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Autore: Lost In Donbass    20/12/2015    1 recensioni
Lacrime, ricordi, fiocchi di neve, un amore travagliato, e una coperta di Batman: semplicemente, la notte di Natale vissuta da Tom e Bill.
Genere: Malinconico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
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I bambini giocano, ma non sanno ridere
Apro gli occhi, e tu sei sdraiato affianco a me, come al solito, da quando siamo stati messi al mondo tu mi dormi accanto. C’è buio, fuori. Talmente tanto buio che mi chiedo se non sono già morto; quel buio caldo, che ti culla, che ti copre gli occhi e ti cancella completamente da questa bugia che stiamo vivendo. Quel buio amico che ti soffoca, e ti riempie l’anima bucherellata dai rimorsi.
Mi giro piano, per non svegliarti, anche se so che è una precauzione piuttosto inutile. Tu non ti svegli mai. Soprattutto se sei stanco morto come lo eri ieri sera.
Passo un dito sulla tua spalla nuda, calda, muscolosa. Profumi di me, e di te, anche se so che abbiamo lo stesso odore. Forse il tuo è più vero, e il mio soffocato dai profumi di cui mi ricopro, sbagliando. O forse no. Percorro il pezzo di schiena scoperto, arrotolando tra le mie dita i tuoi dreadlocks. Sei una continua rassicurazione per le mie mani che non la smettono più di tremare senza droga, per i miei polmoni che non respirano senza una sigaretta accesa, per la mia testa che non funziona se non è obnubilata dall’alcol, per il mio cuore che non batte se non ha te sotto gli occhi. Sei così bello, fratellino mio. Così rassicurante, che mi chiedo ancora come potrò mai vivere io senza i tuoi occhi uguali ai miei, eppure così dannatamente diversi. La luce, Tom, è solo questione di luce. La mia tossica, sbagliata, perversa. La tua pura, giusta, buona. Che mi assorbe completamente, che mi lascia solo e che mi rende sottomesso e infantile, pronto per te. Sempre pronto per te.
Ho freddo, come ogni notte. Brividi che vengono dal cuore, che mi gelano le vene, che mi ricordano che io non sarò mai tuo. Che sono loro. Guarda, Tom, guarda il biglietto che ho attaccato al collo; c’è un prezzo, il prezzo da pagare per avermi, per schiavizzarmi, per farmi diventare il tuo pupazzo. Sono ricoperto d’oro e di diamanti sporchi di sangue e di maledizioni, il pezzo forte del negozio.
Mi ricavo uno spazio tra le tue braccia, appoggiandomi al tuo petto e sento il cuore battere allo stesso ritmo del mio. Cuori di plastica, ma le batterie non sono incluse.
Bambole di pezza, ma il cotone dobbiamo farcelo noi. Vene come fili elettrici, ma la spina di corrente dobbiamo trovarcela da soli. Ti sembra giusto, fratellino mio? Ci vendono come integri, ma dentro difettiamo dei pezzi. Siamo un brutto acquisto, dovrebbero dirlo alla gente che non capisce.
Ti bacio il collo, piano, senza fare rumore. Mi fa ancora male tutto il corpo, dopo che l’abbiamo fatto; mi hai fatto male, ma lo sai che mi piace. Lo sai che affogo nel sangue e nei coltelli il mio dolore e la mia depressione. Ci siamo autodistrutti, dopo tanto, bruciati con il primo soffio di sigaretta, con la prima iniezione di eroina.
Perché Tom? Perché ci sta succedendo tutto questo? Quando finirà tutto questo?
Scivolo fuori dal piumone di Batman, quello stupido piumone che ti ostini ancora a tenere, e sgattaiolo giù dal letto. Il parquet è freddo, freddissimo. Ti guardo di nuovo, ma tu dormi profondamente; approfitti del fatto che non ci sono più io per allargarti e occupare mezzo letto da solo. Sei sempre il solito egoista. Però ti amo.
Le tende blu che ti aveva messo la mamma sono tirate, non fanno filtrare la luce dalla finestrella della tua stanza. Della nostra stanza, a dire il vero. Quando la mamma ci aveva detto di tornare un po’ a Magdeburgo per stare con lei, avrei tanto voluto dirle di no. Ho paura, Tom. Ho paura che ci scopra, che se ne renda conto, che ci odi. Ho paura di rovinare tutto. Di fare qualcosa di troppo e di rompere il nostro misurato, perfetto, matematico equilibrio. E chi avrebbe mai detto che la nostra vita si sarebbe basata sui calcoli, noi, che a stento sappiamo cosa siano le divisioni. Una bella fortuna che mamma se ne sia andata per qualche giorno, lasciandoci da soli nella vecchia casa della nostra infanzia. Così posso baciarti in bocca e non darti quei penosi bacini sulla guancia (“Che figli affettuosi che hai, cara” dicono da tempo immemorabile le amiche di mamma. Oh, non sapete quanto). Posso chiamarti “amore, tesoro, cucciolo”, senza che nessuno mi faccia domande indagatrici. Posso appallottolarmi su di te quando guardiamo la tv senza che mamma mi rimproveri in continuazione con i suoi “Bill, insomma, lascia in pace tuo fratello!” (te lo ricordi, da quando eravamo bambini e tu ti ostinavi a guardare i Power Rangers, e io avevo paura e tu mi abbracciavi. E poi quando ti addormentavi sulle mie gambe quando avevamo quindici anni e io ti obbligavo a vederti tutte le puntate di “C’è sempre il sole a Filadelfia”. E adesso, con “Criminal Minds” per me, che so che ti fa paura, e le tue stupidi partite di pallone. A mamma però non è mai piaciuto il fatto che vedessimo la tv avvinghiati uno all’altro come gomitoli di lana).
Possiamo semplicemente fare l’amore fino a rimanere sfiancati (ora vorrei quasi ridere, perché mi dici che faccio sempre troppo casino “Dai, fratellino, contieni un po’ le urla”. E poi ridi e mi spupazzi e io ti riempio di pugnetti che non farebbero male a una mosca. E non oso immaginare se qualcuno lo venisse a sapere, ringraziando che il vicino di casa è sordo. Non so se ti ricordi Georg, una mattina, con il suo innocente “Gemelli, avete avuto gli incubi stanotte? Sognavate che vi sgozzavano? Avete fatto un casino della Madonna”. E tu hai nascosto la faccia nella tazza di latte cercando di soffocare le risate, mentre io ho finto un attacco di tosse improvviso.) Possiamo fare il bagno insieme, quando eravamo ancora troppo piccoli per amarci. O forse ci siamo semplicemente amati da subito, nell’esatto momento in cui siamo stati messi al mondo. Se non che magari ci amavamo ancora prima di essere concepiti.
Fa freddo, d’inverno, nella pianura, ma non ho voglia di coprirmi. Scosto le tende blu e mi appoggio al vetro brinato, il mio corpo nudo che trema dal gelo. Fuori è notte fonda, e vedo i fiocchi di neve volteggiare nel vento. Cosa siamo noi, Tom? Fiocchi di neve che vengono sbattuti nel mondo da una forza molto maggiore alla loro. Seguo con lo sguardo due fiocchi gemelli, che volteggiano attaccati per un filo. Li guardo scendere verso la strada piena di neve bianca e morbida, sempre legati anche se c’è il vento che soffia per separarli. Ma loro lottano furiosamente per rimanere attaccati, insieme fino alla fine. Come noi, fratellino tanto amato: lottiamo con i denti e con le unghie per rimanere insieme. E anche se tutto intorno crolla, noi rimarremo in piedi. Perché siamo i gemelli Kaulitz, e so che ce la potremo fare.
I bambini annusano, ma non sanno vedere
Sei sveglio. Seguo con lo sguardo il tuo corpicino magro e pallido, scosso da brividi di freddo e sospiro piano. Sei così bello, piccolo mio. Etereo come una fata maledetta. Il mio letto è impregnato del tuo odore, del nostro odore. Sa di quello schifoso profumo da donna che ti metti ogni santo giorno. Sa del mio sudore salato. Sa dei tuoi trucchi, con le strisciate di rossetto viola sul cuscino. Sa di sesso, tanto sesso sbagliato. Sa di incesto. Sa di torta di mele e di casa. Sa di tutte le parole non dette che galleggiano tra me e te, tutte quelle cose che non abbiamo bisogno di dirci. Sa delle nostre promesse che non abbiamo mantenuto, sa delle nostre preghiere piante, sa delle nostre lacrime mai versate, sa del nostro amore nascosto, sa di tutti i segreti che non abbiamo mai saputo. Sa di noi, Bill.
Su questo letto ti avevo ospitato quando mamma aveva fatto fare una cameretta per te tutta nuova e tu avevi paura di stare da solo. Su questo letto avevamo giocato a scacchi e tu mi avevi battuto. Su questo letto ci eravamo baciati per la prima volta, e Dio solo sa quanto io abbia glorificato quel giorno in cui avevamo posato le rispettive labbra su quelle dell’altro, in perfetta sincronia, senza che nessuno facesse il primo passo: siamo insieme il primo passo. Su questo letto avevamo studiato seriamente scienze per la prima (e ultima) sufficienza della nostra vita. Su questo letto l’avevamo fatto per la prima volta, il giorno del nostro quindicesimo compleanno, quando la mamma ci preparava la torta di mele. Su questo letto abbiamo scritto la maggior parte delle nostre canzoni, quelle che quando le canti mi guardi sempre negli occhi e io tiro giù le note solo per te. Su questo letto ci eravamo giurati eterno amore, e avevamo dodici miseri anni. Su questo letto abbiamo vissuto metà della nostra vita.
Mi alzo anche io, piano, tremando dal freddo. È pungente, questa notte. Prendo la tua stupida vestaglia rosa con lo jabot, quella di cui vai tanto fiero e te la metto sulle spalle. Sobbalzi, girandoti di scatto, come se ti avessi beccato in flagranza di reato. Hai freddo, tesoro mio, vieni qui. Ti stringo tra le mie braccia, appoggiati al vetro di questa finestra, mentre ti appoggi al mio petto e ti stringi a me. Non piangi, ma le tue lacrime è come se scorressero sulla mia pelle. Guardiamo fuori, il lampione che illumina malamente la strada deserta, il vento che soffia e la neve che cade giù veloce e rotea sempre di più. Il cielo è nero, nero come i tuoi capelli. Notte buia, Bill. Notte buia e niente stelle. Siamo noi le stelle di questa oscurità, siamo noi i dannati che illuminano a giorno questo orrore. Brilliamo, sempre di più, accechiamoli. Siamo le stelle morte di un Inferno in via di restauro. Siamo le luci elettriche di una Hollywood decadente.
I bambini leggono, ma non sanno immaginare
Tom, oh, Tom. Perché stiamo correndo attraverso il monsone? Quella canzone, quella dannata canzone che non faccio altro che canticchiarmi nella testa. Perché quando impazzisco io penso sempre a te, e forse sono davvero pazzo. Anzi, so di esserselo. Sono matto, sono il tuo Cappellaio e tu sei il mio Coniglio Marzolino, sempre seduti al tavolo della merenda, a tirarci the e biscotti e fette di torta di mele, strimpellando una chitarra scordata e canticchiando una canzone dimenticata. Ma la domanda, amore mio, è solo questa: dov’è la nostra Alice?
Ti accarezzo la pelle calda, che profuma di te e di torta di mele, mi stringo a te perché so che sei l’unico che può tenermi in piedi. E tutto quel tempo passato a dover fingere di non amarti, a non indugiare troppo nel tenerci la mano, a resistere alla tentazione di baciarci o semplicemente di addormentarci abbracciati come due piccoli orsi bisognosi di affetto. Avrei tanta, troppa, voglia di uscire e di sdraiarmi sulla neve a guardare le stelle con te. Congelare abbracciati, e aspettare che ci trovino, uniti in un amore che non potremo mai consumare e che non potremo mai rivelare a nessuno, giusto per far loro vedere che saremo anche capaci di questo. Voglio stare con te, fratello, e basta. Voglio morire, vivere, sacrificarmi per te. Cosa c’è di tanto sbagliato, mi chiedo? Perché non andrebbe bene il nostro amore? Intanto, penso che sia troppo tardi per cancellarlo.
Comincio a baciarti il collo, la spalla con irruenza, troppa irruenza. Perché sono così arrabbiato, così tanto arrabbiato con il mondo e con la gente che è bigotta e non capisce niente. Voglio cantarlo alla gente che noi ci amiamo, strillarlo nel microfono fino a perdere la voce. Mi accarezzi i capelli sparati e arruffati e la schiena, scendi giù fino a darmi la solita pacca sul fondoschiena. E mi ricorda quel giorno quando lo facesti prima di uscire con i tuoi amici e mamma ti sgridò “Tom, non toccare il fondoschiena di tuo fratello, piccolo imberbe ragazzino!” e io risi talmente tanto da non stare in piedi. O quella volta appena finito il concerto, e allora era stato Gus a prendere le veci di mamma con il suo tipico “Ho capito che sono due giorni che non vedi una donna Tom, ma trattieniti!”. Una donna, tu? Sono io la tua donna, la tua regina, la tua principessa, la tua zarina, la tua puttana personale. Sono tutto quello che vuoi, quando vuoi. Sono il tuo cuore, il tuo cervello, la tua anima, il tuo uomo, il tuo amante, il tuo migliore amico, la tua fine, il tuo inizio, il tuo dio, il tuo demonio: sono il tuo gemello, Tom, la persona che può capirti meglio dagli inizi del tempo.
I bambini imparano, ma non sanno vivere
Vuoi che non lo senta, come ti stai eccitando di nuovo? O forse fai solo finta, è solo eccitazione depressa, sono lacrime che non riesci a piangere. Le tue lacrime sono solo acqua di scarto di qualche industria di bambolotti, finte e trasparenti, quelle che piangi quando ci sono tutti, macchiate di trucco. Le lacrime che tutti conoscono, di cui parlano, di cui scrivono, da cui provano a consolarti. E poi hai le altre, quelle che conoscono io. Quelle che scottano, che gelano, quelle pesanti, rumorose, casiniste e disordinate. Quelle che piangi quando siamo io e te, quando anneghi nella tua stupida depressione, quelle che sanno di rivalsa e di vendetta.
Ti stampo un bacio sulla fronte pallida, osservando quella ragazza che sta correndo sotto la nostra finestra, sola nella notte, avvolta in un piumino. Corre, lei. Come corriamo noi nella nostra vita. Chissà da cosa sta scappando? Un amore finito, un qualcuno che le voleva far del male, degli amici sbagliati, una famiglia che non la comprende, semplicemente da se stessa. Da chi stai fuggendo, ragazza, o verso cosa stai correndo? Dove vai, bambina? E perché sei da sola quando nessuno lo dovrebbe mai essere? Forse i nostri baci e i nostri tocchi si stanno facendo troppo bollenti per questo inverno gelido, dovremmo smetterla di vivere sulle falsità attorno alla nostra persona, Bill. Potremmo scappare da qualche parte, insieme. Te lo ricordi, quella notte? Appena prima del concerto a Londra, ti eri precipitato nella mia stanza con il fiatone, i capelli sparati tutti annodati e i tacchi vertiginosi, con quello zaino buttato su una spalla e gli occhi pieni di lacrime. “Scappiamo per sempre, Tom, ti prego. Vieni via con me”. E nel tuo sguardo non avevo visto altro che disperazione allo stato puro, tutta la voglia di fuga che ti caratterizza da sempre, quel coraggio da eroina di un romanzo rosa di cui sei pieno. La sai una cosa, amore mio? Ero quasi sul punto di dirti di sì, di seguirti nella tua (o dovrei nostra?) follia. Di prenderti per mano e correre nel primo aeroporto e saltare sul primo aereo che ci sarebbe capitato sotto mano. Di dimenticare tutto, la fama, la musica, la Germania, i Tokio Hotel e tornare a essere Tom&Bill, i gemelli innamorati. Sarebbe stato bello, non credi? Rifarci una vita in capo al mondo, da soli, piantarla di fingere di essere solo gemelli. Come potremo mai esserlo, dopo tutto quello che abbiamo fatto, che abbiamo suonato, che ci siamo detti la notte. Tutte quelle parole che ci siamo sussurrati a denti stretti nel bel mezzo dell’oscurità, tutte le promesse che ci siamo fatti sotto la luna, tutte quelle cose amorevolmente sconce che ci gemiamo a vicenda nell’orecchio in notti bollenti come l’inferno, tutti i segreti che ci siamo rivelati al tavolo di casa intenti a capire come far andare il microonde. Poi però mi era quasi svenuto tra le braccia, la mente annebbiata da chissà quali droghe e la nostra fuga era svanita, così come la nostra sanità mentale.
Cosa ne dici, Bill, se provassimo di nuovo a tentare una fuga? Ne saremmo ancora in grado? Possiamo limitarci a seguire la seconda stella a destra?
I bambini sognano, ma non sanno ricordare
Io non credo che io e te potremmo mai litigare, cucciolo mio. Siamo come una radio libera, che insegue una frequenza: io sono la radio e tu la mia frequenza. Io sono un pettirosso e tu sei il mio nido. Io sono una stella e tu sei il mio universo. Io sono una goccia d’acqua e tu sei il mio oceano. Ci incastriamo perfettamente, come i pezzi di un enigma irrisolvibile. Ti ricordi quando in tv davano “Via col Vento”? E’ il mio film preferito, e lo avevamo guardato insieme con la compagnia non così ben voluta di Georg e Gustav. E poi tu ti sei addormentato sulle mie gambe dopo solo un’ora di film, perché lo so che non lo puoi soffrire; solo che quando non ci sei tu a tenermi fermo, a controllarmi, io mi lascio andare. Così ti sbaciucchiavo, ogni tanto. E ti pettinavo i tubi. E sospiravo accarezzandoti le spalle. Penso che loro se ne siano accorti e che ci abbiano ignorato, come fanno sempre. Amore, omertà, bugia talmente mal celata da farne intravedere le trame. Però è un divertimento malato.
Guardo fuori e non vedo più nulla, se non la neve che cade e copre tutto. Non c’è nessuno alla finestra, esclusi io e te, intenti a spiare le nostre vite da dietro un vetro. Siamo gli orafi che studiano il diamante grezzo da dietro una lente. Mi fa male al cuore vedere la nostra casa che non ci vuole più, vedere la neve che ci ha cresciuti squadrarci e il nostro cielo rimanere vuoto. Ho tanto sonno, Tom. Voglio dormire per sempre. Voglio te e nessun altro. Voglio vivere la mia morte con te.
Ripenso a tutte le nostre canzoni, che raccontano storie. Le nostre storie. Le parole che ci urliamo quando ci arrabbiamo, e tutti gli schiaffi che ci siamo tirati, risanati da un bacio subito dopo. I “ti amo” lasciati a marcire nel buio di qualche vicolo, nell’umido di un albergo russo, nell’amarezza di un caffè senza zucchero. Le domande fatte a colazione, nei nostri momenti più sballati. Le risate continue e i pianti infiniti per una società corrotta e bastarda. Anche semplicemente i calci nel pieno della notte mentre rientriamo barcollando da qualche discoteca, o gli ansiti che risuoneranno ancora in qualunque posto dove abbiamo fatto l’amore. Forse anche in quel bagno pubblico sudicio dove mi avevi sbattuto una volta mentre Georg e Gus erano dietro alla cartina cercando di capacitarsi dove poteva essere l’albergo e io e te a tipo due metri da loro a fare la cosa meno consona.
Mi prendi per mano, come quando eravamo piccoli e per non perderci giravamo sempre manina nella manina, e poi quando eravamo riusciti a capacitarci della cosa solo per amore. È tanto bello stringere la mia mano gemella, è una cosa così dolce.
Mi porti dolcemente a letto, ma lasci la tenda aperta, per continuare a vedere fuori e per non smettere di fare i nostri sogni uguali. Ci sdraiamo di nuovo sotto le coperte di Batman, stretti uno all’altro come fossimo la stessa cosa. Le teste attaccate, le mani intrecciate, le gambe legate, le bocche unite nel nostro sempiterno e unico bacio e gli occhi incatenati gli uni agli altri. Lo stesso colore, la stessa sfumatura, ma la luce diversa. I due fiocchi di neve illuminati dalla seconda stella a destra che cadono sempre più giù. Insieme e soli.
I bambini piangono, ma non sanno soffrire
Non oso immaginare cosa direbbe mamma se ci vedesse adesso, avvinghiati nudi nel mio letto d’infanzia, impegnati a baciarci come se non ci fosse un domani. Per noi non ci sarà mai un domani, tesoro mio, mai. Sarà sempre un orrendo oggi che proseguirà all’infinito, senza mai cambiare, senza mai mutare in qualcosa di positivo. Ti ricordi quando la notte della Vigilia mamma ci faceva dormire con lei nel lettone e ci raccontava Christmas Carol, il libro di Dickens? E tu avevi sempre paura, e volevi stare in mezzo perché non volevi che il fantasma del Natale futuro venisse a prenderti. Mentre io odiavo con tutto il cuore del fantasma del Natale presente e nascondevo la testa sotto il cuscino, tenendoti la manina nel buio. E mamma rideva, perché forse ai tempi non capiva. Non capiva che avremmo odiato il Natale presente anche da grandi, che lo avremmo trovato abominevole come ai tempi. Non capiva che avremo sempre paura avuto paura del Natale futuro, per le cose orrende che ci porterà. La mattina di Natale vorrei tanto poterti baciare sotto l’albero e spupazzarti senza fare finta di prenderti affettuosamente a pugni. E vorrei poter stare ore sotto il vischio e tenerti in braccio come la bambola che sei e baciarti ancora.
Hai ancora paura a Natale, Bill? Mi tieni la mano nel buio, come quando eravamo piccini e non ci amavamo sul serio. Non eravamo carnali, solo ideali. Eravamo ancora degli angioletti confusi, ora siamo degli angeli cacciati dal Paradiso e rifiutati dall’Inferno, raminghi sia in cielo che in terra, soli a dover combattere contro il Bene e il Male, lottando contro la corrente del mondo. Tieni duro, Bill. Tieni sempre duro, fino alla fine dei tempi. Ti accarezzo i capelli corvini, arrotolandomi una ciocca attorno al dito. Tutta la fatica che abbiamo fatto, tinte, trucchi, dread, vestiti, immagine, per essere diversi, per non sentirci gemelli dentro, per far conto di essere due uomini normali che si amano fallisce di giorno in giorno. Siamo uguali, Bill. Siamo le due parti dello specchio, e tu sai bene che non potremmo mai essere altro. Io sono la parte in cui ti specchi, tu sei il retro in cui Alice cade e il nostro amore proibito la cornice che ci tiene legati.
Mamma, i tuoi figli si amano. Mamma che farai ora? Ci preparerai sempre il latte alla mattina, con due cucchiai di miele per me e una punta di caffè per Bill? Oppure ci diserederai per l’eternità? Mamma, i tuoi figli non vedono che la copia di loro stessi. Ci chiamerai sempre ogni sera per sapere come stiamo, anche se siamo in tour? O applicherai la damnatio memoriae anche a noi? Mamma, i tuoi figli fanno l’amore ogni notte, anche sotto al tetto che li ha cresciuti. Ci abbraccerai sempre come se stessimo per andare a scuola e ci darai il solito bacio sulla testa? O invece farai finta di non conoscerci se ci incontrassimo per strada?
Sospiro, aggiustandoti le coperte e il cuscino. Sei ancora sveglio, lo so, fingi solo di dormire. Mi sporgo dal letto e recupero il nostro orsacchiotto, mettendolo sui nostri cuscini. Fino ai dodici anni lo tenevamo in mezzo, visto che intanto avvicinavamo sempre i lettini per dormire insieme e la mamma aveva rinunciato a insegnarci a dormire separati. Poi lo tenevamo sul cuscino, visto che tu volevi sentire il battito del mio cuore e io sentire il suono del tuo respiro sul mio petto. Quanti casini che abbiamo corso, quanto coraggio che abbiamo dentro. Devi esserne fiero, Bill. Noi siamo coraggiosi. Siamo i gemelli Kaulitz, le supereremo tutte. Anche i tre fantasmi del Natale.
I bambini amano, ma non sanno cosa vuol dire
Il fantasma del Natale passato. Le risate in famiglia, l’albero che decoravamo litigando sempre su chi dovesse sistemare il puntale di vetro smerigliato e su chi dovesse mettere Gesù nel Presepe. Il pranzo con i parenti, intenti a lanciarci il cibo a vicenda, togliendoci con le manine i pezzi di verdura attaccati ai capelli e ai nasi a vicenda. Le carole cantate agli angoli delle strade, tenendoci la mano, facendoci inconsapevolmente gli occhi dolci. Il panettone nascosto sotto al letto per mangiarlo la notte da soli, imboccandoci a vicenda. I regali sfasciati e le occhiate complici di quando eravamo adolescenti verso i rispettivi pacchetti. Il camino accesso e io che dormivo su di te, mentre vedevamo la tv. La cioccolata calda che bevevamo in cucina con il pane e burro, litigando con i compiti che non volevamo fare. La canzoni d’amore che ci cantavamo sotto il vischio quando mamma non era a casa, tanto la nonna è sorda e non capiva nulla. La gioia nei nostri occhi uguali.
Il fantasma del Natale presente: le mie lacrime silenziose sul tuo petto la mattina, l’albero storto della nostra nuova casa, che finiamo sempre per decorare litigando come due iene mentre ci baciamo con voracità, Gesù bambino che ci guarda storto dalla sua culla. Il pranzo rovinato dai vecchi, e io e te che ci teniamo la mano sotto al tavolo rispondendo alle domande pungenti di zia Karina e a quelle noiose di zio Klaus. I regali la mattina, con urla di gioia infantile e forse siamo ancora dei bambini anche se siamo i Tokio Hotel e abbiamo già 19 anni. Niente più carole per le strade, ma solo i nostri tristi cuori di brina sul vetro della cucina, intenti a sorbire cioccolata non più buona come quella di dieci anni fa. I nostri sguardi tristi al vischio con la cugina Vera e il suo nuovo ragazzo che si possono baciare tranquilli e noi li a soffrire e a tenere le mani intrecciate rigorosamente nascoste. Il fuoco nel camino e il mio cuore che brucia dalla voglia di piangere e tornare a essere bambino. Il dolore nei nostri occhi uguali.
Il fantasma del Natale futuro: non lo so. Ma ci saremo io e te, Tom. E anche mamma, perché lei ci sarà sempre. E la mia voce, e la tua chitarra. E la nostra musica che ci invade l’anima. E la cioccolata calda e il pranzo coi parenti. E l’albero di Natale. E le mie lacrime e i tuoi sospiri. E i regali e i cuori di brina. E le occhiate languide. E il letto della nostra vita. E io e te di nuovo. E tutto il nostro amore. La speranza nei nostri occhi uguali.
Buon Natale, gemello io. Ti amo.
 
***
Buon Natale gemellini miei, tanto amore :)
e buon Natale anche a voi adorate lettrici che siete giunte in fondo a questo sclero da twincester appassionata e natalizia.
  
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