CAPITOLO UNO
Entro nel bar che frequento di solito.
Amo l’ambiente che emana intorno a sé: tavoli e sedie di legno antico tipo alla “Far West” e delle piccole candele appoggiate sul tavolo.
Anche le luci non sono troppo appariscenti, sono calde e si intonavano alla perfezione al colore dei mobili marroni e il muro color arancio-giallo.
Siccome fuori sta gelando, decido di ordinare una bella tazza di cioccolata fumante.
Noto, quasi subito, di essere osservata da un ragazzo nel tavolo accanto ma cerco di non darci troppa importanza.
Probabilmente starà pensando su come provare ad attaccar bottone, penso tra me e me.
Non è la prima volta che un ragazzo approfitta del fatto che sia da sola per avvicinarsi.
E’ come se leggessero sulla mia fronte “sono single e disponibile” o qualcosa del genere.
Sì, sono single, da quasi due anni ma non mi manca nulla, di lui.
Avevo veramente pensato di aver incontrato l'uomo della mia vita, l'anima gemella.
Era un amore che faceva quasi perdere il fiato, e ahimè, avevo dato tutto quello che potevo per renderlo felice, persino “farmi assumere” come sua segretaria personale e passare le notti in bianco per finire il lavoro che non era riuscito a svolgere durante la giornata. Che stupida.
Pensavo veramente fosse amore, il suo. Ero talmente accecata dalla profondità dei miei sentimenti che non mi ero resa conto di cosa stava succedendo veramente, sciocca.
La verità era un'altra, ma scoprirla dopo tre anni passati insieme è stato come ricevere un secchio d'acqua gelata addosso.
Il fatto che non mi facesse andare nella sua azienda a lavorare, era una delle ragioni per cui doveva suonarmi un campanello d'allarme. Ma penso che, anche se fosse suonato, non ci avrei badato neppure.
Ed è stato proprio così che alla fine, dopo vari “vado – non vado”, ho deciso di andare in azienda.
Dovevo dirgli delle cose urgenti riguardo un cliente e siccome non rispondeva al telefono, decisi che era meglio andargli a parlare di persona.
Mi chiedo ancora perché non ci abbia mai pensato, perché ho aspettato.
Arrivai in azienda e domandai di lui.
- Scusi è possibile parlare con il Signor Jones? -
- Sì, scusi lei è...? -
- Io? Sono la sua fidanzata, la signorina Jessica Pipe -
- Ok, un attimo...Sì, è la sua fidanzata...ehm Samantha? No, ha detto di chiamarsi Jessica…Sì.. –
Samantha?! E chi caspita è Samantha?!
- Il Signor Jones arriva subito, la prego di accomodarsi - mi disse indicandomi i posti a sedere situati di fronte.
Cercai di scacciare via il pensiero che mi stava riempendo la testa.
Non è possibile Non può averlo fatto! perché?
Rimasi per cinque minuti a chiedermi chi e cosa diavolo stava succedendo.
- Jessica? Che cosa diavolo ci fai qui? - mi domandò Brandon.
Lo guardai perplessa. La sua faccia era talmente sconvolta che sembrava avesse visto un fantasma.
- Ehm…Io ero passata solo per dirti che c'è qualcosa che non va riguardo i pagamenti del signor Smith… -
- E non potevi aspettare stasera? E spiegami il perché vai dire ai quattro venti il fatto di essere la mia ragazza eh?! -
Non capii il problema. IO ero la sua ragazza. O per lo meno, credevo.
Disse che era per mantenere divisi i fatti personali da quelli lavorativi. Sì, certo, peccato che poche settimane dopo, scoprii che Samantha era la sua promessa sposa, nonché una conoscente di famiglia.
Sospiro al ricordo.
Mi rendo conto di essere stata una povera illusa. Dovevo capirlo subito, e ribellarmi. Invece me ne sono stata zitta senza dire una parola.
Il ragazzo del tavolo affianco se n'è andato. Normalmente non ci avrei fatto neppure caso, eppure, non so perché mi dispiace.
Mi avvio verso il bancone per pagare e mi dirego verso l’uscita: diluvia.
Odio la pioggia, ed odio il fatto di inzupparmi tutta. Guardo nella borsa alla ricerca di un ombrello, nulla.
Beh, oggi la fortuna non è dalla mia parte!
Rientro nel bar e mi risiedo al tavolo di prima in attesa che la pioggia diminuisca. Questa volta mi limito ad ordinare una bottiglietta d'acqua naturale.
Verso il contenuto nel bicchiere di plastica che mi aveva gentilmente dato il barista e tiro fuori il cellulare alla ricerca del numero di Kate, la mia coinquilina nonché la mia migliore amica dai tempi delle scuole medie.
Dopo diversi squilli, che a me sembrarono un’eternità, Kate risponde al telefono.
-J ess? Dove sei? Hai visto che tempo c'è? - mi domandò Kate.
- Sì, ho visto che tempo c'è. Volevo dirti che finché non smetterà starò dentro il bar -
- Ok, perfetto. Per stasera ordino sushi. Va bene per te o preferivi qualcos'altro? -
- No, Kate, va bene sushi, grazie. -
Io e Kate siamo amiche sin dalle scuole medie e non abbiamo mai litigato.
Lei è la mia migliore amica e le voglio un mondo di bene. Mi ha aiutata molto ad uscire dalla mia crisi “ho scoperto che il mio ragazzo aveva una ragazza ed io non valgo nulla”, ed è per questo che le devo molto. Senza di lei non so proprio cos’avrei fatto.
Kate non è una ragazza che ama molto stare in mezzo la gente, preferisce stare tranquilla per i fatti suoi. Pensa alla frase “meno gente conosci, più vivi meglio” e penso che abbia ragione.
Io non ero così, o meglio, mi piaceva molto stare al centro dell'attenzione ma con il passare del tempo mi sono resa conto che l'unica vera amica che ho, e con cui amo passare il tempo, è Kate. Lei c'è sempre: se sei felice lei ti supporterà fino alla fine, se ha qualcosa da dire te lo dice, se sei triste starà in silenzio e ti abbraccerà forte. Io e lei siamo come sorelle e ci confidiamo tutto.
Riguardo il tavolo dov'era seduto il ragazzo di prima. Chissà perché non ci ha provato con me. Si è limitato semplicemente a guardarmi. D’un tratto qualcosa attira il mio sguardo: un foglio di carta con qualcosa scritto. Vuoi vedere che l’ha lasciato apposta magari con scritto il sui numero di telefono?
Mi avvicino, ma non trovo nessun numero di telefono ma bensì un nome e cognome: Jessica Piper.
Piccoli brividi percorsero la mia schiena e per poco non cado per terra. Quel ragazzo non solo è stato ben quindici minuti a guardarmi ma sapeva anche come mi chiamavo.
Decido di avviarmi verso casa. Ho il cuore che batte all'impazzata per tutto il tragitto e continuo a guardare indietro per vedere se qualcuno mi sta pedinando: nulla.
Arrivo alla porta d’ingresso con il fiatone. Alla fine mi sono resa conto di non stare più camminando ma correndo. L’unica cosa che voglio sapere ora è chi accidenti sia il ragazzo e cosa vuole da me.
Salgo le scale di corsa e anche con la luce non riesco a far combaciare le chiavi con il buco della serratura.
Diversi tentativi dopo decido che, forse, suonare il campanello sia la scelta migliore.
La porta si apre e per poco non mi commuovo nel vedere il volto di Kate.
- Oh Kate!!! Finalmente, non vedevo l'ora di stringerti... -
- Ehm...Jess...stai bene? E' successo qualcosa? –
Ok, le opzioni sono due:
A- dire tutto a Kate, raccontarle per filo e per segno cosa è successo e trovare una soluzione
B- Stare zitta e muta così non la faccio preoccupare.
Preferisco correre il rischio e scegliere l'opzione B.
- L'accendiamo? -
Torno alla realtà. Kate mi guarda con i suoi occhi grandi e marroni e la sua espressione sul viso alla “se non mi dici che diavolo succede passerò alle minacce”
- Ok...ok hai vinto te, ti racconto ma promettimi che non te ne uscirai con una frase del tipo “vabbè Jess è un caso, lascia perdere…”, perché veramente non penso proprio che funzionerà -
- Va bene, ora siediti, respira e dimmi che caspita hai. Sembra che hai visto uno zombie... -
Prendo il fiato e con la maggior calma possibile provo a raccontarle cos’è successo. Kate mi guarda in silenzio e non capisco se sia zitta perché è calma oppure per non farsi prendere dal terrore.