. Le avevo scattate tutte io con la mia polaroid. Io e la mia dannata ossessione del ricordare ogni secondo passato con loro. In quel pezzo di muro era collocata la parte più profonda della mia anima. Loro erano parte di me. Parte integrante della mia essenza, della mia vita e della mia anima… erano la mia salvezza. Mi avvicinai e notai una foto in particolare che mi fece sorridere. Ritraeva tutti noi assieme seduti al bancone del bar e ridevamo; l’aveva scattata Bryan ed io l’avevo adorata da subito semplicemente perché ritraeva un momento della nostra vita, un piccolo dettaglio di una lunga storia insieme ma che valeva come oro perché ci raffigurava sotto gli occhi di una persona esterna. La cosa bella? Apparivamo proprio come eravamo e ci sentivamo di essere. Noi e stessi. Senza nessuna maschera, nessun filtro, nulla che potesse ingannarti e farti pensare che la nostra era solo una facciata. Eravamo lì, ritratti nella realtà, in un minuscolo istante che raccoglieva le risate di un passato ed un futuro ancora insieme, ritraeva otto ragazzi che amavano la vita solo nei momenti in cui la passavano uniti. Sorrisi tra me e me mentre ne sfioravo leggermente i contorni; alzai lo sguardo sulla mensola poco più su ed accesi lo stereo facendo partire la cassetta che c’era al suo interno. Era una compilation che avevamo fatto io, Michael, Luke, Joy, Ash e Kayla per la festa a sorpresa organizzata per il compleanno di Cal. La consideravamo un po’ come la nostra colonna sonora. In realtà ne avevamo diverse a seconda dell’umore o del momento, ma ci rappresentavano alla perfezione. Mi distesi sul letto ed ascoltai venir fuori dalle casse l’inconfondibile voce di Sid Vicious che cantava Anarchy in the U.K, uno dei capolavori assoluti dei Sex Pistols. Ashton mi aveva perfino regalato il disco originale per il compleanno circa quattro anni fa, cosa dire? Gli saltai al collo dalla felicità e divenne il mio idolo della settimana. Mentre la canzone continuava ad andare, io ero impegnata a fissare il soffitto e perdermi nei miei pensieri soprattutto quelli che riguardavano quella fottutissima esibizione che avremmo dovuto fare nel pub. Cantare non faceva per me. Si ok, mi piaceva ed ero un po’ intonata; ma i veri artisti erano quei quattro idioti, non io e l’idea malsana di Luke di farmi cantare con loro era decisamente la cosa più assurda del secolo. Non sapevo cosa lo aveva spinto a spararla tanto grossa e, ad essere sincera, non ci tenevo nemmeno molto a saperlo visto che quasi sicuramente mi prenderebbe l’impulso omicida. Ormai però era fatta e la scommessa lanciata. Che situazione. In fondo, in fondo mi fidavo di Luke e di come la pensava in fatto musicale; era stato lui a partire con l’idea della band e tutto il resto, a scrivere i primi testi e dilettarsi in qualche cover ma ancora non capivo come potesse riporre la sua fiducia in me riguardo qualcosa di così importante per tutti. L’esibizione di quella sera non sarà solo la messa in atto di una scommessa tra un gruppo di ragazzi ed un barista, ma segnava il loro primo concerto in assoluto come band e che li avrebbe portati a farsi conoscere pian piano. Ed io ero fuori luogo. Personalmente odiavo il mondo dello spettacolo. Odiavo come ti sfatava i miti con estrema semplicità. Troppi erano stati abbagliati dalle luci della ribalta, dai riflettori puntati solo su di te a farti sentire speciale quando invece eri solo un comune mortale se non di meno. Ti illudevano facendoti pensare che potevi avere il mondo nelle tue mani, ma era tutto il contrario. Era il mondo che ti aveva catturato, eri tu ad essere nelle mani di milioni di persone. Eri schiavo: soddisfare gli altri prima di te stesso. Fingere che andasse bene e continuare a venire illuminato, finché non si rimane acciecati definitivamente e quando accadeva voleva dire che avevi perso. Avevi venduto la tua anima, la tua morale e la tua mente agli altri; ti controllavano e ti lasciavi controllare. Non eri più in te e l’unica cosa di cui ti importava era di rimanere sempre in cima al mondo, nell’Olimpo degli Dei maledetti, sempre in mezzo a quelle stelle che brillavano incandescenti di vita fino a morire. Perché era quella la loro fine: tante stelle destinate a spegnersi lentamente. La cosa più inquietante? Tutti lo sapevano, compresi gli artisti stessi, ma questo non li fermava; anzi, li spingeva a vivere sempre sul filo del rasoio al limite della follia, abusando di tutto ciò di cui potevano abusare. Era sempre la stessa cosa… in tanti ci erano passati e continuano a passarci. Era come un contratto, un patto con il diavolo. Dopotutto era meglio così. Come dice Kurt Cobain: è meglio bruciare in fretta, che dissolversi lentamente. Quando Luke venne a prendermi erano più o meno le sei del pomeriggio e, fortunatamente, James era uscito per andare ad ubriacarsi da qualche parte. Non appena aprii la porta mi trovai subito sotto il suo sguardo indagatore; quei due fari azzurri come il cielo d’estate osservavano tutto in silenzio e comprendevano l’essenza delle cose, delle persone. Con lui non c’era bisogno di spiegare, ti capiva con un solo sguardo. Mi sorrise leggermente poggiandosi allo stipite della porta:

- Ciao straniero – lo salutai con un leggero sorriso mentre cacciavo fuori un sospiro.

- Ciao anche a te – si guardò attorno – Potresti anche far finta di essere contenta di vedermi – ridacchiò.

- Sai che sono sempre contenta di vederti, anche se sei una spina nel fianco – lo guardai di sbieco.

- Senti chi parla – borbottò – Oggi non fai che minacciarmi di morte –

- Ma lo sai che lo faccio con amore – ironizzai – E poi te lo meriti – lo guardai di sbieco.

- Ce l’hai ancora con me per la scommessa di stamattina? – disse con un mezzo sorriso mentre infilava le mani in tasca e mi guardava mentre facevo avanti e indietro finendo di sistemare il disastro di James.

- Puoi giurarci Hemmings – lo sentii ridere e mi strappò un sorriso involontario anche a me.

- Hai finito di andare avanti e indietro? –

- Si eccomi, andiamo –

Sorrise e si staccò dallo stipite, aprii la porta ed una volta uscita me la richiusi alle spalle. Iniziammo ad incamminarci verso lo skate park non molto distante e nel mentre continuavo a sentire il suo sguardo puntato su di me. Mi fermai e mi voltai a guardarlo. Si bloccò anche lui di colpo e sollevò le sopracciglia come a cercare di mascherare con lo stupore della mia mossa il fatto che mi stesse osservando. Incrociai le braccia al petto e sospirai mentre aspettavo che parlasse. Aveva sicuramente qualcosa che gli girava per la testa; mille pensieri che formavano un turbine aggrovigliato di idee, pensieri e parole. Il miglior modo in cui sapeva esprimere il caos che aveva in testa era cantando:

- Che hai per la testa Luke? –

- Come va? – domandò dopo qualche istante di silenzio.

- Bene, perché? – risposi facendo spallucce mentre sul volto mi spuntava un leggero sorriso confuso.

- Oh andiamo, Ross! – esclamò – Non dirmi cazzate, ok? – mi guardò dritto negli occhi avvicinandosi leggermente.

- Cosa vuoi che ti dica allora? – sbuffai – Lo sai già che la mia vita dentro quella casa fa schifo, perché continuare a ricordarlo? –

- Perché ci tengo a te e a sapere come stai – disse con quasi un sospiro.

- Lo so… - sussurrai mentre infilavo le mani in tasca ed abbassavo lo sguardo.

- Ti ha toccato ancora? –

- No, no… - alzai lo sguardo senza incontrare il suo, non riuscivo a sostenerlo, era come guardare dritto in faccia il sole – Su, andiamo adesso –

Mi voltai ad affrettai il passo, come se camminando più in fretta sarei riuscita a seminare ciò che mi spaventava. Non potevo dire a Luke o agli altri cosa era successo oggi con James, lo avrebbero pestato a sangue peggio della scorsa volta e si sarebbero cacciati sicuramente in grossi guai e quella era l’ultima cosa che avrei voluto accadesse. Purtroppo per me Luke era fin troppo intelligente e sensibile e capiva alla perfezione quando qualcuno mentiva o aveva qualcosa che non andava; mi afferrò per un braccio costringendomi a guardarlo ancora negli occhi. Mi osservava. Cercava qualcosa all’interno scavando nei più remoti e bui angoli di me. Sinceramente avevo paura di lui quando lo faceva, ma era quella paura buona, quella che ti fa sentire piacevolmente scoperto agli occhi di chi tiene a te con tutto se stesso. Ecco perché con i miei amici stavo bene:

- Ross – mi guardò ancora più intensamente negli occhi – Dimmi la verità, ti ha fatto ancora del male? –

- Ci ha provato, ma non è successo nulla – socchiusi lo sguardo mentre cedevo.

- Cosa è successo? – domandò con cautela mentre fece scorrere lentamente la mano he ancora teneva il mio braccio giù fino alla mano.

Quando raccontai l’accaduto di qualche ora fa notai che cambiò subito espressione. Guardava fisso davanti a se e lì capii che avevo sbagliato a parlare. Stavolta ero io che mi ero fermata a guardarlo: aveva gli occhi leggermente sgranati mentre continuava a tenerli inchiodati a terra, le labbra dischiuse e le mani strette in due pugni. Il sole che aveva in se era stato offuscato. Mi avvicinai lentamente e gli poggiai una mano sul braccio; a quel contatto fu come se si svegliò dalla trance in cui era caduto, si voltò verso di me e mi osservò attentamente facendo vagare il suo sguardo osservandomi in ogni singola sfaccettatura e cercando chissà cosa:

- Se sono dei segni che stai cercando, tranquillo, non ne troverai – dissi piano.

- Questo non cambia ciò che penso di quell’essere – esclamò con un evidente nota di disgusto nella voce mentre distoglieva lo sguardo dal mio.

- Lo so Luke – sospirai mentre ripresi a camminare – Ma cosa posso fare? Sono intrappolata in quella casa… -

- Potresti andartene – mi voltai a guardarlo con le sopracciglia inarcate dallo stupore.

- Luke evitiamo di parlarne ok? –

- Va bene, come vuoi – sospirò mentre si passava una mano tra i capelli – È solo che nessuno deve permettersi di toccarti – sussurrò.

Mi voltai a guardarlo addolcendo lo sguardo e con un leggero sorriso sul volto. Amavo l’anima di Luke. Amavo la sua innata dolcezza che faceva da contrasto alla sua determinazione per le cose e le persone a cui teneva. Aveva questo istinto protettivo nei confronti di tutti da sempre; Luke fin da piccolo era stato sempre un bambino abbastanza solitario e taciturno, era come se si sentisse ovunque fuori posto. Anche con noi all’inizio stava sempre un po’ sulle sue, ma poi è bastato un sorriso per farlo sentire parte del gruppo. Poi arrivò la musica e la sua prima chitarra che, a detta sua, riuscirono a farlo sentire finalmente parte di qualcosa di grande. Era come se attraverso quello strumento avesse ritrovato la parte perduta di se. Mi avvicinai e lo abbracciai forte. Dall’alto del suo metro e novantadue, Luke poggiò il mento sulla mia testa e mi strinse a se come faceva spesso. Era fuori discussione, lui dava in assoluto i migliori abbracci di sempre. Quando arrivammo allo skate park, qualche minuto dopo, il cielo aveva iniziato a tingersi delle sue tipiche sfumature arancioni che annunciavano l’arrivo del tramonto; l’aria non era più calda e afosa come stamattina, ma iniziava a farsi leggermente umida. I ragazzi erano tutti là, o quasi, dato che mancavano solo Cal e Mike. Si erano seduti su una vecchia panchina ai piedi della rampa da skate e ridevano e chiacchieravano tra loro:

- Ehilà – ci salutò Ash con un cenno della testa.

- Dove sono Cal e Michael? – domandò Luke guardandosi attorno.

- Al chiosco a prendere qualcosa da bere –

Questo posto, a differenza degli attracchi, era decisamente molto più frequentato visto che si trovava in una zona centrale di Brooklyn. Qui si radunavano la maggior parte dei giovani, trovavi di tutto e di più. Non importava da dove venivi, come ti chiamavi o chi eri. Nulla. Chiunque veniva qui sapeva che in qualunque caso non sarebbe stato disturbato, che sarebbe passato inosservato e che poteva essere chi voleva e fare tutto ciò che gli piaceva. Eravamo talmente simili e prevedibili che ormai risultavi completamente trasparente e privo di significato. Ti mimetizzavi facilmente tra tutte queste maschere; tante piccole sfaccettature di un’unica grande opera d’arte che andava a creare il grande mosaico della gioventù bruciata di Brooklyn. Questo posto era molto grezzo e cupo, come se fosse perennemente in ombra e nascosto agli occhi di molti; forse perché era proprio qui dove si riunivano tutti i casi disperati della città, ognuno con la propria nuvoletta grigia, come la sottoscritta, che, unita a quella degli altri andavano a creare un enorme e perenne temporale che sostava in questo luogo abbandonato. Sinceramente non sapevo spiegare perché tutti si ritrovavano qui, forse perché la loro anima era strettamente legata all’aspetto del posto o forse era come un richiamo. Già, un richiamo del pezzo di te che si era fuso nel cemento delle rampe da skate e nel legno delle panchine e dei tavoli da picnic; il richiamo del te stesso più profondo e nascosto che ti pregava di venirlo a prendere, di non abbandonarlo in quel luogo cupo e perennemente buio. Nonostante il richiamo però tu non lo portavi via, tornavi a vedere come stava, rimanevi un po’ con lui ma poi andavi via lasciandolo nuovamente lì, incapace di fare altro. Incapace di privarti del richiamo che ti avrebbe riportato nuovamente lì. Mi sedetti accanto a Joy, alle spalle, seduta sullo schienale della panchina c’era Kayla che si fumava beatamente una sigaretta ed ascoltava distrattamente i discorsi di Beth e Joy su un film che avevano intenzione di vedere assieme; accanto a lei ovviamente Ashton che ogni tanto, con molta poca disinvoltura, si voltava leggermente verso di lei facendole scorrere addosso il suo sguardo. Kayla ovviamente se ne accorgeva e cercava di nascondere il sorriso tra un’aspirata e l’altra della sigaretta. Sarebbero stati benissimo insieme; Kayla aveva bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lei ed Ashton di qualcuno di cui prendersi cura. Sorrisi tra me e me ed osservai attentamente Luke mentre era in piedi accanto a me e guardava in direzione del chiosco in cerca di Calum e Michael; i raggi del sole che si andava man mano inabissando nella fitta coltre di grattacieli gli illuminavano il volto dando una sfumatura più scura al biondo dei suoi capelli e trasformando i suoi occhi non più in cielo, ma in oceano:

- Siete in ritardo – disse Calum mentre tornava verso di noi e allungava una birra a Luke.

- Scusate, lo so, è colpa mia – alzai la mano facendo un piccolo cenno.

- Ma che ti prende oggi? – ridacchiò Mike – Non è proprio la tua giornata, eh? -

- Decisamente no – bofonchiai amaramente mentre lo sguardo si perdeva nel vuoto.

- È successo qualcosa a casa? – chiese Beth con un filo di voce.

- Va tutto bene, tranquilla -

Sentii lo sguardo di Luke su di me mentre mi si sedeva accanto cacciando fuori un lungo sospiro di rimprovero mirato alla sottoscritta. Voleva che parlassi, che mi sfogassi con gli altri condividendo il dramma che mi stava tormentando. Ma come potevo rovinare sempre le loro giornate con i miei problemi? :

- Visto che lei non ha intenzione di parlarne lo farò io – disse Luke.

Le sue parole mi fecero voltare di scatto a guardarlo con un’espressione mista tra sorpresa e incredulità. Un’altra delle sue caratteristiche era la testardaggine e poco si poteva fare quando si metteva in testa qualcosa:

- Luke, smettila – lo rimproverai.

- No che non la smetto! –

- Luke… - mi voltai verso di lui guardandolo con severità - Smettila –

- Ragazzi, che diamine sta succedendo? – domandò Ashton corrugando la fronte.

- Allora? – Luke inarcò le sopracciglia – Parli tu o parlo io? –

- Va bene, va bene… - sospirai passandomi una mano nei capelli – Parlo io –

- Cosa devi raccontarci? – domandò Joy.

Presi coraggio e raccontai nuovamente l’accaduto a tutti i presenti. Ancora una volta cadde il silenzio più totale mentre mettevo una parola dietro l’altra torturandomi le dita delle mani e tenendo ancora lo sguardo basso. Tutti mi guardavano con attenzione, il tempo si era fermato e per il silenzio che sembrava essersi creato riuscivo perfino a sentire il battito del mio cuore. Quando finii di parlare e capirono che fortunatamente non successe come la scorsa volta tirarono un sospiro di sollievo; improvvisamente un rumore di vetro che si frantumava attirò la mia attenzione facendomi alzare la testa di scatto. Ashton aveva lanciato la bottiglia di birra contro il muretto alla sua destra, rompendola in tanti piccoli frammenti che potevano rappresentare alla perfezione il mio stato d’animo del momento:

- Ash… - sussurrai.

- Non è nulla, tranquilla, solo uno sfogo –

- Ok… - annuii.

- Dovresti andartene da lì – disse Kayla.

- È quello che le ho detto anche io prima, ma è testarda, non ascolta! – esclamò Luke.

- E dove dovrei andare a vivere, eh? Sentiamo! –

- Non ti piacevano tanto gli attracchi? – rise Mike mentre sorseggiava altra birra in un pessimo tentativo di allentare la tensione.

- Gordon! – esclamò Joy rimproverandolo.

- Non chiamarmi Gordon – disse con un’espressione contrariata sul volto.

- E tu non fare l’idiota –

- Era solo per sdrammatizzare – sbuffò.

- Non era il caso – aggiunse Ashton.

- Tranquilli ragazzi, non importa – feci un leggero sorriso.

- Però sono d’accordo con Luke, dovresti andar via da quella casa – disse Beth.

- Ragazzi, ho capito, ma non saprei dove andare – sbuffai – E poi non posso lasciare mia madre sola con quello –

- Mi dispiace dirtelo tesoro, ma lei ha fatto la sua scelta… - sussurrò Calum guardando verso di me.

- Lo so – abbassai lo sguardo – E la sua scelta non sono io… -

- Ci dispiace Ross… - disse Kayla con un filo di voce mentre mi abbracciava da dietro lasciandomi un bacio sulla testa.

- Ma, ehi – iniziò Luke – Hai sempre noi piccola – mi fece l’occhiolino regalandomi uno dei suoi sorrisi.

- Lucas ha ragione, noi ci siamo sempre – confermò Mike con l’appoggio di tutti.

- Lo so ragazzi, lo so – sorrisi leggermente.

- Potresti anche venire a stare a turno da noi – suggerì Ash.

- E bravo Irwin – esclamò Joy dandogli una pacca sulla spalla – Ogni tanto hai delle buone idee –

- Mi rendo utile quando posso – ridacchiò facendo spallucce.

- Grazie, ma non voglio essere un peso – abbassai lo sguardo iniziando a fissare l’asfalto irregolare.

- Non sei affatto un peso – disse Luke quasi in un sussurrò mentre mi sfiorava leggermente il braccio ed aveva il suo solito sguardo serio.

- Pensaci su, ok? – disse Calum.

- Va bene, ci penserò su – sospirai.

- Brava ragazza –

Ash si alzò e mi abbracciò facendomi apparire sul volto un sorriso spontaneo. Mi avevano guarita. Erano bastate poche semplici parole per mettere un nuovo cerotto sulla ferita che si era formata oggi:

- Non sono una brava ragazza Irwin – mi staccai dall’abbraccio con ancora il sorriso – E a confermare la mia tesi, vorrei sapere perché nessuno di voi maledetti bastardi mi ha portato una birra – esclamai.

- Oh, perdonate la nostra dimenticanza vostra eccellenza – disse Mike facendomi la riverenza mentre tratteneva le risate.

- Ma quanto puoi essere coglione tu Clifford? – scossi la testa con un vacuo sorriso sul volto.

- Credo che non sia quantificabile – ridacchiò Joy.

- Ahimè, purtroppo devo darti ragione – annuì Calum con fare rassegnato.

- Ma state zitti poveri plebei, è inutile negarlo, voi mi amate – ci indicò con l’indice mentre ci guardava con il suo sguardo di ironica superiorità.

- Nei tuoi sogni forse – gli urlò Kayla facendoci scoppiare tutti a ridere.

- Puoi star certa che nei miei sogni c’è ben altro – affermò con uno sguardo che faceva intendere molto.

- Sei un pervertito – lo imbruttii mentre rubavo un sorso di birra dalla bottiglia di Luke.

- Alle ragazze piace – fece spallucce.

- Oh si, convinto tu – lo prese in giro Joy.

- Le ragazze cadono ai miei piedi, siete solo invidiose – aggiunse con un sorrisetto.

- Io non ne vedo nessuna qui in terra – dissi mentre facevo finta di cercare sotto la panchina.

- Trovato qualcosa? – chiese Beth tra una risata e l’altra.

- Decisamente no, peccato – mi alzai facendo spallucce.

- Siete delle stronze – ci indicò a tutte e quattro – E voi – si rivolse ai ragazzi – Non siete da meno –

- Sei tu che ti metti nei guai da solo – disse Ashton.

- Lo sai che quelle là sono terribili – aggiunse Calum mentre finiva la sua birra.

- Che razza di amici – scosse la testa fingendosi indignato mentre continuava a sorseggiare dalla bottiglia.

- Parlando di cose più serie – iniziò Luke – Dobbiamo iniziare a decidere per la serata al pub –

- Giusto – annuì Ashton.

- Avete già qualche idea? – domandò Kayla mentre si accendeva l’ennesima sigaretta.

- Io qualcuna ne avrei – disse Luke mentre si grattava la nuca con fare nervoso.

- Bene – annuì Mike.

- Non vi serve un posto per provare? – chiese Joy.

- Beh in teoria si – annuì Cal – Il problema è trovarlo – sospirò.

- Non potete chiedere a Bryan di tenervi il locale aperto dopo l’orario? – disse Beth – Magari in cambio vi offrite di mettere a posto e chiudere –

- Non è male come idea – fece spallucce Mike – Voi che ne dite? –

Mentre loro parlavano io ero intenta ad ascoltarli. Mi piaceva quando parlavano della musica e della loro voglia di mettere su, in maniera concreta, una band. Erano bravi e sapevano ciò che facevano; gli auguravo ogni bene ed ogni tipo di fortuna ma speravo veramente che l’Olimpo dei Dannati non reclamasse anche loro:

- Secondo me vi serve un posto tutto vostro – dissi – Un posto dove potete sedervi con calma e far nascere qualcosa di sensato – mi accesi una sigaretta e continuai – Magari anche un po’ più piccolo del bar, lì è troppo dispersivo e rischiate di perdere le idee – aspirai e buttai fuori il fumo – Vi serve qualcosa di raccolto, magari da personalizzare con qualcosa di vostro – mi voltai a guardarli – Come una specie di rifugio sicuro dove nascondere le vostre anime – calò il silenzio e mentre li guardavo uno ad uno notai delle strane espressioni dipinte sui loro volti – Ehi? – li chiamai – Guardate che era solo un’idea, non c’è bisogno di scandalizzarsi tanto – ridacchiai leggermente nervosa.

- Hai detto una cosa davvero bellissima – sussurrò Luke con le labbra dischiuse mentre mi osservava con attenzione.

- Luke ha ragione – annuì Calum.

- Ok – ridacchiai un po’ perplessa – Se lo dite voi – scossi la testa ancora imbarazzata.

- Posso chiedere a mia madre di lasciarci il garage, tanto non lo usiamo più – fece spallucce Ashton.

- Oggi è la giornata delle tue buone idee – ridacchiò Joy.

- Probabile – rise anche lui.

- Io avrei dei dubbi riguardo questa esibizione – dissi mordicchiandomi il labbro inferiore.

- Perché tesoro? – mi domandò Kayla.

- Perché mi avete trascinato in questa storia a mia insaputa e per di più nemmeno me la cavo a cantare – sbuffai.

- Andrai alla grande, fidati – mi fece l’occhiolino Ash.

- No che non mi fido! – esclamai – So quanto ci tenete a questa esibizione – sospirai – Mettere su una band è il vostro sogno e non capisco cosa c’entro io e come se non bastasse potrei anche rovinarlo –

- Ross, credi un po’ più in te, ok? – sorrise dolcemente Beth.

- Non lo so ragazzi, veramente, mi avete dato una grande responsabilità – scossi la testa.

- Lo abbiamo fatto perché ci fidiamo – disse Mike.

- Che poi non capisco nemmeno il motivo di aggiungere me – borbottai – Avete delle voci magnifiche ragazzi, davvero, nemmeno vi rendete conto di quanto sono belle – aggiunsi con un leggero sorriso.

Le loro voci erano qualcosa di meraviglioso, quasi surreale. Potevi percepire benissimo ogni emozione che si nascondeva dietro ad una parola o al testo in se. Credo che se ci fosse della musica di sottofondo quando ti accolgono in paradiso sarebbe sicuramente la loro. Non c’erano parole per descriverli. Come puoi attribuire a qualcosa di ultraterreno un aggettivo? Era impossibile. Amavo ascoltarli cantare, che fosse una specie di piccola sessione tra noi o mentre canticchiavano per strada non importava. Amavo perdermi nella loro anima sapendo che ognuno di noi aveva contribuito a costruirla e renderla forte, amavo rivedermi e ritrovarmi in essa, riconoscermi e poter dire ‘’questa anima è diventata così anche grazie a me, a quel piccolo contributo che si rispecchia nei loro testi e nelle loro voci’’. L’anima di uno era l’anima di tutti:

- Ti ringraziamo del complimento tesoro, ma c’è un motivo ben preciso per cui ti abbiamo messa in mezzo – disse Cal.

- Ah si? – inarcai le sopracciglia - E quale sarebbe? –

- Non è ancora il momento di dirtelo –

- E perché no? –

- Lo saprai presto, tranquilla – aggiunse Mike mentre si scambiava un’occhiata complice prima con Cal ed Ash e poi con Luke.

- Cosa mi nascondete? – dissi voltandomi verso il biondo.

- Assolutamente nulla – ridacchiò lui facendo spallucce.

- Non mi fido –

- Aspetta ancora un po’ e lo saprai –

- Continuo a non fidarmi – lo guardai di sottecchi mentre lui continuava a ridere.

- Perché? – domandò lui tra le risate.

- Perché nascondi qualcosa – incrociai le braccia al petto e lo osservai con attenzione.

- Come puoi esserne sicura, eh? –

- Perché ti conosco bene Hemmings –

- Nah, non mi conosci così bene – ridacchiò.

- Oh si invece! – esclamai.

- Ok allora se ne sei proprio così sicura indovina quale paio di boxer indosso – disse tutto fiero della sua domanda al dir poco assurda.

- Ma che cazzo di domanda è questa? – disse Joy tra le risate.

- Ricorda – iniziò Calum mettendo su una voce da finto saggio – Una donna conosce alla perfezione un uomo solo quando sa che boxer indossa – quando terminò scoppiammo tutti a ridere, Cal compreso.

- Ma che problemi vi affliggono? No, seriamente, mi preoccupate! -

- Shh – la zittì Luke con un gesto della mano – Lasciami divertire – si girò nuovamente verso di me – Allora? – alzò le sopracciglia.

- Sono più che sicura che addosso hai di tutto tranne che i tuoi di boxer – mi voltai pienamente verso di lui per osservare meglio la sua espressione – E secondo quello che hai detto la settimana scorsa, cioè che i boxer di Ash ti andavano troppo stretti per via dei suoi fianchi da donna – mi voltai verso Ashton che strabuzzò gli occhi – Sono parole sue Irwin – ridacchiai.

- Sei morto Lucas! – lo minacciò.

- Poi – ripresi – so per certo che quelli di Cal sono troppo normali per uno come te, quindi per concludere avrai sicuramente quelli di Mike – sorrisi soddisfatta data la sua espressione – Allora? Ho indovinato? –

- Sta zitta Ross – sorrise Luke mentre scuoteva la testa distogliendo lo sguardo dal mio.

- Ha indovinato – dissero tutti in coro vedendo la reazione del biondino.

- Ora che ci penso – iniziò Mike – Come diamine fai ad avere i miei boxer, si può sapere? –

- Già come fai Luke? – domandò Beth ridacchiando e facendo il gomito a Joy mentre entrambe ricevevano uno sguardo di fuoco da Mike – Non è che ci nascondete qualcosa voi due? –

- E che ne so io – fece spallucce Luke.

- Non sarà mica quella volte che… -

- Che ci siamo imbucati a quella festa e siamo finiti nudi ed ubriachi a correre per il giardino? – continuò Luke pensandoci su - Probabile – fece spallucce.

- L’avevo rimosso –

- È stato imbarazzante –

- No, è stato epico – dissi tra le risate.

- Eravate blu alla fine – aggiunse Kayla.

- Che scena memorabile – sorrise Calum mentre stava sicuramente ripetendo l’accaduto nella sua mente.

- Non per noi, fidati – disse Luke.

- Nessuno vi ha costretto a farlo – disse Joy.

Mentre ridevamo e scherzavamo ad un certo punto qualcuno si mise di fronte a noi oscurando i pochi raggi di sole che erano rimasti, mi voltai e quattro ragazzi vestiti interamente di pelle erano lì di fronte a noi con la faccia di chi cercava guai e le mani nelle tasche dei pantaloni. Sapevamo molto bene chi erano; anzi, qui a Brooklyn erano conosciuti proprio da tutti. Erano una banda di teppistelli che si divertivano ad andare in giro a far danni e a dar fastidio in sella alle loro moto; avevano un brutto giro e alcuni furono arrestati anche più di una volta. Ecco come ti riduceva Brooklyn se non avevi la compagnia adatta accanto; ti succhiava via il buono che c’era in te lasciando solo una grande oscurità, ma non quella artistica e mistica, no, quella disperata in modo talmente sbagliato che ti riduceva ad essere un burattino nelle sue mani. Quei quattro erano più grandi di noi di soli due anni per questo li conoscevamo molto bene fin da piccoli e dire che erano cambiati era assai riduttivo. Logan era sempre stato un ragazzo timido e solare, ma da quando Brooklyn lo aveva maledetto sembrava essersi completamente spento, come una lampadina rotta. Lo stesso valeva per John, Steve ed Alex. Bravi ragazzi di buona famiglia trasformati in quattro delinquenti dall’anima oscura di questa città. Era inquietante come cosa. Ti faceva pensare e rabbrividire; poteva essere perfino raccontata come storiella ai bambini per invogliarli a mangiare le verdure. Il peggiore, quello che era cambiato di più ed era diventato davvero molto pericoloso era Alex. Alto, capelli neri, occhi verdi ed un fisico ben strutturato. Tante ragazze gli morivano letteralmente dietro ed avrebbero fatto carte false anche solo per una notte insieme a lui; ma Alex non si accontentava, non le guardava, lui quando mirava qualcuna non la lasciava finché non diventava sua, finché anche lei non veniva consumata e si trasformava in una persona molto simile a lui. Certe volte lo faceva solo per divertimento, per rovinare altre vite gratuitamente. Come lo conoscevo così bene? Lunga storia. Per farla breve l’anno scorso ero diventata la sua ossessione ed io, presa dalla voglia di essere amata anche se in modo malsano, caddi nella sua trappola. Durammo qualche mese, il tempo di farmi accorgere di quanto Alex e James fossero simili, e tutto finì. Io ero andata avanti con la mia vita, lui no. A distanza di quasi più di un anno io rimanevo ancora il suo bersaglio:

- Ciao Ross – mi salutò con un cenno del capo.

- Guarda chi si rivede – borbottò Cal alzando gli occhi al cielo.

- Cosa vuoi Alex? – risposi sbuffando mentre mi alzavo in piedi.

- Il solito piccola – gli apparve sul volto un ghigno.

- Oh si, certo, continua pure a sperarci – risi in modo sarcastico.

- Non fare la preziosa – mi fece l’occhiolino – Non ti si addice –

- Fammi un favore e vattene –

- Non senza di te tesoro –

- È più di un anno che va avanti questa storia – sbuffai – Quale parola di ‘’è finita’’ non ti è chiara? –

- Lo so che ancora mi vuoi – si avvicinò ancora di più squadrandomi con attenzione.

- Certo! - esclamai - Fuori dalla mia vita –

- Ne sei proprio sicura? – sussurrò mentre leggevo molto chiaramente nei suoi occhi le cose che gli passavano per la testa.

- Sicurissima – risposi duramente.

- Vuoi che ti ricordo com’era quando stavi con me? – mi avvicinò di scatto a se cercando di baciarmi.

- Ross! – esclamò Luke balzando in piedi.

- Sta buono Lucas – dissi voltandomi verso di lui.

- Già, sta al tuo posto biondino, non sono affari tuoi – ridacchiò.

Luke scattò in avanti ma fortunatamente Ashton e Calum lo fermarono in tempo, l’ultima cosa che ci voleva era una rissa:

- Me la cavo da sola -

- Allora tesoro – mi voltai nuovamente verso Alex – Ti va di andare a casa mia e fare un po’ di movimento, uhm? –

- Mi fai schifo – lo spinsi via lontano da me mentre gli riservavo uno sguardo di disprezzo. Era impressionante quanto lui e James si somigliassero e come questa scena mi ricordava quello successo a casa. Probabilmente perché quando Brooklyn ti privava di tutto lasciava tante ombre uguali

- Non mi sembrava ti facessi schifo quando ci divertivamo nel mio letto –

Sentii un vociare alle mie spalle e mi voltai in tempo per vedere Luke che si liberava dalla presa di Ash e Cal per dirigersi a passo spedito verso Alex con le mani chiuse a pugno e l’espressione furiosa. Era davvero raro vederlo così aggressivo e quelle poche volte che accadeva perdeva letteralmente il controllo; ma Alex era pericoloso, molto pericoloso e non avrei permesso a Luke di farsi del male. Fortunatamente riuscii a fermarlo in tempo trattenendolo per un braccio mentre gli poggiavo una mano sul petto in modo di fermarlo dall’avanzare ancora:

- Luke, no, fermo – dissi con determinazione – Non ne vale la pena –

- Già Hemmings – Alex aveva nuovamente quel sorriso sornione che non mi piaceva affatto – Non ne vale la pena di prendersi un pugno per una puttanella come lei –

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Luke si liberò dalla mia stretta e si precipitò addosso ad Alex tirandogli prima una spinta e poi due pugni: uno allo stomaco, che evitò, e l’altro sul naso che andò a segno. Alex però era molto forte e rispose ai colpi con estrema velocità che Luke nemmeno li vide arrivare ed in poco tempo si ritrovò a terra con un labbro spaccato ed una mano sul ventre. Corsi da lui senza perdere tempo e mentre mi accertavo che stesse bene arrivarono anche gli altri che lo tirarono su in piedi e lo tenevano chi per un braccio, chi per l’altro. Mi alzai anche io e mi voltai verso Alex urlandogli in faccia:

- Va via da qui e non farti più vedere! –

- Alla prossima piccola – mi fece l’occhiolino e girò i tacchi assieme ai suoi amici mentre tutti e quattro se la ridevano.

Mi voltai verso Luke e mi avvicinai a lui osservandolo con attenzione: aveva un labbro spaccato e sanguinante, un livido sullo zigomo ed in più si teneva una mano sullo stomaco. Dire che lo aveva conciato male era riduttivo. Non doveva affatto mettersi in mezzo:

- Portiamolo a casa mia, meglio che la madre non lo veda in queste condizioni – disse Mike.

- Sto bene ragazzi – bofonchiò mentre tossiva e si teneva l’addome dal dolore e per lo sforzo di mettere un piede davanti l’altro.

- Ma sta zitto, idiota – lo rimproverò Joy.

- Andiamo su – disse Ashton mentre lo prendeva con maggior fermezza.

Fortunatamente la casa di Michael non era molto lontana e a quest’ora i suoi erano a lavoro, quindi fu facile passare inosservati. Ash e Cal sorreggevano Luke, Mike faceva strada con le chiavi già in mano, Beth e Joy lo rimproveravano ed io e Kayla eravamo dietro di loro a qualche metro di distanza. Continuavo a pensare che Luke avesse fatto la mossa più stupida della sua vita. Non aveva speranza di battere Alex, lui era un professionista di pugilato e Luke… era semplicemente Luke. Un ragazzo troppo dolce e sensibile per queste cose. Non sopportavo che facessero del male ai miei amici, ma lui, mi dispiaceva dirlo, se l’era cercata; lo avevo avvertito e conosceva anche bene il temperamento di Alex, ma lui no, era testardo e doveva a tutti i costi difendermi quando sapeva bene che potevo benissimo cavarmela da sola. Quando Mike aprì la porta di casa portarono il biondo al secondo piano nel bagno per medicarlo:

- Faccio io – dissi con una voce che dava sicuramente a vedere il mio disapprovo verso Luke mentre mi appoggiavo allo stipite della porta.

- Sicura? – mi domandò Joy.

- Si – sospirai staccandomi da dove ero appoggiata ed entrando – Voi scendete pure –

- Va bene –

- Chiama se serve qualcosa – si raccomandò Calum ed io annuii.

Quando furono usciti tutti accostai la porta e sospirai nuovamente, poi mi voltai verso Luke. Aveva una mano poggiata sul lavandino e l’altra ancora sullo stomaco, si stava osservando allo specchio come se non fosse successo nulla ma la sua espressione dolorante diceva il contrario. In questo momento lo avrei preso io volentieri a calci, ma non dissi e non feci nulla:

- Siediti sul bordo della vasca – la indicai con un cenno mentre iniziavo ad aprire vari sportelli per cercare l’occorrente per medicarlo.

Quando trovai il necessario mi avvicinai a lui ed iniziai ad esaminare il danno di Alex: il taglio che aveva sul labbro inferiore non era molto profondo ma continuava a sanguinare anche se di meno rispetto a prima; il contrario invece era il livido che diventava sempre più viola. Sentivo il suo sguardo addosso ma non sapevo giudicare quale fosse l’emozione o lo stato d’animo nascosto in quel cielo estivo, così lasciai stare e mi concentrai maggiormente a curare le sue ferite e non di procurargliene altre, anche se dovevo ammettere che la tentazione era molto, molto forte. Appena gli tamponai il labbro con il disinfettante sobbalzò appena e socchiuse gli occhi per il dolore e il bruciore dell’alcool; sospirai nuovamente e mi trattenni dall’esplodere e dirgliene quattro:

- Forza, parla, so che muori dalla voglia di sgridarmi –

- Sta zitto Lucas – risposi mentre ero ancora impegnata a tamponare.

Ci furono pochi minuti di silenzio durante i quali continuavo ad avere lo sguardo di Luke puntato su di me. Che voglia che avevo di colpirlo anche io:

- Ross – mi chiamò con la voce ridotta ad un sussurro.

- Cosa? –

- Lo sai – disse mentre cercava il mio sguardo.

- No Luke, non lo so! – esclamai mentre mi voltavo per buttare l’ovatta nel cestino accanto al lavandino.

- Ross… - ripeté ancora con lo stesso tono di prima.

A quel punto scoppiai veramente. Tutto il disappunto e la preoccupazione aggiunte alla tensione avevano avuto la meglio:

- Ma diamine Lucas! – esclamai voltandomi nuovamente a guardarlo – Che ti è saltato in mente? Fare a botte con Alex! – gli diedi nuovamente le spalle mentre rimettevo tutto apposto – Potevi farti davvero male –

- So cavarmela benissimo da solo – ridacchiò – E poi picchia come una femminuccia –

- Luke! – mi voltai di scatto – Sono seria! –

- Anche io Ross – ancora non si toglieva quel sorriso sfacciato dal volto – È solo un’idiota – fece spallucce.

- Si, un’idiota che poteva ammazzarti di botte! – alzai la voce.

- E tu credi che abbia il coraggio di farlo? – domandò inarcando le sopracciglia.

- Certo! – alzai gli occhi al cielo – Non sai le voci che girano su di lui nell’ultimo periodo?! –

- Sono tutte stronzate – disse mentre distoglieva lo sguardo dal mio e lo puntava sulle piastrelle del bagno.

- No Luke – mi avvicinai – Lo sappiamo bene entrambi che non lo sono – sospirai cercando di calmarmi – È stato lui a ridurre in quel modo Sam del corso di chimica prima che finisse la scuola –

- Se permetti so difendermi a differenza di Sam – ribatté.

- Non è questo il punto Lucas! – urlai.

- Te l’ho detto, ok!? – alzò la voce per un attimo, per poi ridurla ad un sussurro subito dopo – Nessuno deve toccarti – disse mentre mi guardava dritta negli occhi.

Le parole di Luke non mi sorpresero più di tanto, sapevo che avrebbe fatto la stessa cosa per Joy, Beth e Kayla ma proprio non voleva capire quanto Alex sapeva essere pericoloso. Mentre stavo per rispondergli la porta del bagno si aprì lentamente mostrando un Ashton alquanto confuso che non faceva altro che spostare lo sguardo tra me e Luke:

- Tutto bene voi due? Si sentono le urla fin da giù –

- Si, tranquillo Ash – sospirai.

- Ok – annuì – Forza scendiamo che Calum ha ordinato la pizza –

- Arriviamo –

Dopo che Ashton fu andato via mi voltai verso Luke e scossi la testa. Volevo troppo bene ad ognuno di loro per rimanere troppo tempo arrabbiata, stavolta era un caso diverso ma era comunque Luke e, per quanto la mossa sia stata stupida e lui incosciente, dopotutto voleva solo cercare di proteggere una sua amica. Mi avvicinai a lui e lo tirai per un braccio facendolo alzare dal bordo della vasca:

- Dai, andiamo di sotto a mangiare qualcosa e dimenticarci di questa storia – sorrisi leggermente – Che ne dici? –

- Dico che è perfetto perché sto morendo di fame – annuì lui con vigore mentre sulle labbra gli compariva il suo solito sorriso.

- E quando mai tu non hai fame? – ridacchiai fingendomi esasperata mentre gli diedi una spintarella per farlo uscire dal bagno.

Non appena scendemmo nel salotto trovammo tutti indaffarati a spartirsi la pizza davanti alla televisione, ma quando io e Luke entrammo si fermarono per pochi secondi osservandoci attentamente, poi Joy parlò:

- Beh io non vedo lividi nuovi, quindi deduco che è finita bene no? –

- Diciamo di si – ridacchiai mentre mi sedevo sul bracciolo della poltrona dov’era semi sdraiato Calum.

- Abbiamo temuto per la tua vita amico, sappilo – disse Mike mentre dava un morso alla sua fetta di pizza con i peperoni.

- Già – ridacchiò Cal – Si sentivano le urla fin qui –

- Se l’è cercata – feci spallucce mentre guardai Luke sedersi a terra di fronte a me e Cal.

- Assolutamente – annuì Beth.

- Non era chiuso il discorso? – domandò il biondo con un mezzo sorriso.

- Va bene, va bene – alzai le mani in segno di resa – Avete lasciato qualcosa o vi siete già mangiati tutto? –

- Giudica tu – Kayla indicò un paio di cartoni già vuoti.

- Lasciatevelo dire ragazzi, fate proprio schifo – ridacchiai scuotendo la testa.

- Ehi! – si lamentò Ash mentre finiva di masticare quello che aveva in bocca.

- Attento a non soffocarti Irwin – lo imbruttì Joy.

- Avevamo fame – fece spallucce Calum fingendosi innocente.

- E poi non è colpa nostra se voi eravate impegnati a farvi la guerra – ironizzò Mike.

- Non ci stavamo facendo la guerra – bofonchiai.

- Ross – mi richiamò Kayla.

- Ok, ok forse un pochino – sbuffai – Ma non è colpa mia se il biondino qua le prende –

- Fate l’amore – urlò Michael mentre alzava in aria la bottiglia di birra.

- Non fate la guerra – finì Luke al posto suo imitando il suo gesto.

Risi mentre scuotevo la testa e mi beavo del suono delle loro risate, della loro felicità. Amavo osservarli. Guardare ogni loro piccolo dettaglio, espressione, gesto ed emozione. Guardare le loro anime leggere che si spogliavano del peso di Brooklyn quando eravamo insieme chiusi in quattro mura. Passammo gran parte della serata tra risate, musica e televisione ridendo di quanto eravamo stupidi e immaturi delle volte; Calum era sicuramente ubriaco, aveva iniziato a sparlare già da un po’ su come continuava a chiedere ai suoi genitori di prendergli un cane. Il che era piuttosto normale, la cosa che ci faceva pensare il contrario e ridere come dei pazzi era il fatto che Cal non stava parlando con nessuno di noi, ma bensì con il tizio della televendita che c’era in tv arrabbiandosi anche quando questo non rispondeva alle sue domande. Una cosa simile successe una volta a Mike, circa due anni fa a Capodanno. Aveva bevuto così tanto da essere pienamente convinto che l’albero del giardino di casa sua fosse un unicorno, ma la cosa non finiva qui. Il bello venne quando tentò di cavalcarlo e finì letteralmente faccia a terra perché era troppo ubriaco da tenersi a cavalcioni di un albero. Non avevo mai passato un Capodanno così bello prima di quella sera. Il tempo passò in fretta e in men che non si dica arrivarono le due della mattina, ciò significava che tra poco saremmo usciti:

- Ragazzi, vado a prendere la macchina – annunciò Ash mentre si alzava dal divano – Mettete in ordine questo disastro e fatevi trovare fuori la porta –

Non c’era bisogno di chiedere dove saremmo andati perché tutti lo sapevamo fin troppo bene. C’era un posto molto speciale per noi appena fuori Brooklyn, si trovava nella zona residenziale vicino l’autostrada dove di case ce ne erano poche ed i grattacieli si facevano sempre più assenti fino a scomparire lasciando piede alle sterpaglie. Lì, in mezzo al nulla più totale, c’era una piccola costruzione in mattoni quasi sicuramente disabitata e circondata da una rete metallica alta si e no 3 metri; proprio in quel luogo abbandonato da tutti c’era una visuale al dir poco magnifica sul cielo di Brooklyn. Nessun grattacielo, nessun rumore, nulla. Solo tu e le stelle. Venti minuti dopo la casa di Mike era in ordine e noi eravamo saliti sul Pick up di Ashton con direzione il cielo. Ash guidava, accanto a lui era seduta Beth con vicino Calum, e noi altri ci eravamo semi sdraiati nel retro del furgoncino con una cassetta di birra vicino e la musica a palla che usciva dalla radio. Era un momento impagabile. La musica, il vento nei capelli, il cielo scuro sopra di noi, le nostre grida e le risate. Era tutto perfetto. Tutto combaciava come piccoli tasselli del nostro grande puzzle e ci faceva sentire completi, felici, ci faceva sentire di esistere. Delle volte mi piaceva alzarmi in piedi e gridare ed anche stavolta non era diverso. Presi fiato e gridai. Gridai sovrastando la radio, il Pick up ed il rumore del mondo. Ma non erano le grida disperate che riservavamo agli attracchi, no. Erano grida di sfida, di vendetta verso il cielo di Brooklyn che voleva opprimerci, verso il mondo che non ci considerava, verso le persone come James ed Alex e verso il vento. Si, il vento. Quello che ti scompigliava non solo i capelli, ma che ti scuoteva l’anima, ti mescolava le idee facendo nascere qualcosa di immensamente poetico e nero, qualcosa di strettamente legato a queste ore tarde e che rimaneva imprigionato nel limbo tra notte ed alba, celato agli occhi di chi non era abbastanza attento per coglierle. Il vento ci avvolgeva, ci rappresentava e soprattutto ci spingeva verso la vita; ci faceva sentire incredibilmente liberi e potenti, come se avessimo il mondo intero nelle nostre mani. La libertà aveva il sapore dell’infinito. Non potevi legarla a nessuna cosa esistente e materiale, essa navigava fuori da ogni vincolo, fuori dal tempo, perdurava quando tutto si trasformava in polvere. Un po’ come i grattacieli abbandonati vicino gli attracchi. Era pura essenza, pura vita ed essere visto come esistenza stessa, come presenza. Era forte e potente, dominante, sfuggente. Era la forza che muoveva il mondo, che muoveva le anime ed i cuori dei coraggiosi. Sentirsi liberi, ma liberi davvero, era un dono, un piccolo privilegio che ti veniva offerto una sola volta nella vita per farti assaporare la vera essenza del mondo. La notte ti rendeva libera, coraggiosa di rischiare di sentirti così, senza legami, semplicemente un piccolo frammento nella potenza del vento che sembrava volerti lanciare verso l’ignoto. Era una sensazione impagabile. La libertà che si trasformava in adrenalina man mano che il piede veniva schiacciato sull’acceleratore e ti scuoteva il corpo fino all’anima, sentirla vibrare, sentire che c’era, che era lì, presente e viva dentro di te, che ti permetteva di percepire le cose attorno a te. L’essenza di ogni momento, respirare, si, soprattutto respirare. Sentire l’aria entrarti dentro gridandoti che sei vivo, che ti sfiorava la pelle accarezzandola con il suo tocco leggero ma fermo. Sembrava come di rinascere. Quando Ash svoltò prendendo la vietta sterrata sulla sinistra ci tirammo su a sedere ed io raccolsi la birra ed una volta fermi balzammo giù dal Pick up lasciando il motore acceso in modo tale che la radio continuasse a suonare; ci avvicinammo alla rete metallica e dopo esserci guardati attorno iniziammo a scavalcare uno ciascuno atterrando poi dall’altra parte. Scoprimmo questo posto un po’ per caso durante una serata dedicata interamente alle nostre scorribande, avevamo sbagliato a svoltare e ci eravamo ritrovati semplicemente qui:

- Ce la fai Lucas? – gli domandai con una risata mentre cominciavo ad arrampicarmi fino ad arrivare in cima e saltare dall’altra parte.

- Pensa per te piccoletta – sorrise mentre anche lui cominciò a salire.

Una volta che tutti avevano superato la recinzione ci sdraiammo a terra sull’erba e cominciammo a fissare il cielo. Stanotte le stelle erano ancora di più. Serate con un cielo così bello e luminoso non capitavano spesso. Appena ti allontanavi da Brooklyn tutto sembrava acquistare una bellezza diversa, perfino i colori erano più brillanti, più vivi; questo dimostrava che effetto offuscante aveva quella città su di noi e le nostre povere anime sottomesse. Ma qui no. Qui eravamo liberi, il cielo ci osservava e non sembrava più volerci schiacciare, ma accogliere. Sembrava che Brooklyn avesse un cielo tutto suo e completamente diverso da quello che vedevamo ora. Due facce della stessa medaglia che a modo loro si completavano. C’eravamo solo noi, il cielo ed una moltitudine di stelle. Piccoli puntini di luce e vita che, assieme alla luna, illuminavano del loro chiarore la terra. Mi piaceva stare al buio, non solo di notte, ma anche in pieno giorno. C’erano delle volte che mi chiudevo in camera, tiravo giù le persiane, chiudevo le tende e me ne stavo semplicemente lì, seduta sul letto, a contemplare l’oscurità che mi circondava. Mi avvolgeva nella sua morsa densa ed oscura. Ne ero attratta. Come un insetto è attirato dai colori brillanti, io ero attratta dal nero più profondo. Mi ci perdevo e mi ci ritrovavo, lo guardavo, lo sfidavo e mi lasciavo sussurrare i suoi segreti. Era incredibile la sicurezza che mi dava. Là dentro non esistevano colori, diversità, paure o angosce; tutto veniva assorbito dall’oscurità. Veniva celato. Se tutti vivessimo al buio ci sarebbero più possibilità che ognuno si senta libero di non nascondersi più, di voler essere qualunque cosa voglia essere; di ridere, piangere, urlare o stare zitti ed il tutto senza occhi puntati contro. Liberi. Nel buio che creavo appositamente nella mia mia stanza o in quello della notte, sentivo come se tornasse il Principio, quando il mondo era solo una landa buia e desolata, quando a regnare non era la luce ma il nero. Il nero della notte, il nero della vita, di Brooklyn, il nero della nostra anima. Attorno a noi c’era un gran silenzio, tutto sembrava come essersi messo in pausa. I rumori della città e delle vite indaffarate della gente non arrivavano fin qui. Potevi sentirti incredibilmente solo o incredibilmente infinito, era una tua scelta. Noi sceglievamo di essere entrambe le cose. Per il silenzio che c’era, se eri abbastanza attento, riuscivi a captare perfino il rumore della tua anima che si svegliava e si muoveva dentro di te. Solo noi e le nostre ombre sotto un cielo infinito:

- Quante credete che siano – domandò Beth ad un tratto.

- Cosa? – le domandò Calum.

- Le stelle –

- Un paio di migliaia credo –

- Aggiungi altri migliaia di migliaia e non ti ci avvicinerai neanche lontanamente – ridacchiò Ash.

- Sarebbe bello poter vedere tutto dall’alto come loro – sospirai mentre continuavo a fissarle con un leggero sorriso sulle labbra – Lasciare tutte le pene e le sofferenze a questo mondo ed essere semplicemente un piccolo puntino luminoso nel cielo –

- Beh se questo può consolarti tesoro tra un paio d’anni saremo tutti puntini in cielo o polvere sotto terra – disse Mike con un velo d’amarezza nella voce – Dipende dai punti di vista – aggiunse mentre apriva una lattina di birra e ne beveva un sorso.

- Clifford, non ti facevo così poeticamente intelligente – ridacchiò Kayla.

- Che posso dire ragazzi, sono un mare di scoperte – face spallucce scherzosamente.

- Non hai tutti i torti però – sussurrai continuando a fissare il cielo e nel mentre giocherellavo con qualche ciuffetto d’erba.

- Che intendi? – domandò Joy.

- Beh se ci pensiamo bene alla fine non sappiamo se ci sia o meno un qualcosa dopo questa vita; in qualunque caso però agli occhi di chi è rimasto al mondo siamo semplicemente scomparsi, dissolti nel nulla – feci una pausa, poi ripresi – Come se non fossimo mai esistiti –

- Non sarà il nostro caso – disse Luke.

- Ah no? – domandò Cal – E cosa hai intenzione di fare? Sentiamo – aveva un tono quasi scettico, come di sfida.

- Lasciare il segno – rispose in un sussurro; mi voltai a guardarlo e lo trovai a fissare attentamente il cielo, con le braccia dietro la testa, un leggero sorriso e lo sguardo da sognatore.

- Come? – gli domandò Beth.

- Qualcosa ci inventeremo – fece spallucce.

- Perché questa cosa ti preme così tanto? –

- Perché non voglio essere dimenticato – sussurrò – Non voglio essere solo un altro puntino nel cielo –

- Beh allora spero che ci riuscirai sul serio – gli disse Joy con un leggero sorriso.

- Ci riusciremo tutti assieme – ridacchiò lui – Altrimenti che senso ha essere ricordati da soli? Almeno si potrà dire che avevo degli amici sfigati quanto me, se non di più – concluse con una risata.

- Hey Hemmings! – esclamò Ash – Bada a ciò che dici o ti prendo a calci – sorrise tra se e se.

- Taci Irwin, tu ed i tuoi fianchi da donna non avete il coraggio – scoppiamo tutti a ridere, ovviamente tutti tranne Ash che continuava a fingersi arrabbiato.

- Giuro che se mi fai incazzare ancora ti castro – lo minacciò borbottando.

- Il mondo femminile subirebbe una grossa perdita, ne sei consapevole? – rispose il biondo con un sorriso malizioso sul volto.

- Continua a crederci Lucas – ridacchiò Kayla.

- Io mi domando perché continuo ad essere vostro amico – borbottò tra se e se mentre scuoteva la testa fingendosi indignato.

- Perché altrimenti saresti tutto solo e depresso sdraiato sul letto della tua cameretta a fissare il soffitto chiedendoti che senso ha la tua vita – ironizzai.

- Uhm, però – disse Mike – Descrizione accurata –

- Grazie – ridacchiai.

- E poi in fondo in fondo sappiamo che in realtà tu ci ami – disse Beth.

- Si, come no, basta crederci – ridacchiò Luke.

- Bastardo – sussurrai scuotendo la testa mentre il sorriso che avevo sulle labbra diventava sempre più grande.

- Siete solo… - iniziò Luke, ma fu interrotto da Mike che finì la frase al posto suo.

- Una massa di idioti? – ridacchiò – Si, lo sappiamo –

- Ma che carini, è tutta la giornata che finite l’uno le frasi dell’altro – dissi – A quando il matrimonio? –

- Traditore! – urlò Calum puntando il dito verso Luke – Credevo che tra di noi ci fosse qualcosa di speciale – scosse la testa amareggiato e contrariato.

- Io, Beth, Joy e Ross facciamo le damigelle – disse Kayla alzando la mano.

- E noi i testimoni – aggiunse Ashton indicando lui e Calum.

- Chi farà la sposa? – domandò Joy ridacchiando.

- Luke ovviamente – rispose Michael – Che domande! – fece spallucce.

- Ma ce lo vedete Luke vestito da sposa? – disse Beth tra le risate facendo scoppiare tutti a ridere.

- Ovviamente sarei comunque bellissimo – rispose il biondo fingendo di vantarsi.

- Oh, si, come no! – ridacchiò Ash – Pagherei oro per vederti in tacchi e vestito – rise ancora più forte e noi lo seguimmo a ruota immaginandoci la scena.

- Inizia a pagare allora – rispose alzando le sopracciglia in tono di sfida.

- Secondo me cade subito – ridacchiai io.

- Poco ma sicuro – annuì Kayla.

- Siete tutti invidiosi della nostra felicità – disse Mike mettendo un braccio sulle spalle di Luke.

- Ehi, ehi… le mani a posto però – esclamò il biondo rimproverandolo – Non siamo ancora sposati –

- Ma che bella coppietta siete – dissi cercando di coprire la mia risata.

- Gelosa? – mi sussurrò Luke.

- Da morire guarda! – esclamai con evidente sarcasmo.

- Perché devi sempre essere così cattiva con me? – incrociò le braccia al petto fingendosi offeso.

- Povero Lucas, ci è rimasto male – ridacchiò Beth.

- Non ti basta più il caro Mikey? – aggiunse Calum.

- Fottiti Calum – borbottò il biondo.

- Ehi, nemmeno siamo sposati e già mi vuoi tradire?! – domandò Michael fingendosi sconcertato.

- È la vita Clifford –

- Fanculo Hemmings –

- Idioti – sussurrai io mentre scuotevo la testa e ridacchiavo.

Dopo un altro po’ di risate calò nuovamente il silenzio su di noi, l’unico suono udibile era lo stereo del Pick up di Ashton che stava trasmettendo Born to Run di Bruce Springsteen. Quella canzone ci rispecchiava alla perfezione; come noi, anche quei ragazzi di giorno si nascondevano e la notte davano sfogo alla loro anima correndo per le strade, liberandosi del peso sulla schiena che era la loro città da suicidio e semplicemente prendere coraggio e fuggire. Andare via verso l’autostrada sconfinata inseguendo quello che era ‘’il sogno Americano’’. Mentre la radio suonava noi cantavamo a squarciagola fondendoci con quella melodia di perduta nostalgia e spirito di rinascita che viveva anche in noi. Continuavo a stare distesa lì su quell’erba bagnata di rugiada e fissavo il cielo e la grande sfera bianca che si faceva spazio tra la moltitudine di stelle; essa regnava nella notte più profonda rendendosi Regina indiscussa dell’oscurità e delle ombre, lì, proprio in quel momento e con ancora quella canzone di sottofondo, pensai nuovamente ai ragazzi di Manhattan. Non avrebbero mai scoperto cosa voleva dire lasciarsi intaccare dall’oscurità, quella buia e profonda. Quella che si fonde con la tua anima e la rende grezza, che si impadronisce di te gettandoti nell’oblio, ma che al tempo stesso ti urla che sei vivo. Finché soffri vivi. Ed io ringraziavo con tutta me stessa ogni giorno che continuavo a sentire il mio pezzo di oscurità pesarmi sul cuore, perché allora voleva dire che ero ancora viva e presente. Che ero qui e adesso, pronta a vivere, a riempirmi di oscurità ogni giorno e vivere ancora di più; rinascere, risvegliarmi dal torpore, dalla cenere, rialzarmi dalle macerie e vivere sempre più forte, sempre più intensamente fino a dove potevo spingermi, fino a dove il cuore riusciva a portarmi. Fino alla fine del mondo

 

 

 

  
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