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Autore: Levyan    25/12/2015    1 recensioni
Sleepers, niente da dire sulla storia.
Perdonatemi il fatto che non sono capace di scrivere di Pokémon e basta, per me rimangono gli umani i protagonisti.
La One Shot non rimarrà a se stante, l'ho pubblicata ora perché è a tema natalizio e per festeggiare il venticinque dicembre insieme. Buon Natale a tutti da Lev e da Courage. Cerchiamo di essere brave persone.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga, Videogioco
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Sleepers

 

E poi uno quando pensa all’inverno immediatamente crea nel suo cervello un’immagine raffigurante una città coperta di neve bianca e purissima sovrastata da un cielo chiaro da cui piovono serafiche delle opere d’arte in miniatura destinate al solo sciogliersi a contatto con il suolo.
Invece, la verità era un’altra. L’ultima volta che Joseph aveva visto la neve era stato nei giorni della scalata al monte Corona, lì sì che era davvero tutto bianco. La crescita però poi decide di intervenire sempre nella vita di una persona; l’inverno che Joseph associava a quelle candide immagini così fredde e calde allo stesso tempo si era mascherato ed era divenuto la semplice, banale ed effimera brina poggiata sulle foglie annoiate del cipresso vicino alla fermata del bus. L’albero che Joseph salutava ogni mattina e che gli aveva sempre tenuto compagnia, l’amico fedele che ti presta i soldi che ti mancano per comprare il biglietto, ti accompagna alla stazione e poi rimane a salutarti dal binario finché il tuo treno non è scomparso oltre l’orizzonte.
Quello era per lui quel cipresso. E la sua brina era per lui l’inverno.
Era il suo cipresso, anche se esso era situato in un viale accompagnato ai lati da due file parallele di alberi tutti uguali, quello era il suo cipresso.
Joseph non aveva particolari cose da pensare nel preciso momento di quel preciso giorno di cui aveva già dimenticato la collocazione temporale. Era mattina. Ed era freddo. Le sue labbra colorate di una tinta violacea ben poco rassicurante confermavano e le sue mani strette e raggomitolate nelle tasche dei jeans davano appoggio a loro volta.
Joseph aveva dormito decentemente quella notte, si era svegliato come sempre attorno alle due, ma era riuscito a riaddormentarsi senza grossi problemi. Ovviamente, dopo la pillola. Aveva i muscoli del collo tesi e doloranti per la posizione assunta dal suo capo durante la notte inquieta, ma nulla di più grave.
Fece qualche semplice movimento per testare ancora quale fosse il raggio d’azione consentito prima di sentire il bruciore.
La sveglia era suonata alle solite sei e diciotto minuti, orario calcolato nei minimi termini per risparmiare più ore di sonno possibili, ed era uscito di casa poco dopo.
Ecco che si affacciava all’angolo del viale con la strada perpendicolare il muso squadrato e arancione dell’autobus. Joseph non fece neanche cenno all’autista, al caro vecchio Eddie bastava intravedere il cappotto marrone del suo fidato passeggero per sapere che doveva fermarsi. Il bus interruppe la sua corsa, aprì docilmente le porte e lasciò entrare un altro compagno di viaggio.
Joseph salutò Eddie, i due erano molto amici, ma parlavano raramente. Si perde sempre il rapporto affiatato con le persone che si è costretti a salutare ogni mattino.
Qualche volta capitava che si esagerasse con l’interazione e uno dei due tirasse fuori un commento sull’ultima Olimpiade del Pokéathlon, in tal caso l’altro avrebbe risposto felice con qualche semplice parola di poche sillabe. E il tutto avrebbe reso solo più amara la delusione per la caduta di una potenziale conversazione mattutina tra amici. Al contrario, a volte il cielo era più grigio del solito da una delle due parti e il classico saluto si spogliava del suo suono riducendosi così ad un semplice gesto della mano o del capo. A quel punto, l’intero viaggio sarebbe per il fautore di tale mancanza di rispetto un limbo ossessivo dondolante tra la preoccupazione di aver offeso l’altro e l’imbarazzo di tirar fuori in ritardo una voce per fargli comprendere che non la pesantezza dell’impegno quanto quella delle palpebre aveva giustificato la sua non-risposta.
Eppure… ‒ Auguri, Joseph ‒ fu lo straordinario saluto di Eddie quella mattina.
‒ Oh ciao, auguri anche a te ‒ rispose l’uomo.
Joseph si sedette in uno dei posti prossimi all’abitacolo dell’autista e prese ad interrogarsi. Che cosa aveva giustificato gli auguri dell’amico?
Quasi immediatamente comprese, era il ventiquattresimo giorno di dicembre, era la vigilia di Natale. Effettivamente, ripenso al fremito che si avvertiva per le strade da qualche giorno a quella parte, alle decorazioni che erano state appese tra un palazzo e l’altro nei viali più importanti, alle vetrine dei negozi che a poco a poco avevano assunto un colorito sempre più tendente al rosso, attutito appena dall’onnipresente bianco a rappresentazione del fantomatico mantello di neve simbolo di quella stagione.
‒ Ah… auguri… ‒ mormorò a voce bassa Joseph.
Non se ne era reso conto, ma il Natale era giunto pure quell’anno. Non sapeva precisamente da che cosa derivasse quella festa, però faceva parte della sua cultura e della sua educazione, da piccolo era solito festeggiarla a casa con i genitori e qualche parente.
Da grande invece… si era addormentato, o si era soltanto perso qualcosa. Non badava più al passare dei giorni quanto a quello delle ore. Il suo lavoro non era particolarmente emozionante o stimolante ma neanche lasciava molto spazio al riposo, contabile in una grossa industria multinazionale, e la pagnotta sapeva di numeri e cifre alle papille.
E poi un pensiero giunse come un inaspettato raggio di sole nella sua testa: non doveva andare a lavoro, era un giorno festivo, quello. Dimenticò tutto: l’inutilità della sua levataccia mattutina e la preoccupazione per la grave mancanza di attenzione sul posto di lavoro, era sicuro che qualche suo collega gli avesse fatto gli auguri il giorno prima o almeno che fosse stato sottolineato dal caporeparto che nei giorni seguenti i dipendenti sarebbero potuti rimanere a casa. La giornata si fece più bella.
Joseph guardò fuori dal finestrino: il marciapiede, come la pellicola di un film muto, scorreva davanti ai suoi occhi al di là del vetro del bus. Le strade prima mezze vuote cominciavano a popolarsi di qualche martire mattutino forse in cerca degli ultimi regali in extremis, i negozi cominciavano ad aprire e persino le bancarelle natalizie iniziavano a sbocciare come fiori in primavera. E ad un certo punto gli parve pure di sognare, comprese a fatica che era tutto vero: dei fiocchi di neve cominciarono a scendere giù dal cielo, candidi cristalli di ghiaccio minuscoli e perfetti iniziarono a cadere come lacrime del cielo. Nevicava davvero, non come quella volta che i ragazzi delle scuole medie della città si erano messi d’accordo per far nevicare a comando combinando assieme le mosse dei loro Pokémon.
“Molto strano” pensò Joseph. “Fuori dal normale” elaborò la sua mente.
Effettivamente, nella sua città la neve era tanto rara quanto le invasioni aliene. Veramente molti pochi Pokémon di tipo Ghiaccio abitavano dalle sue parti e a volte la temperatura neanche scendeva sotto lo zero nei giorni più duri dell’inverno.
Fatto sta che quella che stava vedendo fuori dal bus era neve, neve vera. Felice e sereno, Joseph guardava quella lenta pioggia biancastra. La giornata sarebbe stata sicuramente più dolce per lui, aveva ricevuto proprio una bella notizia.
 
Eddie aveva appena iniziato il turno. Erano le nove e mezzo di sera, la notte era scesa da un bel pezzo, essendo la proporzione ore di buio-ore di luce invernale fortemente carente verso queste ultime. I lampioni accesi ai lati della strada servivano davvero a poco quella sera, quasi ogni angolo della città era addobbato da luci natalizie e altre decorazioni luminose. Lui era solito osservare sempre i cambiamenti della città in cui viveva, essendo il percorso dell’autobus da lui guidato parecchio insistente verso il centro, luogo più animato della cittadina, ed avendo quasi raggiunto la doppia cifra inerentemente al numero di anni passati a guidare per quella strada. Partenza alle nove e capolinea alle sette, l’urbano notturno. Dalla rimessa, l’uomo cominciò ancora una volta il suo itinerario solito.
Era la sera del ventitré dicembre, il giorno dopo sarebbe stata la vigilia di Natale. Ne era felice, Eddie, si sarebbe riposato per alcuni giorni e avrebbe ripreso le forze. Non vedeva l’ora di terminare il turno.8
Le fermate scorrevano una dopo l’altra, la radio accesa faceva compagnia all’autista e ai pochi passeggeri assonnati della tratta D3. L’uomo si districava con abilità tra le vie della metropoli, ogni tanto intravedeva la mano di un pellegrino in cerca di un passaggio sotto il segnale con l’icona del suo bus e quindi si fermava per raccoglierlo, ogni tanto udiva il suono del campanello di fermata e vedeva l’icona collegata lampeggiare sul cruscotto e quindi frenava e anche lì apriva le porte. Per la prima ora tutto scorse nella più completa normalità, fino a quando, salì verso i quartieri più centrali uno strano figuro. Aveva una sciarpa legata al collo nera elegante e un cappotto lungo dello stesso colore, un paio di pantaloni di un rosso fiammante anch’essi molto educati e calzava delle Clark che invece tornavano ad essere nere.
L’uomo salì sul bus, obliterò il biglietto e si sedette in zona autista.
Salutandolo cordialmente come era solito fare con tutti, col tempo aveva capito che un sorriso da chi condivide la mala sorte di stare svegli a quell’ora faceva miracoli alle persone, notò che sotto il lungo cappotto aveva una giacca elegante sempre nera a metà della quale si intravedeva una cravatta rossa come i pantaloni fare da asse di simmetria.
‒ Buona sera ‒ salutò Eddie.
‒ Salve, buona sera ‒ ripeté quello aggiungendo il “salve”.
E quello si sedette.
‒ Pare che domani il cielo sarà grigiastro…
Eddie controllò che il suo udito funzionasse ancora, non era abituato a certe cose. Solitamente, i passeggeri della sua linea non parlano mai, rimangono invece catalettici sui sedili in plastica e tacciono per l’intero percorso.
‒ Sì, ma tanto sarà comunque una bella giornata, speriamo ‒ rispose con la giovialità che lo contraddistingueva, Eddie.
‒ Penso anch’io ‒ approvò l’uomo in mise nera e rossa.
‒ Lei che fa? Sta con gli amici a cena per l’antivigilia? ‒ chiese poi Eddie cercando di aprire quello spiraglio di conversazione apertosi nel nulla.
‒ Io… ‒ temporeggiò l’uomo. ‒ No, purtroppo sono incastrato con un galà alla Lega Pokémon… ‒ rispose un po’ malinconico un po’ infastidito.
‒ Ah, sei un allenatore?
‒ Sono un ex Campione, là hanno il vizio di chiamare vecchi pezzi da museo per queste occasioni così da sentirsi più importanti… ‒ scherzò quello.
‒ Giustamente ‒ rise Eddie comprendendo l’ironia della frase.
Si interruppe lì, era imbarazzato dal fatto di non averlo riconosciuto o comunque di non esser stato abbastanza attento. Seduto a pochi metri da lui si era seduto un ex Campione della Lega e lui non se ne era reso conto. Lo guardò nello specchietto: capelli che probabilmente un tempo erano stati dello stesso colore della giacca e della sciarpa ma che ora in più punti avevano perso colore convertendosi ad un bianco grigiastro sopra le basette e in alcune ciocche sparse, una corporatura anche se ammorbidita dagli anni ancora molto robusta e snella al tempo stesso, due occhi rossi come la fiamma talmente accesi che avrebbero attratto le falene.
Notando l’attenzione dell’autista, l’ex Campione capì immediatamente ‒ Non poteva riconoscermi, appartengo ad un’altra generazione, probabilmente quando io ero Campione lei neanche aveva mai preso in mano una Poké Ball… ‒ lo prese in contropiede, cercando brutalmente di toglierlo dallo stato di imbarazzo.
‒ Mi scusi, non immaginavo davvero… ‒ sorrise Eddie.
‒ Non si preoccupi ‒ e un velo malinconico calò sullo sguardo del tipo dagli occhi rossi.
Allora Eddie colse il momento di paura per fare un piccolo calcolo, se quell’uomo avesse avuto circa cinquant’anni, come dimostrava, e fosse stato Campione quando lui era troppo giovane persino per avere dei Pokémon, doveva aver vinto il titolo attorno ai dieci anni. Si stupì non poco, o quell’uomo dimostrava molti meno anni di quanti ne avesse in realtà, o era un vero fenomeno delle lotte.
Optò per la prima, sul suo bus mai nessun fenomeno era salito. Eppure la cosa puzzava, come mai un ex Campione della Lega avrebbe dovuto prendere il bus? Di solito due-tre anni in quel ruolo bastano per riempirsi le tasche di soldi.
Per qualche istante, ci fu il vuoto, sia nei pensieri di Eddie sia nell’area acustica del bus, solo il lieve brusio della radio accesa si udiva appena.
‒ Bisogna vestirsi bene, quando si va ad un convegno con la gente che ti ha visto sul podio… per loro rimarrai sempre ricco e famoso… anche se non sei più sulle copertine e hai appeso le Pokè Ball al chiodo ‒ sospirò quello un po’ triste ma con un debole sorriso sul volto.
Gli fece un po’ tristezza, Eddie provò compassione per un’antica stella della regione, non credette alla cosa inizialmente. Ipotizzò che forse era stato costretto ad un mezzo pubblico poiché non aveva i soldi per fare il pieno alla sua auto, o magari l’aveva dovuta vendere o pignorare. Aveva sentito da lontane voci che chi esce dal mondo dello spettacolo difficilmente trova un lavoro più semplice che gli permetta di campare, una faccia troppo conosciuta non è fatta per stare in mezzo alla gente.
Di nuovo, provò compassione per quell’uomo. Lo guardò malinconico scendere le scalette del bus, prendere una boccata d’aria e voltarsi l’ultima volta a salutare quel simpatico autista che non l’aveva riconosciuto, ennesima conferma dell’effimera longevità della fama, nel suo mondo. Lo osservò per alcuni istanti voltarsi e muovere i primi passi sulla terra ferma dopo lo scomodo viaggio su un mezzo al quale probabilmente non era neanche abituato, dopodiché tornò con gli occhi sul cruscotto, premette di nuovo sull’acceleratore e a fare il suo lavoro, l’autista della linea notturna D3, mancavano ancora delle ore allo scoccare della mezzanotte e al sopraggiungere della vigilia di Natale.
 
‒ Eddie, sai mica se riesco a prendere un bus per tornare indietro? ‒ chiese Joseph all’amico autista sporgendosi un po’ verso di lui.
‒ Ah, allora ti sei ricordato che oggi è festa, eh? ‒ scherzò quello. ‒ Dai, chiedimi uno strappo che tra poco siamo al capolinea e devo tornare a casa pure io…
‒ Grazie, sei un amico ‒ fece Joseph tornando a sedere con uno strano sorriso in faccia. ‒ Ci esce una caffè con un vecchio compagno? Offro io per ringraziarti ‒ propose quello.
‒ Certamente, ho parcheggiato vicino ad un bar che fa un espresso meraviglioso.
I due risero soddisfatti. Rallegrati entrambi dal periodo di festa, con pochi pensieri nel cervello e con il pieno controllo della valvola da girare per far fuoriuscire lo stress del lavoro dal sistema nervoso.
Presero un caffè alle sette e dieci, ridendo insieme di vecchi ricordi comuni. Era la mattina della vigilia di Natale e nevicava dolcemente tra le vie della città, una neve morbida e senza pretese, una neve adatta a tutta la famiglia.
E in quel momento, erano svegli e addormentati al tempo stesso.
   
 
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