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Autore: verystrange_pennylane    25/12/2015    7 recensioni
Come si era trovato lui, John Lennon, un giovane adulto di successo, una persona che detestava il Natale più di qualsiasi cosa al mondo, davanti ad una porta chiusa, cantando stupide canzoncine natalizie?
Va bene, forse non era poi un adulto di successo, in fondo era solo un illustratore che lavorava in un giornale neanche troppo famoso. E va bene, forse più del Natale odiava quel tizio, quel McCartney.
Oh, Paul McCartney.
Ecco, quello sì che lo odiava più del Natale, più delle guerre, del sedano e persino più dei treni in ritardo. Perché era così che era cominciato tutto.
Con un dannato treno.
*
Buon Natale, meraviglioso popolo di Efp!
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Lennon, Paul McCartney, Quasi tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Cold December Night

 

 

Come si era trovato lui, John Lennon, un giovane adulto di successo, una persona che detestava il Natale più di qualsiasi cosa al mondo, davanti ad una porta chiusa, cantando stupide canzoncine natalizie?
Va bene, forse non era poi un adulto di successo, in fondo era solo un illustratore che lavorava in un giornale neanche troppo famoso. E va bene, forse più del Natale detestava quel tizio, quel McCartney.
Oh, Paul McCartney.
Ecco, quello sì che lo odiava più del Natale, più delle guerre, del sedano e persino più dei treni in ritardo. Perché era così che era cominciato tutto.
Con un dannato treno.

John non si era reso conto che fosse il primo di Dicembre.
Novembre gli era fuggito via dalle mani senza che se ne rendesse conto, e neanche il tempo di togliere le decorazioni di Halloween, che già si era ritrovato circondato da fiocchi, nastri, palline dorate, campanelle e babbi natale. Insomma, in poche parole: il suo incubo ricorrente era tornato.
Non sapeva a quando risalisse il suo odio viscerale nei confronti del Natale. Sapeva solo di trovare così stupida e inutile quella festa, da vedersi trasformare in un vero e proprio Grinch al primo ascolto casuale di Jingle Bells.
Quindi, per John, già vedere sul suo cellulare la scritta: ‘Dicembre, 1’ era stato un trauma.
Se a questo trauma ci si aggiunge la presenza di un gigantesco albero di Natale nel pieno centro della stazione di Liverpool, è facile intuire come il suo umore non potesse che peggiorare.
Concludiamo infine il quadro con quel tizio, quel Paul McCartney, che gli si avvicinava correndo nel bel mezzo del marciapiede, ed è facile capire perché John pensasse a come diventare padrone incontrastato del mondo, solo per cancellare quella maledetta festa dai calendari.
“Simply having a wonderful Christmas time!”
Dio, stava davvero cantando?
Ed era un maglione con la renna quello?!
“Buongiorno John! Oggi è il primo di Dicembre!”
E stava gridando, tutti sul marciapiede si erano girati per guardarli!
“Non sei felice?”
“Buongiorno Paul.” Si limitò a rispondergli John, mentre scrollava le spalle e si guardava attorno, per vedere come lo stava giudicando la folla.
La verità è che ormai avevano capito tutti che conosceva Paul. Erano mesi che scene del genere si ripetevano al binario 6, mentre aspettavano il diretto per Birmingham.
Come John avesse conosciuto Paul resta un fatto straordinario per i più, perché da quel fatidico 6 Luglio le mattinate dei pendolari erano state meno silenziose e molto più caotiche.
Purtroppo.
Non importava che piovesse, che ci fosse il sole, che nevicasse o che ci fosse la nebbia, Paul era sempre pronto a dare il suo rumoroso buongiorno a John, e i due finivano sempre in qualche modo a bisticciare prima che il treno arrivasse.
La maggior parte dei pendolari ormai aveva capito come funzionava quella routine, e sceglieva la carrozza più lontana rispetto a quella della ‘strana coppia’.
John detestava quel tran tran tanto quanto lo odiavano i suoi anonimi compagni di sventura. A lui piaceva arrivare presto in stazione, con la musica nelle orecchie, prendere un caffè e guardarsi attorno con tranquillità, e per lui il viaggio in treno era un’occasione per pensare con serenità senza disturbi, oltre che per sistemare le bozze dell’ultimo minuto.
Poi era arrivato quel Paul e la sua vita era stata stravolta in un secondo.
Ricordava perfettamente quella mattinata di Luglio: faceva molto caldo, per essere l’alba. John l’aveva visto avvicinarsi, con fare circospetto e timido, per chiedergli se fosse amico di George, George Harrison, ‘quello magro come un bambino dell’Africa, con le sopracciglia giganti’.
Sì, naturalmente lui era amico di George, e da parecchio tempo. Ma lui come faceva a saperlo? E cosa voleva?
Insomma, quel fantomatico tizio non ci mise troppo a presentarsi senza che nessuno glielo chiedesse.
Si chiamava Paul, Paul McCartney, e quel giorno aveva un colloquio per un posto da pianista in uno spettacolo teatrale a Birmingham. L’unico problema era che aveva letteralmente il terrore di prendere il treno da solo, perché in ventisei anni di vita non ne aveva mai preso uno. Mai, neanche per andare a Blackpool alle giostre.
George era ‘il suo migliore amico’ e gli aveva consigliato di cercare un ragazzo sulla trentina, con gli occhialetti tondi e l’abbigliamento eccentrico, generalmente con una cartella da disegno sotto braccio.
Ora, innanzitutto gli anni di John erano ventotto. Mancavano ancora due anni a quella ‘trentina’. Va bene, un anno e mezzo. Ma non era il caso di arrotondare già per eccesso.
Inoltre, George poteva essere un ‘carissimo amico’ di quel Paul, ma sicuramente non il suo ‘migliore amico’.
George era già il migliore amico di John, e insomma, lo conosceva da una vita e non gli aveva mai sentito nominare questo Paul, quindi dovevano essere solo ‘conoscenti’.
Infine, non gli sembrava di avere un abbigliamento eccentrico. Certo, indossava almeno cinque colori ogni giorno e alcune camicie sembravano essere uscite dagli anni ’60, ma questo non era strano. Era alla moda. A modo suo.
Insomma, alla fine Paul l’aveva seguito per tutto il tempo, ma John portò pazienza e pensò che quel tizio non potesse davvero essere assunto. O almeno che una volta iniziato il lavoro si sarebbe abituato a prendere il treno da solo, come l’adulto che era.
Invece niente, ogni giorno lo pedinava, lo seguiva, lo tampinava.
E ora, al primo giorno di Dicembre, la pazienza di John era agli sgoccioli.

La giornata, viaggio in treno a parte, trascorse serenamente. John adorava il suo lavoro: gli piaceva relazionarsi con altri artisti, parlare coi propri colleghi di quanto fosse importante mantenere viva la passione per i pastelli e per gli acquerelli, in un mondo in cui tutto era digitale. Allo stesso tempo era felice di avere qualche momento di pace in cui tutti scrivevano e disegnavano, e si sentiva solo il leggero fruscio delle matite. Lo aiutava a pensare, a rilassarsi e a creare.
Finalmente alle quattro finì la bozza a cui stava lavorando, ingollò l’ultimo sorso del suo tè ormai freddo e poté tornare verso la stazione.
Prese di corsa il treno, giusto qualche secondo prima che si chiudessero le porte alle sue spalle, e tornò finalmente verso Liverpool.
Doveva ammetterlo, i viaggi di ritorno gli piacevano di più di quelli dell’andata. Tutto quel meraviglioso silenzio, quella pace! Eppure… c’era ancora qualcosa che non andava. 
Si infilò le cuffie, per non sentire le persone accanto a lui fare discorsi banali sul Natale, sui pranzi, sulle cene, sui regali.
Maledetto Dicembre.
Finalmente arrivò la sua fermata: Liverpool centrale. John scese dal binario, e a trovarlo puntuale nel pieno della stazione c’era il bruttissimo albero di Natale, finanziato coi suoi soldi. Stupido sindaco, cosa gli era saltato in testa? Rovinare una struttura architettonica di quella portata con un mero simbolo consumistico!
Si avvicinò a studiarlo e scoprì, non senza meraviglia, che la gente poteva appenderci i propri sogni e desideri.
Ed eccolo lì, tra i pochissimi biglietti appesi, un foglio con una scritta a caratteri cubitali:
1 Dicembre - Voglio baciare John Lennon.
Il giovane si fermò e sgranò gli occhi. Che diavolo voleva significare? Era uno scherzo?
Si sforzò di restare calmo e razionale. Liverpool è una città molto grande, potevano esserci altri suoi omonimi. Si avvicinò, sistemando gli occhiali sul naso. Sotto, in scrittura microscopica, c’era scritto:
“L’illustratore più sexy del mondo.”
Ora, potevano esserci altri John Lennon, ma di sexy illustratori in tutta Liverpool, con quel nome, ce n’era uno solo.
Era rivolto a lui, dunque.
Si trovò ad arrossire, colpendosi la fronte con la mano. Chi era stato così stupido da scrivere una cosa simile in pubblico? Poteva essere una delle sue colleghe, venuta da Birmingham per i motivi più svariati, che ne aveva approfittato per prenderlo in giro. Decise dunque di strappare quel dannato foglietto e di appallottolarlo nella tasca del cappotto.
A grossi passi decisi, si diresse verso casa.
Oh, avrebbe scoperto di chi era, anche se ci fosse voluto tutto il mese.

I giorni si susseguirono veloci e in un balzo John si trovò a metà Dicembre. I biglietti proseguivano con regolarità: ogni giorno, sotto la data, c’era un desiderio romantico diverso nei suoi confronti.
Voglio abbracciare John Lennon.
Voglio passeggiare mano nella mano con John Lennon.
Voglio dormire con John Lennon.
Voglio bere cioccolata calda con John Lennon..
Alcuni alquanto discutibili, non c’è che dire.
Con la stessa regolarità si susseguivano i suoi litigi con Paul McCartney sul treno. Ma c’era qualcosa su cui andavano d’accordo? Ah sì, la musica. Quella era un argomento neutro per entrambi.
Anche se Paul prediligeva le canzonette mielose, mentre lui preferiva i testi politicamente impegnati, il rock & roll era una passione comune, e non ci volle troppo tempo prima che scoprissero che entrambi amavano the King, Elvis Presley.
Era il 14 Dicembre quando si trovarono proprio a discutere di uno degli album preferiti di entrambi, “From Elvis in Memphis”, e John, gesticolando, fece scappare dalla tasca della giacca uno dei tanti foglietti che ormai raccoglieva quotidianamente.
Il biglietto del giorno prima recitava: Voglio annusare John Lennon.
Paul lo raccolse immediatamente e spiando il foglietto scoppiò a ridere, senza essere in grado di fermarsi.
“E questo cos’è?” chiese, dopo quelli che erano sembrati minuti interminabili di risate sguaiate.
John a malavoglia, guardando fuori dal finestrino, borbottò una spiegazione veloce di quello che stava succedendo. All’inizio credeva fosse solo un biglietto per l’inizio del mese, ma giorno dopo giorno aveva scoperto che quello era un rituale quotidiano puntuale come un orologio. E nonostante fossero ormai passate quasi due settimane dall’inizio, ancora non aveva idea di chi diavolo si nascondesse dietro quella noiosa abitudine.
“Ma, questo significa una sola cosa! Che tu hai un ammiratore segreto!” commentò alla fine Paul, appoggiandosi la mano sulla bocca, simulando un’aria sorpresa.
“Cosa intendi con questo tono, signorino?”
“Niente, ma penso sia normale, no? In fondo sei ancora un bell’uomo. Non fossi così brontolone e scorbutico. E disordinato. Per non parlare di come ti ves- ”
Scusa?”
“Che poi, fammi sentire di cosa odori?”
Paul si avvicinò leggermente, appoggiando appena il naso ai suoi capelli, e d’improvviso John sentì la sua faccia andare a fuoco, e prima che riuscisse a staccarsi, in preda all’imbarazzo, passarono dei secondi interminabili. Ma stava succedendo davvero o se lo stava sognando? Lo stava… annusando?
“Oh cielo, cos’è, cocco? Il tuo ammiratore potrebbe pentirsi di questa richiesta!” esclamò Paul alla fine, coprendosi il naso con fare teatrale. John, già rosso come un peperone, si limitò a colpirlo sul fianco, intimandogli di abbassare la voce. Non voleva che tutti sapessero i fatti suoi, dannazione, il treno era pieno zeppo!
“Senti, Macca, parliamoci chiaro: innanzitutto io ho solo due anni in più di te, e sono ancora un giovanotto attraente e nel pieno della sua attività. Secondo, non è un ammiratore segreto, ma solo qualcuno con tanto tempo libero, una gran voglia di prendermi in giro e una pessima calligrafia. Terzo,” e abbassò la voce, avvicinandosi un po’ di più a Paul, “non è cocco, ma è shampoo alla Pina Colada. E’ un regalo, ok?”
Paul scoppiò a ridere, e si avvicinò di nuovo, affondando di più il naso nei capelli di John e inspirando a fondo.
“No, continuo a non sentire l’ananas.”
Ma John quest’ultima parte non la sentì, preso com’era dal cercare di dire al proprio cuore di calmarsi, perché non voleva e non poteva morire d’infarto così giovane.
Non su un treno.
Non perché Paul McCartney gli aveva annusato i capelli.

Mancava solo una settimana a Natale, quando le cose presero una piega diversa.
I bigliettini ormai erano diventati una banale abitudine e John sapeva che quando lasciava il buco la sera prima, dopo un giorno quel piccolo spazio sarebbe stato riempito. E, ovviamente, proseguiva con il solito tran tran la banale abitudine di trovare Paul McCartney al binario.
Eppure, quella mattina le cose andarono diversamente.
Forse perché non cominciarono a bisticciare sin da subito, dato che Paul era stranamente taciturno.
Era la prima volta che succedeva, e ovviamente John quella mattina aveva dimenticato le cuffie per ascoltare la musica!
Poco male, finalmente quella mattina si sarebbe potuto godere i rumori della città che si svegliava e della stazione che si riempiva.
A chi la voleva dare a bere? La verità è che non riusciva a focalizzarsi su nulla che non fosse il pesante silenzio che c’era tra lui e Paul.
“Ohi, che succede?” si fece coraggio a chiedergli, una volta seduti al solito posto.
“Niente, niente. E’ solo che…” e così Paul si bloccò, mordendosi appena l’unghia del pollice, sprofondando di nuovo in un silenzio pesante e fastidioso. Un silenzio che stava facendo imbufalire John. Infatti, dopo pochi secondi, si trovò a sbottare, incapace di fermarsi.
“Va bene, se non vuoi dirmelo pazienza. Vado a cercare posto in un'altra carrozza.” e con uno scatto nervoso si alzò, cercando goffamente di scavalcare le gambe di Paul. L’unica cosa che ottenne fu di rischiare di cadergli addosso, e quando si ritrovò a realizzare che gli aveva sbattuto il fondoschiena in faccia, decise di risedersi, in preda all’imbarazzo.
“Sai che ti dico, non cambierò posto perché tu non mi vuoi parlare. Anzi, mi godrò in pace il mio silenzio. Ahhhh senti che pace, che tranquillità. Una meraviglia. Solo io e i miei pensieri. Una meraviglia. L’ho già detto quanto si sta bene da quando tieni la tua boccaccia chiusa? L’ho già detto che questo silenzio è una meraviglia?”
“Sì.” Gli rispose la signora che stava seduta di fronte a loro, spostando per pochi secondi il giornale.
Se possibile, John sentì che il suo umore stava diventando sempre più nero, e credette di essere ad un passo dall’esplodere definitivamente.
Ma perché era così arrabbiato? Non riusciva a spiegarselo. Stava di fatto che era sempre e solo per colpa di quel maledetto McCartney. Dio, per quanto lo detestasse quando parlava a vanvera, lo detestava ancora di più quando finalmente se ne stava zitto!
Dopo interminabili minuti di silenzio, Paul sospirò un’altra volta, e alla fine si decise ad aprire bocca.
“Ieri ho avuto una riunione con lo staff del teatro. Lo spettacolo si sposterà a Leeds, dopo una pausa durante le vacanze di Natale. Quindi, con l’arrivo del nuovo anno, sarò trasferito là.”
“Oh, e per quale motivo sei triste?”
Paul non rispose, e scrollando le spalle, bevve un lungo sorso di caffè dalla propria tazza.
E davanti a quella reazione che non riusciva ad interpretare, John smise di fissarlo, spostando la propria attenzione sulla campagna inglese che correva fuori dal finestrino.
Aspetta un momento, Johnny bello, si trovò a dirsi mentalmente.
Un trasferimento. Un trasferimento in un’altra città. Come aveva fatto a non pensarci prima? Leeds era dalla parte opposta, più vicina alla Scozia. Ciò significava solo una cosa, che Paul non avrebbe più potuto prendere il diretto per Birmingham. E dunque che John era libero. Le sue mattinate sarebbero di nuovo state piene di silenzi e pace e tranquillità e… un sacco di altri aggettivi che ora non gli venivano in mente, ma che erano positivi. Sicuramente positivi.
Aveva aspettato una notizia del genere per mesi e mesi, e ora finalmente era giunta! Era un uomo libero!
Cercando di trattenersi dal saltellare allegramente sul sedile, si girò di nuovo verso Paul.
“Leeds è una città meravigliosa, vedrai, ti piacerà! E ti risparmierai tre ore di treno ogni giorno, non lo trovi grandioso? Io direi di festeggiare!”
“E come? Pagando da bere a tutta la carrozza la vigilia di Natale?” Paul lo guardò con un sopracciglio alzato e un’espressione di puro disgusto.
Invece, la signora di fronte a loro all’improvviso sembrò molto interessata alla piega che stava prendendo la loro conversazione.
“Ma no, testone. Potremmo trovarci con George. E’ amico di entrambi, eppure non abbiamo mai avuto occasione di vederci con lui. Magari organizzare una cena, o un’uscita al pub. Ma quando, quando, quando?”
E canticchiando a bassa voce, preso dall’emozione del proprio piano, John cominciò a cercare nella borsa la propria agendina. Solo dopo aver estratto cartacce di ogni genere e fazzoletti usati che stavano lì forse da anni, sembrò averla trovata, e la strinse tra le proprie mani come se avesse trovato il Sacro Graal.
“Vediamo un po’ quando sono libero. No, come temevo, la vigilia non posso. In realtà ho tutta la settimana occupata” e questa era una bugia bella e buona, dato che le pagine erano bianche intonse. Ma John non poteva far vedere a quel tizio che la sua vita sociale era più piatta di una tavola.  Dunque, proseguì nel suo bluff, e continuò a sfogliare come un forsennato le pagine, finché non puntò il dito su una giornata a caso, 10 Marzo, esclamando a gran voce:
“Trovato! Domani sera, sabato 19 Dicembre, sono libero. Mi si è cancellato il programma che avevo e non ho nulla da fare. Cosa ne pensi, provo a sentire George?”
Paul annuì, abbozzando un timido sorriso.
“Ottimo, allora dopo dall’ufficio organizzo. E chiedo a lui di mettersi in contatto con te, se la cosa va in porto, che ne dici?”
“Va bene, grazie.” Si limitò a rispondere Paul a bassa voce, bevendo l’ultimo sorso di caffè rimasto, richiudendosi subito dopo in un pensoso mutismo.
Intanto John si sfregò le mani, palesemente soddisfatto dal progetto e dalla buona notizia.
Una settimana e sarebbe stato libero da quella maledetta piaga chiamata Paul McCartney.
Eppure… perché non si sentiva felice come avrebbe sperato?

Come ogni settimana, anche quel Sabato John non lavorava, eppure decise di allungare la propria passeggiata giornaliera fino alla stazione, per vedere se era tutto in ordine, e soprattutto se il suo ‘ammiratore’ si era finalmente deciso di prendersi una pausa.
Va bene, allungare la passeggiata era un eufemismo, dato che dovette prendere due autobus, facendosi largo tra la folla che marciava verso il centro per gli ultimi regali di Natale.
Ma voleva vedere cosa diceva il biglietto del giorno, non riusciva a resistere fino a lunedì. Era stato così per tutte quelle settimane, e ora che il 25 Dicembre era dietro l'angolo, era sempre più curioso.
Assumendo un’espressione di finta superiorità si avvicinò con dei lunghi passi all’albero, ed eccolo lì, al solito posto, il suo biglietto.
Oggi era più lungo degli altri giorni, e sbuffando annoiato lo strappò dal solito ramo.
Voglio sapere cosa nascondono gli occhi di John Lennon.
“Una cazzo di miopia, cosa vuoi che nascondano??” Si trovò a rispondere, appallottolando il foglietto nella tasca del cappotto.
Che razza di domanda era mai quella? E perché si sentiva così infuriato con quel biglietto?
Forse perché era la prima volta che il suo ammiratore se ne usciva con una richiesta così particolare e… intima. Le altre volte erano quasi tutte smancerie vomitevoli degne della peggior commedia di Natale. Ma questo biglietto.. era diverso. E per quanto cercasse di calmarsi e di respirare a fondo, non ci riusciva.
Insomma, con poche parole era riuscito a farlo incazzare. Incredibile, complimenti, ammiratore segreto del cavolo! E maledetta pure la sua curiosità che l’aveva fatto venire fin lì da Mendips!
Troppo arrabbiato per tornarsene a casa a non fare niente, imprecando contro il vento, alla fine si alzò e saltò sul primo autobus per andare a casa di George.

La serata in casa Harrison non si prospettò delle migliori sin dall’inizio: ovviamente, Olivia si era fatta trovare sulla porta, pronta a rovinare tutte le aspettative di John; ovviamente, Paul era arrivato prima di lui e si era già fatto bello agli occhi dei padroni di casa e ovviamente, alla faccia dei programmi ‘bacco, tabacco e venere’, il fumo e l’alcool erano stati banditi dalla cena per motivi non del tutto chiari a John, ma che sembravano divertire molto i due piccioncini.
Ma senza alcolici, come poteva John sopportare Paul?
Per assurdo invece, il problema non fu lui. Infatti, durante tutta la cena, George e Olivia diedero il meglio di sé come miglior coppia dell’anno, finendosi le frasi e imboccandosi a vicenda. La scena poteva essere davvero molto bella da vedersi, se ci si trovava in una commedia di San Valentino, ma non di certo se si era un adulto grande e vaccinato tristemente felicemente single. Pur di non buttarsi dalla finestra, si costrinse a parlare con Paul. Di nuovo.
Alla fine, sentendo la stanchezza della giornata piombargli addosso, John si scusò e decise di tornare a casa. Peccato che nello stesso momento si fosse alzato anche Paul, visibilmente preoccupato di restare il terzo incomodo tra i due innamorati, e si offrì di dargli un passaggio con la sua macchina.
Constatando che forse aspettare un autobus in piena notte, al freddo di Dicembre, non era il massimo, John si sforzò di accettare il passaggio. Ma possibile che non riuscisse a liberarsi in nessun modo di quel McCartney? Meno male che mancavano pochi giorni a Natale e al trasferimento di Paul! Mai aveva pensato che sarebbe stato così felice di veder arrivare quella maledetta festività.
“Lo sai che non ho la più pallida idea di dove vivi, John?”
Menlove avenue, grazie.” Disse, appoggiando i piedi al cruscotto e rilassandosi contro il sedile.
“Non mettere i tuoi brutti piedi lì, mi sporchi tutto! Avevo lavato la macchina stamattina! Te l’ha mai detto nessuno che sei un gran maleducato, e pure rozzo?”
“Continuamente. E’ parte del mio fascino, Macca.”
Paul borbottò qualcosa in sottofondo, mentre John si limitò a guardarlo di sottecchi, divertito. Non aveva mai notato che quando si arrabbiava gonfiava leggermente le guance. Sembrava uno scoiattolo!
Divertito dai suoi stessi pensieri, quasi scoppiò a ridere da solo.
“Cos’hai da borbottare come una vecchia teiera, McCartney?”
“Niente, pensavo che viviamo vicini.”
“Davvero? Di dove sei?” La sorpresa di questa realizzazione fece raddrizzare John sul sedile, che si mise finalmente composto, coi piedi ben appoggiati sul tappetino.
“Vivo a Forthlin road, con mio padre e mio fratello. Non sono un riccone snob come te, sto nelle case popolari, io.”
Seh, ringrazia la zia Mimi che mi ha lasciato la casa in eredità, o starei vendendo i miei capelli su Ebay per riuscire a pagarmi un affitto.”
“Nessuno comprerebbe dei capelli che puzzano di Pina Colada.”
“Disse il tizio che si depila le sopracciglia.”
Come- Oh, George. Ovvio, grazie. Gran bell’amico.” E, con le mani ben ancorate al volante e un’interessante sfumatura di rosso in viso, Paul arricciò le labbra e il naso in un’espressione che doveva sembrare stizzita, ma lo faceva solo sembrare ancora più buffo.
John ghignò soddisfatto davanti a quella reazione. Per quanto bisticciassero tutti i giorni, se avesse dovuto tenere un punteggio, era certo che ne sarebbe uscito come vincitore.
“E non ti è mai venuta voglia di andare a vivere per conto tuo, Macca? Alla fine hai un lavoro dignitoso.”
“No, non guadagno abbastanza. E non avrebbe senso trovare una casa da dividere con altri sconosciuti, quando posso aiutare mio padre a pagare le bollette. Mike è ancora alla ricerca di impiego, oh dovresti vedere che fotografie stupende che fa!, e farebbero fatica ad arrivare a fine mese. Che fretta c’è? Non ho una fidanzata, posso ancora godermi la mia stanzetta da scapolo.”
Esattamente in quel momento Paul aveva parcheggiato davanti a Mendips, e la casa di John, vista al buio, sembrava ancora più grande e desolata.
“E tu cosa ci fai in un posto del genere tutto da solo?”
“Non ci ho sempre vissuto per conto mio. Avevo una fidanzata una volta, sognavamo una grande famiglia con dei marmocchi e un sacco di gatti, così tanti da riempirci sta casa, per la gioia di mia zia, con cui vivevamo all’epoca. Poi nel giro di un anno le cose sono precipitate: la mia ragazza mi ha mollato e mia zia è morta, e così all’improvviso mi sono ritrovato con una villetta tutta per me.”
“I tuoi genitori devono essere molto ricchi!”
John abbassò lo sguardo e non rispose per qualche istante, continuando a giocare con il proprio portachiavi a forma di chitarra elettrica. Questo silenzio attirò l’attenzione di Paul, che smise di guardare la villetta davanti a sé per dedicarsi al ragazzo accanto a lui.
“Non so se mio padre sia ricco, in realtà credo sia solo un poveraccio che vive in Australia o Nuova Zelanda, dove si è rifugiato dopo avermi abbandonato quando avevo a malapena tre anni. Mia madre sicuramente non era ricca, questo te lo posso garantire, ma anche lei è morta più di dieci anni fa, quindi ormai non può più darmi niente. E sicuramente non mi ha dato nulla quando era viva, e non parlo di soldi.” Il suo tono si era fatto amaro e tagliente, mentre si lasciava scappare quelle parole colme di rabbia. Non si era reso conto di quanto fosse arrabbiato, finché non sentì le chiavi infilarsi nella carne e fargli male.
“Ora capisco.” Si limitò a dire Paul, mordendosi l’unghia del pollice e guardando un punto indefinito davanti a sé. “Ora capisco cosa nascondi sotto tutta questa armatura che ti porti addosso.”
“Cosa stai dicendo?”
“Niente, solo che nessuno, guardandoti, direbbe che sei una persona così fragile e bisognosa di affetto.”
“Che cazzo stai dicendo, Paul? E soprattutto, che cazzo vuoi saperne tu?”
“Anche mia madre è morta. Lo so cosa vuol dire nascondere la paura e il dolore sotto strati di finta indifferenza.”
John non disse niente, si limitò ad afferrare la maniglia della portiera per uscire. Non ce la faceva più, doveva andarsene il più lontano possibile da quel maledettissimo Paul McCartney. Lo detestava sempre di più, lo avrebbe pure preso a pugni.
Eppure, non riusciva a lasciare quella macchina, a tornarsene a casa. Una piccola, fastidiosissima parte di lui lo implorava di restare lì, su quel sedile, a parlare ancora, a sfogarsi e a dire cose che non aveva mai avuto il coraggio di dire nemmeno a se stesso.
Quando sentì la mano di Paul appoggiarsi sulla sua spalla, percepì quel leggero contatto fisico, tra gli strati pesanti di vestiti autunnali, bruciare sulla sua pelle come il sole di Agosto.
“Grazie, John. Grazie per esserti aperto con me.”
E questa fu l’ultima goccia, per John. Con uno scatto aprì la portiera e si fiondò fuori, chiudendola rapidamente alle proprie spalle.
Perché tutti all’improvviso sembravano interessati a quello che, a fatica dopo anni, era riuscito a celare così bene?
E se non fosse stato poi così bravo?
Una volta entrato in casa, percependo gli echi della solitudine risuonare tra le stanze vuote e avvolgerlo come un freddo manto, rilesse il bigliettino che aveva trovato sull’albero quel pomeriggio.
Forse era ora che John Lennon ammettesse a se stesso che aveva un problema. E forse era arrivato il momento che si trovasse un amico.
E quell’amico, sì, poteva essere Paul McCartney.

Casualmente, il giorno dopo, di ritorno dalla sua solita 'passeggiata' in stazione, John scese dall’autobus un paio di fermate prima e fece un giro più largo, trovandosi a passeggiare davanti a Forthlin road. Non è che volesse passare del tempo con Paul o chiedergli scusa, quello no, figurarsi! Mica era pazzo! E’ che aveva letto che dal giorno dopo, a causa delle vacanze natalizie, ci sarebbero potuti essere alcuni disagi con gli orari degli autobus e voleva chiedere a Paul se poteva accompagnarlo in stazione la mattina.
Tutto qua.
Passeggiava come un vecchietto, John ne era perfettamente consapevole: mani intrecciate dietro la schiena, sguardo vago, pronto ad abbassarsi non appena incontrava qualcuno. Poi, all’improvviso, una voce famigliare lo raggiunse, e prima di riuscire a trattenersi, John si voltò e a pochi metri di distanza vide Paul a braccetto con quello che doveva essere suo padre. O un suo amante in là con gli anni.
Ignorando la stupida e ingiustificata fitta di gelosia che lo colpì, rimase imbambolato a dirsi che quello era sicuramente il signor McCartney in persona, seguito da quello che doveva essere il fratello di Paul, Michael?, e che probabilmente erano tornati da qualcosa che sembrava molto banale e molto famigliare e… molto bello? Molto caldo?
John, senza nemmeno rendersene conto, li stava invidiando un sacco. Perché lui aveva passato l’ennesima domenica da solo, e una volta tornato a casa, sarebbe stato di nuovo da solo.
Realizzò di stare ancora fissando i McCartney quando Paul, forse sentendo quegli occhi miopi su di sé, incrociò il suo sguardo, e John poté vedere sul viso del giovane ragazzo l’espressione di sorpresa trasformarsi in un meraviglioso sorriso.
No, aspetta Johnny bello, si trovò a rimproverarsi, non c’era niente di meraviglioso in un sorriso come quello. Era solo un sorriso da scoiattolo. E prima che riuscisse ad imporsi di girare i tacchi, prima che fosse troppo tardi, e fingere di essere lì per caso, come se fosse possibile!, Paul lasciò il braccio del padre e si fiondò verso di lui, superando velocemente quei pochi metri che li separavano.
“John?”
Mh.”
“…John?”
“Sì, hai intenzione di dirlo ancora? Ciao Macca.”
“John, ma cosa diavolo ci fai qui?”
Ecco, gran bella domanda. Cosa diavolo ci faceva lì?
Ah già, giusto! Gli autobus!
“Ecco, sono venuto a piedi da Mendips perché dovevo chiederti un piacere. Ho bisogno di sapere se domani mattina posso venire con te in stazione in macchina. Stavo uscendo per un importantissimo pranzo con alcuni amici, quando alla BBC hanno parlato di problemi con i mezzi pubblici e…”
Paul sorrise a trentadue denti e gli appoggiò la mano sulla spalla. Ma santo cielo, non riusciva a non toccarlo mentre gli parlava?
“Ma nessun problema! Potrei venire a prenderti o se preferisci venire fin qua, non so se ti piace camminare la mattina, ma no, domani ha messo pioggia e c’è tanto freddo, d’altronde è Dicembre!, forse è meglio se ti passo a prendere io, ma a che ora però, questa è una bella domanda, forse dovrei lasciarti il numero di cellulare così ti squillo quando parto, ma che senso avrebbe, magari neanche lo senti, mentre ti prepari…”
“Amico, frena. Ti ho solo chiesto un passaggio, mica di sposarmi.”
Paul arrossì, e aprì la bocca, probabilmente per rispondergli a tono o per mandarlo a quel paese, John non lo seppe, perché ad interrompere sul nascere l’ennesimo battibecco stavolta intervenne Mike.
“Ragazzi, il bollitore sta fischiando, pensate di entrare a bervi questo benedetto tè o ve lo devo portare fuori?”

John ci aveva provato a rifiutare, ad insistere e a dire che no, non dovevano disturbarsi, in fondo aveva cose da fare e persone da vedere e impegni da rispettare!, ma niente, non avevano sentito ragioni. Si era ritrovato senza troppi preamboli sul divano di casa McCartney a guardare divertito la carta da parati di quattro fantasie diverse e a sorseggiare un buon tè. In tutto questo, tra un sorso e l’altro, doveva ignorare lo sguardo fisso e sorridente di Mike e quello fisso e severo del padre di Paul.
“E così, tu sei John.” Disse alla fine Jim, dopo quella che era sembrata un’eternità.
“Abbiamo sentito parlare un sacco di te, lo sai?” completò il discorso Mike.
Paul ingollò rapidamente il suo tè e si alzò con uno scatto, raccogliendo velocemente le tazzine sporche e abbandonate sul tavolino del salotto.
“Forse John ha altro da fare, e noi gli stiamo portando via del tempo prezioso!”
“Non essere maleducato, James! Tua madre non ti ha insegnato a trattare così gli ospiti.” Lo rimproverò Jim, raccogliendo dalla poltrona il Liverpool Echo e aprendolo alla pagina dello sport con uno scatto secco e deciso.
“James è il suo secondo nome. Papà lo chiama così quando è arrabbiato.” spiegò ammiccando Mike, divertito da quella strana situazione, trattenendo a fatica le risate. John non gli aveva chiesto spiegazioni, ma dalla sua faccia doveva essere chiaro che dovesse essere rimasto abbastanza sconvolto da quel nome.
Alla fine non appena Paul, ancora a testa bassa, si diresse verso la cucina, Mike si avvicinò ancora di più a John.
“Lo sai, mio fratello non fa altro che parlare di te tutto il tempo. Sei un famoso illustratore, vero? Mi ha detto che i tuoi disegni sono fantastici, e che avrei dovuto fotografarti, perché secondo lui saresti stato un soggetto davvero interessante. E sai cosa? Aveva ragione! Potresti farmi da modello, prima o poi.”
John non sapeva cosa l’avesse fatto arrossire come un peperone. Il fatto che Paul parlasse di lui, o che lo definisse un famoso illustratore, lui! Un vignettista da quattro soldi!, o che Mike lo ritenesse un soggetto da fotografare. All’improvviso cominciò a sentire un gran caldo e per la prima volta da anni, uno strano disagio si impossessò di lui. Si sentì in imbarazzo. Dio, John Lennon in imbarazzo, questa sì che era bella!
“I miei disegni non sono nulla di che, anzi, ho ancora molto da migliorare e…” biascicò alla fine, sentendo lo sguardo di Jim, al di sopra del giornale, bruciare ancora più delle sue guance.
Quando Paul tornò dalla cucina, John si alzò con uno scatto e decise che era il caso di andarsene. Quei dieci minuti gli erano sembrati un’eternità.
“Te ne vai? Non vuoi restare per cena?”
“No davvero, scusate, ma si è fatto tardi e proprio non riesco…”

Alla fine era rimasto per cena.
In parte era colpa della tenacia di Mike, in parte dello sguardo di Jim, ma ad aver influito più di ogni cosa era stata la delusione che aveva incupito il volto di Paul per pochi, maledetti istanti. Si era deciso a restare, e non poteva esserne più felice. Abituato com’era a mangiare da solo, cenare in compagnia per lui era stata una pura gioia. Si era spazzolato tutta la zuppa di carote e patate dolci che Paul aveva preparato per loro. Al momento del dolce aveva provato a rifiutare per cortesia, ma si era ritrovato ad accettare la doppia porzione di torta, fatta con le mele dell’orto di Jim. Insomma, per quanto gli scocciasse ammetterlo, si sentiva bene lì, in quella famiglia così strana ma così calda e affettuosa.
E persino la compagnia di Paul era… piacevole. Davvero piacevole.
Non sembrava più il dannato chiacchierone fastidioso, rumoroso e sempre sorridente e ottimista, ma sembrava quasi una persona normale. Certo, sempre sorridente e ottimista, ma in un senso positivo. In un senso che faceva sentire John bene.
Ma tutto ciò era assurdo, no? Assurdo e impossibile, assolutamente impossibile.
Quando l’orologio sopra il caminetto rintoccò le otto in punto, John capì che era davvero arrivata l'ora di andarsene e gli dispiaceva. Dunque lentamente si alzò, ringraziò Jim per l’ospitalità, e aspettò che Paul tornasse col suo cappotto.
In quel momento, Mike si avvicinò a lui, dandogli una forte pacca sulla spalla.
“So che mio fratello non prenderà più il treno con te, e forse smetterete di vedervi, ma ti prego, ricordati di questo pomeriggio, e torna a trovarci ogni tanto. Sai, lui sembra sempre così contento, ma in realtà, John sei il primo amico che ha da un bel po’ di tempo. Quindi, non abbandonarlo, per favore. Lo apprezzerei mol-.”
“Cosa state confabulando voi due?” li interruppe una voce alle loro spalle, facendoli sussultare visibilmente.
“Niente, Paul. Notte amico, a presto.” E Mike, ammiccando un’altra volta, corse per le scale, andandosene in camera.
John prese il cappotto, ma rimase immobile per qualche istante, incapace di dire o fare alcunché. A risvegliarlo da quella sorta di trance, intervenne lo stesso Paul, che gli si era avvicinato fin troppo, schioccando le dita velocemente davanti al suo naso.
“Tutto ok?”
“Sì, pensavo ad una cosa.” E infilandosi il cappotto, si fece accompagnare fino alla porta. Lì, Paul non si limitò a salutarlo restando in casa, al calduccio, ma uscì con lui, e lo accompagnò fino al piccolo cancelletto alla fine del giardino.
“A cosa pensavi, John?”
“Che hai fatto bene a non andartene da questa casa.”
“Già…” e, giocando un po’ con i ciottoli del giardino, Paul abbassò lo sguardo e incrociò le braccia, in una sorta di impacciato abbraccio rivolto a se stesso.
“C’era un’altra cosa che volevo dirti, Macca. Scusami per ieri sera, sono stato uno stronzo. E grazie per avermi ascoltato e per non avermi preso per il culo. Erano smancerie da donna, eppure…”
“Non erano affatto smancerie da donna, John. Ero sincero quando ti ringraziavo per esserti aperto con me. Non sai quanto lo apprezzo.”
John gli sorrise e lo fissò per degli interminabili secondi. Fu come se lo vedesse per la prima volta, e gli venne quasi da allungare la mano per presentarsi, e dirgli che lui era John, John Lennon, ed era felice di fare la sua conoscenza. Ma alla fine si maledisse da solo, e si vergognò di aver fissato Paul per tutto quel tempo, incapace di dire nulla, con mille pensieri che gli attraversavano la testa. Dunque, infilandosi le mani nel lungo cappotto rosso, girò i tacchi e se ne andò, salutando Paul con un cenno del capo.
“A domattina!” sentì una voce raggiungerlo, quando era già lontano dalla casa. Quel matto di Macca doveva averlo guardato andare via per tutto quel tempo. Se si prendeva il raffreddore poi chi lo accompagnava in stazione il giorno dopo?
La verità era che una nuova, strana urgenza si era impossessata di John: aveva sentito il bisogno di riflettere un momento sulle parole di Mike, e lo fece rovistando un po’ nelle tasche del suo cappotto e ritrovando il foglietto del giorno, che aveva staccato solo poche ore prima dall’albero di Natale.
Voglio che John Lennon mi veda.
All’inizio aveva pensato ad un’altra triste battuta sulla sua maledetta miopia e si era di nuovo ritrovato a borbottare qualcosa di maleducato e arrabbiato lungo la strada dalla stazione alla fermata dell’autobus.
Ma alla fine, dopo quel pomeriggio inaspettato eppure bellissimo, aveva capito una cosa. Che John non stava davvero vedendo quello che gli capitava, si limitava ad osservare. Perché potevano anche sembrare sinonimi, ma vedere, oh vedere è un’altra cosa. La sua attenzione era così focalizzata sull’essere perennemente incazzato e scorbutico col mondo, sempre così preso da un passato maledetto che lo tormentava, da non vedere davvero cosa aveva davanti a sé, nel suo presente.
Un esempio su tutti poteva essere Paul McCartney. Non gli era mai venuto in mente di pensare che Paul fosse così solare ed espansivo nei suoi confronti perché fosse dannatamente solo, quasi quanto lui.
Che chiamasse George il suo ‘migliore amico’ perché probabilmente era l’unico che aveva. D’altronde, l’aveva vissuto sulla sua pelle. Quando raggiungi l’età in cui tutti i tuoi coetanei cominciano a sposarsi e fare figli e tu rimani uno dei pochi scapoli del gruppo, pian pianino finisci con l’essere isolato o con l’isolarti da solo. E lui si era isolato, e chissà se anche Paul si fosse chiuso in se stesso come lui, o fosse finito col non essere più invitato alle cene perché non accompagnato.
Non si era mai preoccupato di scavare sotto la patina di quel ragazzo che tutte le mattine lo disturbava sul treno, non si era mai preoccupato di vederlo davvero e cercare di capirlo.
E ora, a pochissimi giorni dal Natale, gli stava venendo voglia di farlo.

Paul passò a prenderlo la mattina successiva, e così fece anche le altre, e a John quasi dispiacque che di lì a due giorni non avrebbe più avuto quella nuova routine, e non avrebbe più avuto nessuno a fargli compagnia durante il viaggio in treno. Forse per questo motivo, forse perché davvero cominciava ad avvicinarsi il Natale e a Natale tutti si sentono più buoni, anche quelli che il Natale lo detestano, ma quel giorno John aveva deciso di uscire dal lavoro un’ora prima. Così facendo avrebbe potuto aspettare Paul alla stazione di Birmingham,per fare con lui anche il ritorno a Liverpool.
Ovviamente non avrebbe mai ammesso a nessuno, tantomeno al suo compagno di  viaggio, il vero motivo per cui l’aveva fatto. Insomma, che male c’era se voleva approfittare della macchina dei McCartney per gli ultimi giorni? Prendere l’autobus in quel periodo era un vero incubo! Gli uomini d’affari con le loro ventiquattrore erano stati sostituiti da famiglie piene di valigie e borsoni colmi di vestiti e pacchetti regalo. I bambini coi loro nasi gocciolanti avevano più volte provato ad usare il suo bellissimo cappotto come fazzoletto e no, non voleva più sopportare tutto questo.
Dunque, si prese un tè caldo speziato e si piazzò al solito binario, pregustandosi già la reazione di Paul. Gli avrebbe sorriso, facendo arricciare il naso e mostrando le piccole pieghe ai lati degli occhi? Gongolando tra sé e sé, fiero della sua scelta, non si era accorto che Paul lo stava già osservando da qualche minuto, all’inizio del binario, superato il tornello di accesso.
E quando se ne accorse e incrociò il suo sguardo, fu John a sorridere senza nemmeno rendersene conto, mentre l’altro si limitava a fissarlo incuriosito e sorpreso.
“Cosa… cosa ci fai qui, John? E’ presto! O sono io in ritardo?” e controllò con un gesto meccanico l’orologio, rischiando di rovesciare a terra la sua tazza di tè fumante.
“No no, il capo mi lascia tornare a casa un’oretta prima, questi due giorni prima di Natale. Così possiamo fare insieme anche il viaggio di ritorno. Che ti pare?”
Paul non rispose e finalmente abbozzò un sorriso strano, leggermente tirato.
“Lo fai solo per il passaggio in macchina, vero?”
John abbassò lo sguardo e ridacchiò un po’ dentro la sua sciarpa, cercando di seppellircisi dentro, mentre dava una risposta di cui si vergognava.
“Anche. Ma anche perché mi mancher-”
Ad interromperlo fu un fischio del treno così forte da fargli rovesciare la tazza di tè. Mai era stato così grato ad un macchinista per aver suonato quel maledetto strumento infernale. Cosa diavolo stava dicendo a Paul? Altro che “tutti più buoni a Natale”, si stava rammollendo come una femminuccia, come la peggiore delle checche. Che vergogna!
Pian pianino salirono sul treno, facendosi largo tra i soliti pendolari e un paio di vecchiette che sembravano sentirsi in dovere di raccontare a tutti che stavano andando dai figli e dai nipotini per le vacanze.
Al terzo tentativo di abbordaggio da parte dell’ennesima anziana signora, John si spinse di più verso di Paul, e dunque si trovò costretto addosso a lui, premendo il proprio corpo contro quello dell’altro.  Per quanto questo fosse assurdo, e per quanto si fosse trovato altre volte in quella situazione scomoda, si accorse solo in quel preciso momento di come non si sentisse più a disagio a toccare Paul e a stargli più vicino, e che anzi, stava bene. Dannatamente bene.
E mentre il suo corpo gli diceva di eliminare del tutto la distanza tra di loro e rubare ancora un po’ di calore dall’altro, una brusca frenata lo spinse addosso a Paul, facendo cadere rovinosamente a terra entrambi con le loro borse.
John bestemmiò mentalmente, mentre si ripuliva il cappotto e i pantaloni e raccoglieva tutti i suoi acquerelli da terra, pregando i pendolari di stare attenti e di non pestare il suo lavoro degli ultimi mesi.
Cercando di trovare le ultime bozze rimaste a terra, si trovò a sbattere addosso a Paul, che doveva essersi rialzato anche lui in fretta e furia per raccattare tutti i suoi documenti. Eppure, sembrava aver perso qualcosa di importante, lo si vedeva dal suo viso così pallido e preoccupato, e dalle mani tremanti e frenetiche nella loro ricerca.
John si rese conto cos’era solo quando si ritrovò a pestarlo involontariamente.
E non aveva bisogno di sistemarsi gli occhiali sul naso, vedeva perfettamente cos’era ciò che aveva raccolto e che ora stringeva tra le mani.
Una cartella trasparente, stropicciata e leggermente sporca di polvere, con dentro dei foglietti. Certo, John non sarebbe rimasto imbambolato, stringendo la presa sui bordi della cartella così forte che faceva male, se fossero stati dei foglietti normali.
Ma non erano appunti di lavoro, quelli. Erano i foglietti che lui trovava ogni giorno sull’albero di Natale in stazione a Liverpool.
23 Dicembre - Voglio cantare una canzone con John Lennon.” Recitava, con grafia chiara e pulita, sul solito piccolo pezzo di block notes a quadretti.
“Cosa…?“ riuscì a dire alla fine, coprendosi con la mano libera la bocca ancora spalancata in un’espressione di sorpresa. Non aveva alcun dubbio, era esattamente quel bigliettino, il suo bigliettino.
Paul ci mise qualche istante a parlare e per alcuni interminabili istanti si limitò a boccheggiare, guardandolo fisso con gli occhi spalancati. Nonostante la carrozza fosse molto calda e affollata, era pallido come un fantasma.
“Niente, uno stupido scherzo, io…”
“Tu cosa?” disse John, la voce ridotta ad un sussurro piatto. Non sapeva cosa dire, non sapeva cosa pensare e onestamente non sapeva nemmeno come sentirsi in quel preciso momento. Era talmente sconvolto dal contenuto della cartella che non riusciva a razionalizzare ciò che stava succedendo in quel preciso momento davanti a lui, su quel treno troppo caldo e affollato.
“Io volevo prenderti in giro e ho copiato la grafia dei biglietti. E mi dispiace, John, era uno scherzo stupido e infantile…”
“No, non è vero, questa è la tua grafia.” Disse, indicandogli uno dei fogli che Paul doveva aver raccolto durante la frenata e che ancora stringeva tra le sue mani tremanti. “Questo non è uno scherzo. Quei cazzo di bigliettini li hai scritti tu. Li hai scritti tu per tutto il tempo e…”
Non finì mai la frase. Perché senza che se ne fosse reso conto, il treno si era fermato ad una delle prime stazioni dopo Birmingham, e Paul era corso fuori dalle porte qualche istante prima che si chiudessero, scendendo dal treno.
Confondendosi tra la folla, era sparito, scappando da quel confronto, lasciando John senza parole e senza fiato, immobile e sconvolto da quello che era successo in quei dieci minuti.
Ma esattamente, che diavolo era successo?

John ci aveva messo un po’ a razionalizzare quello che era accaduto, ed era riuscito a capire davvero la dinamica dei fatti solo dopo qualche tempo.
Peccato che non riuscisse a smettere di pensare a quelli che erano stati i dieci minuti più emotivamente incasinati della sua giovane vita.
Paul era il suo ammiratore segreto.
Paul era la persona che per tutto quel tempo gli aveva mandato dei biglietti.
Paul provava qualcosa per lui.
In realtà all’inizio John aveva superato la fase 'sorpresa', sentendo montare dentro di sé una strana sorta di rabbia mista ad orgoglio, in cui si sentiva un emerito cretino per essersi fatto abbindolare dai modi gentili ed educati di una persona che, lui pensava, volesse solo prendersi gioco di lui. Insomma, aveva fatto tanto per diventargli amico, e Paul cosa faceva? Lo prendeva in giro con quello scherzo da bambini.
Dunque John aveva sbuffato e battuto i piedi, lasciando che i pugni contro i cuscini del divano riempissero il silenzio pesante di Mendips. Ma poi, stringendo tra le proprie mani la cartella, aveva visto una cosa.
Quel pomeriggio, preso com’era dalla scoperta, non aveva notato che i bigliettini erano due.
Una volta preso in mano il secondo biglietto, quello della vigilia di Natale, ebbe l’assoluta certezza che Paul non lo stava prendendo in giro. John sentì la rabbia scemare, lasciandolo all’improvviso svuotato e… triste. Così triste che aveva voglia di piangere.
Non che lui piangesse, certo che no, aveva a malapena versato qualche lacrima durante il funerale di Mimi, e dire che la zia l’aveva cresciuto! Però sicuramente si sentiva male. E il dolore che gli trafisse il cuore fu dannatamente inaspettato e intenso, così intenso da fargli dimenticare di respirare per qualche secondo.
Se non era quella la situazione più incasinata in cui si fosse mai trovato!
Ovviamente, il giorno seguente, ovvero la vigilia di Natale, Paul non si presentò alla porta di casa sua, con la sua macchina vecchia e arrugginita e Michael Bublè e le sue melense canzoncine festive a volume altissimo nonostante fosse ancora l’alba. Dunque John si trascinò sul primo autobus, con la testa ancora immersa in una nuvola fittissima di pensieri.
A perseguitarlo erano sempre i soliti interrogativi che lo avevano tormentato per tutta la serata e tutta la nottata appena trascorsa: cosa sentiva dentro di sé? E cosa avrebbe dovuto fare?
Non sembrava riuscire a capirci niente, non riusciva a decifrare quel battito accelerato che gli riempiva il petto e le orecchie ogni volta che pensava a Paul, e non riusciva a capire perché si sentisse così triste e per nulla arrabbiato. John era sempre arrabbiato, quando la vita gli presentava un momento difficile, lui attaccava e si chiudeva come un riccio, affinché nessuno vedesse cosa c’era davvero dentro di lui. Eppure, ora che aveva deciso di iniziare a lasciar scalfire a Paul la sua preziosa armatura, era rimasto esposto, e si trovava in balia di emozioni che aveva cercato di non provare per parecchi anni. E per assurdo, non gli riusciva di sentirsi infuriato, ma si sentiva perso, dannatamente perso.  
Ma non era possibile che Paul gli provocasse tutto questo, doveva esserci dell’altro, perché era passato troppo poco tempo! John contò sulle dita per la millesima volta: quattro giorni dal discorso in macchina dopo la cena da George. Fissò la sua mano, e quello stupido numero. E se non fosse stata una cosa di un weekend, ma un cambio di sentimenti così graduale da non rendersene nemmeno conto? E se avesse sempre provato certe cose, ma non voleva ammetterlo a se stesso? Ma che poi lui, che cosa provava?
Colpì con la testa il palo dell’autobus un paio di volte per impedirsi di pensare ancora a Paul McCartney e ai dannatissimi biglietti sull’albero, e mentre lo faceva le persone accanto a lui si distanziarono di qualche passo.
Non bastava averci pensato tutta la sera prima e tutta la notte senza ricavarci un bel niente di niente, no, quello stupido di un McCartney doveva tormentarlo pure durante la mattina della vigilia di Natale.
Quando finalmente arrivò al binario, stringendo tra le mani il caffè più forte che avevano al bar della stazione, in qualche modo continuava a sperare di veder spuntare la faccia allegra e fastidiosa di Paul. Lo aspettò, allungando il collo e spiando se lo vedeva arrivare di corsa ai tornelli, e quando le porte del treno si chiusero alle sue spalle e John si sistemò da solo in quello che era il loro solito posto, si diede un po’ dell’imbecille per aver sperato di incontrarlo.
Paul era sceso ad una fermata che non era la sua il giorno prima, scappando da lui, come poteva pensare che avrebbe preso il loro solito treno come se nulla fosse? O aveva preso il diretto un'ora prima, o aveva deciso di starsene a casa dal lavoro.
Dopo tutte quelle settimane a sperare di non vederlo più e di poter finalmente stare in pace, ora che finalmente era solo, John non si sentiva affatto come avrebbe dovuto e voluto. E non era solo colpa del trambusto e del puzzolente pendolare seduto accanto a lui.
“Maledetto Macca.” Si trovò a dire, affondando il viso nella grossa sciarpa di lana, prima di addormentarsi, cullato dall’ondeggiare del treno.

A svegliare John fu uno scuotere violento e una voce che si intromise violentemente nei suoi sogni.
“Paul?” si trovò a chiedere, prima di riuscire ad essere pienamente consapevole dei suoi gesti e delle sue parole.
Un controllore lo fissava a pochi centimetri di distanza, e muovendo le mani in modo agitato davanti alla sua faccia faceva scintillare involontariamente degli anelli pacchiani davanti agli occhi insonnoliti di John, accecandolo.
“No, sono Richard, mi spiace! E mi spiace anche svegliarti, ma siamo a Birmingham da mezz’ora e tra un po’ ripartiamo per Liverpool.”
Cazzo.” gridò John, prima di scendere dal treno di corsa.
Arrivò al lavoro con un ritardo micidiale, e l’unica cosa che gli risparmiò un rimprovero da parte del capo era stata la scusante del Natale.
Mai si era ritrovato così grato per quella maledetta ricorrenza!
Un po’ a causa della mancanza di sonno, un po’ per il profumo di feste, un po’ per colpa di Paul, la giornata si trascinò pigramente, e John la passò a fingere di lavorare alla sua scrivania, muovendo i pennelli e le matite solo quando qualche collega si avvicinava.
Poi, non riuscendo a spegnere del tutto i suoi pensieri, sempre più violenti e confusi, provò ad abbassarne il volume,  iniziando a disegnare un giovane ragazzo che assomigliava solo per pura coincidenza a Paul, con lo sguardo perso nel vuoto davanti ad un treno fermo al binario. Eppure non era giusto che quel ragazzo guardasse il nulla, no? Dunque cominciò ad abbozzare un altro personaggio, ed era così preso dal pensare a disegnare un viso che non fosse il suo, che non sentì il capo avvicinarsi alle sue spalle e scrutare il suo operato dall’alto.
“Ci mettiamo a fare gli scarabocchi oggi, Lennon? Dove pensi di essere, al liceo?” il suo tono era piatto e freddo.
John si girò, e neanche il tempo di realizzare cosa stesse succedendo, che il foglio gli fu rubato dalle mani.
“No, io… ecco, signor Esptein, stavo pensando ad un nuovo personaggio per il nostro numero di Gennaio e mi sono fatto ispirare da un tizio che prende il treno con me…” disse, sostenendo lo sguardo fiero e deciso, per non far capire che in realtà era stato solo sorpreso a cazzeggiare sul posto di lavoro.
Ma il signor Epstein ci mise qualche minuto a rispondere, continuando a fissare il disegno davanti a sé con lo sguardo fisso e impenetrabile. E dopo quella che era sembrata una vita, appoggiò lo schizzo sulla scrivania e spostò la sua attenzione su John.
“Mi piace. Dammi uno storyboard convincente entro Capodanno e ti darò la copertina del nostro primo numero di Gennaio.”
“Cos-“
“E ora fila a casa, Lennon. E’ la sera della vigilia, vai dalla tua famiglia. O da chiunque ti aspetti.” Disse, accennando un sorriso al disegno ancora appoggiato sulla scrivania.
John, prendendo la sua borsa e il cappotto, non se lo fece ripetere due volte.
Mentre saliva sul treno, spinto tra la solita fiumana di pendolari, si trovò di nuovo in mano il bigliettino del giorno, e lo rilesse per la millesima volta. Davanti ai suoi occhi quelle parole danzavano, e all’improvviso realizzò che era inutile che continuasse a tormentarsi, perché in una piccola parte segreta del suo cuore, tutto era meravigliosamente chiaro.
Fissò il disegno che faceva capolino dalla sua cartella, e sorrise a se stesso e ai personaggi abbozzati sul foglio.
Era arrivato il momento di scrivere un degno finale per quella storia.

Come si era trovato lui, John Lennon, un giovane adulto di successo, una persona che detestava il Natale più di qualsiasi cosa al mondo, davanti ad una porta chiusa, cantando stupide canzoncine natalizie?
Va bene, forse non era poi un adulto di successo, in fondo era solo un illustratore che lavorava in un giornale neanche troppo famoso. E va bene, forse più del Natale odiava quel tizio, quel McCartney.
Oh, Paul McCartney
Lo detestava perché al diavolo, gli aveva fatto passare una nottata in bianco, gli aveva fatto trascorrere una pessima vigilia di Natale e ora lo faceva stare fermo come un baccalà, in balia del freddo e del vento inglese, in piena notte. Altro che bianco Natal, il giorno dopo l’avrebbero trovato congelato, e, quel che era peggio!, con le sue mutande più brutte.
Cosa aspettava Paul ad aprirgli la porta? John lo sapeva che era lì, da qualche parte, nascosto in quella casetta calda e accogliente. Ne era sicuro, gliel’aveva casualmente detto Mike con un messaggio qualche ora prima. Certo, l’aveva fatto dopo che John lo aveva casualmente chiamato una quindicina di volte, dopo aver chiesto casualmente il suo numero a George che casualmente aveva dovuto procurarselo da amici di amici di fratelli di cugini. Ma quanto era meraviglioso il caso?
Insomma, ne era valsa la pena di passare un paio di orette buone attaccato al telefono, dato che era riuscito a capire che Paul quella sera sarebbe rimasto a casa da solo, rinunciando ad accompagnare il papà e il fratello alla tradizionale messa di Natale della chiesa di St.Peters, non sentendosi affatto bene dal giorno prima.
Dunque, John aveva deciso che era arrivato il momento di andare al numero 20 di Forthlin road e dirgli due o tre paroline. Oh, gli avrebbe fatto un discorsetto coi fiocchi! Chi credeva di essere per arrivare, sconvolgere la vita di John senza che nessuno gliel’avesse chiesto per poi andarsene così, senza nemmeno chiedere scusa?
Ah, se voleva sparire dalla vita di John doveva come minimo chiedergli il permesso di farlo, ora come ora. E John sarebbe stato felicissimo di non darglielo. Per una questione di principio, ovviamente.
Insomma, dopo aver finalmente scoperto che alle undici sarebbe stato libero di andare da Paul senza ritrovarsi Jim alla porta, John aveva avuto l’illuminazione, e aveva elaborato un piano perfetto.
E ora si trovava lì, col suo borsone bello pieno a terra, pronto a giocarsi il tutto per tutto. Aveva suonato al campanello e dato che nessuno ancora si degnava di rispondergli, aveva ben pensato di attaccarsi al pulsante, sentendo all’interno il leggero vibrare del suono continuo e fastidioso del campanello. Oh, Paul avrebbe dovuto aprirgli stavolta. Non c’era scusa che reggeva!
Infatti, alla fine poté sentire dei passi lenti e pesanti scendere le scale, e dopo pochi istanti una figura famigliare si avvicinò ai vetri della porta.
“Chi è?”
“Deck the halls with boughs of holly, fa la la la la, la la la la. Tis the season to be jolly, fa la la la la, la la la la!”
Paul schiuse la porta, e appena vide che non erano davvero i volontari del coro di Woolton, ma solo John con il suo solito sorriso sprezzante, provò a chiudersi dentro, ma non riuscì a farlo abbastanza velocemente per impedire che il ragazzo si appoggiasse allo stipite, rendendogli impossibile il tentativo di lasciarlo fuori.
“Cosa ci fai qua, John?” disse, tentando di rendere la sua voce il più normale possibile, senza riuscirci davvero. Gli era uscito un po’ tremante e molto poco convincente, come tentativo.
“Credevo stessi male, Macca.”
“Sì, ho l’influenza. Vai via prima di ammalarti!”
“Strano, non hai il naso chiuso, e il tuo colorito mi sembra normale. Certo, sei parecchio rosso, ma quello credo che sia colpa mia.” Va bene, John aveva delle cose da dire, cose importanti e serie, ma prima aveva il diritto di divertirsi un po’. E sentiva che un sano battibecco lo avrebbe caricato abbastanza per la seconda parte del suo piano. D’altronde, poche cose sembravano farlo stare bene come un bisticcio con il suo Macca.
“Sì, sai, è un’influenza di quelle moderne, senza raffreddore. Ma è molto pericolosa e contagiosa e rischi davvero grosso, a starmi vicino.”
Un’influenza moderna. Cos’era, data dalle scie chimiche, dall’uso dei cellulari e dall’antivirus del computer non aggiornato? John quasi gli rise in faccia, ma sapeva che non doveva, e si trattenne, mordendosi il labbro, prima di rispondergli a tono.
“Sicuramente questo tipo di malattia colpisce quando la persona in causa decide di scendere ad una fermata del treno non sua, evitando accuratamente un qualsivoglia tipo di sano chiarimento con il suo compagno di viaggi preferito. Quindi no, non c’è pericolo che mi venga.”
Paul arrossì ancora di più, distogliendo lo sguardo e perdendosi ad osservare  il ritmo intermittente delle luci dell’albero di Natale, acceso nel salotto di casa McCartney.
“Beh, cosa ci fai qui, se posso saperlo?” disse alla fine, dopo quella che era sembrata un’eternità.
John si ridestò dal torpore in cui era caduto, perso com’era ad ammirare i giochi di luce sul viso di Paul. Ma era stata la debolezza di un secondo, ora era sempre più determinato a compiere la sua missione.
Dunque si spostò dalla porta, sperando che l’altro non la chiudesse nel frattempo, e recuperò il borsone che si era portato appresso da Mendips e che aveva lasciato pochi passi dietro di sé.
“Cosa diav-“ Paul non riuscì a finire la frase, perché John lo aprì velocemente, mentre con la mano libera cercava un qualcosa di indefinito nelle tasche del cappotto.
Alla fine, quando trovò quello che voleva, alzò lo sguardo e fissò Paul a lungo, prima di iniziare a parlare.
In una mano stringeva uno dei suoi biglietti stropicciati e rovinati, nell’altra una ciotola di plastica, con dentro della farina e dello zucchero.
“Giorno 7 Dicembre 2015: Voglio cucinare muffin con John Lennon.”
Paul arrossì e schiuse la bocca, lasciando che le labbra formassero una piccola O di sorpresa.
“Ebbene, Macca, sono pronto. Ho portato con me alcuni mirtilli secchi” e così dicendo gli mostrò un paio di sacchetti sigillati, comprati poche ore prima al supermercato della zona, “o se preferisci ho pure delle gocce di cioccolato. Sono più classiche, vero?”
Non vedendo alcun tipo di risposta nell’altro, John sorrise compiaciuto e appoggiò la ciotola nella borsa. Il suo piano stava funzionando bene, Paul era assolutamente senza parole, il che, diciamocelo, era sempre una gran bella soddisfazione.
“Oppure, oppure, oppure…” e continuò a cercare nel borsone finché non trovò ciò che voleva, “giorno 15 Dicembre: voglio dipingere con John Lennon.” E, sfoderando uno dei suoi sorrisi più sfacciati, gli mostrò delicatamente la scatola dei suoi acquerelli preferiti, e si allungò, finché non riuscì ad accarezzargli il naso con uno dei pennelli puliti.
Davanti a quella sorpresa inaspettata, Paul finalmente cominciò a rilassarsi, e John si sentì sempre più determinato a proseguire il suo piano.
“Va bene, va bene, ho capito, dipingere stasera non è la cosa migliore. Ma intanto ho questo per te.” E gli allungò una bottiglia di shampoo alla Pina Colada, esattamente identico a quello che aveva ricevuto al suo compleanno e che usava da un paio di mesi. “11 Dicembre, ti ricordi? Voglio che mi rimanga addosso il profumo di John Lennon. Dato che hai apprezzato tanto quando mi hai infilato il naso nei capelli…”
Paul rise e stappando la bottiglietta, annusò per qualche istante prima di fare una faccia schifata, arricciando le labbra in segno di disgusto.
“Oh no, tutto ma non questo, John!” si lamentò, stringendo a sé il regalo.
“Sei stato tu a chiederlo, caro mio.” Gli rispose John, ridendo divertito, e vide l’altro arrossire davanti a quel commento, come se in fondo una parte di Paul ancora si vergognasse di quello che aveva fatto con quei bigliettini, nonostante ciò che stava succedendo davanti alla sua porta.
“E avresti anche chiesto di guardare le stelle. Io ho portato il sacco a pelo, ma onestamente oggi non mi pare il clima adatto. Facciamo un altro giorno?”
“Un altro giorno? Vuoi davvero che ci sia un altro giorno?” sussultò Paul, mordendosi appena il labbro. Ed eccolo lì, cominciava ad accennarsi uno dei brillanti e ottimisti sorrisi di Paul McCartney, di quelli così sfacciatamente allegri da infastidire John tremendamente la mattina. Eppure, era come se non fosse ancora abbastanza sereno per lasciarsi andare del tutto.
“Sì, dovranno esserci altri giorni Macca, perché onestamente il 18 Dicembre mi avresti chiesto di rotolarci nella neve, ma diciamoci la verità, quest’anno le temperature sono troppo alte perché succeda. Io ho comprato un po’ di sacchetti di neve finta, ma non credo basteranno per noi due, quindi mi sa che anche quello è da posticipare.”
Paul si limitò ad annuire sempre più convinto, e all’improvviso non sembrava più tanto timido e insicuro.
Il vero Paul, quello che John aveva imparato a conoscere e ad apprezzare, stava riemergendo sempre di più.
“Va bene, va bene, John, d’accordo.” Si limitò a rispondere, appoggiandosi allo stipite della porta in attesa di cosa sarebbe venuto dopo quel punto. Non poteva dire o fare molto altro, perché John sembrava impegnato a ributtare i sacchetti di neve finta nel borsone, e dopo averci litigato un po’ lo calciò poco lontano da lui. In mano gli rimanevano ora solo un paio di biglietti stropicciati dalla noncuranza, e non sembrava aver molto da dire. Dunque, Paul decise che era la sua ora di parlare.
“Posso chiederti una cosa, John? Perché stai facendo tutto questo? Tu mi detesti. Dovresti essere schifato da me, dovresti essere felice ora che non sono più nella tua vita. In fondo, non era quello che aspettavi da Luglio?” il tono non era eccessivamente drammatico, ma solo onesto nella sua tristezza, e John, che si aspettava questo discorso, si limitò a guardarlo, sprezzante.
“Senti, Macca, io non so davvero che dirti. Sì, è vero, non vedevo l’ora di liberarmi di te. Ma sai cosa? Credo sia successa una magia. Non mi sei mai piaciuto, mi hai sempre infastidito un sacco, eri sempre troppo allegro per me… ma insomma, quell’albero in stazione deve aver fatto miracoli. E alla fine, dopo ventitré desideri, il ventiquattresimo si è realizzato.”
“E quale sarebbe?” chiese Paul, cauto.
John si infilò meglio gli occhiali sul naso e prese uno dei due foglietti che aveva in mano. Si raschiò la gola, e ignorando le guance che andavano a fuoco, lo lesse ad alta voce.
“Dicembre, 24, 2015, che è oggi, giusto? Giusto. Il desiderio è il seguente: voglio che John Lennon mi ami quanto io amo lui.” E si allentò leggermente la sciarpa, prima di alzare il viso paonazzo per guardare Paul e studiare la sua reazione.
Paul aveva aperto la bocca come per rispondere qualcosa, ma si limitò a stare immobile, con gli occhi spalancati. E dopo qualche istante di stupore, si inumidì le labbra e gli sorrise, di uno di quei sorrisi che gli facevano splendere il volto e che sembravano avere il potere di illuminare e scaldare tutto ciò che lo circondava. John pensò che quello era il miglior regalo che potesse mai sperare di ricevere, e sicuramente restava una delle cose più belle che avesse mai visto. Dio, poteva quasi smettere di odiare il Natale, per merito di un sorriso del genere! Riuscì a malapena a destarsi dai suoi pensieri per realizzare che Paul aveva cominciato a parlare.
“Proprio questo si è realizzato?”
“Proprio questo. Io speravo fosse qualche altro desiderio, ma l’albero ha scelto questo. Prenditela con lui o con il sindaco, non con me, caro mio! Vorrà dire che gli altri li realizzeremo insieme.” E scrollò le spalle, avvicinandosi a piccoli passi verso Paul.
Il finto sospiro frustrato di Paul produsse una nuvoletta di condensa che si confuse con quella del respiro di John. Pochi centimetri li separavano ormai, ed entrambi non riuscivano a smettere di sorridere. La mano gelata di John scivolò lungo la schiena di Paul, stringendolo a sé con fare possessivo, ma nessuno dei due sembrava sentire poi così tanto freddo.
“Ah, va bene allora, realizziamoli insieme. Ma forse sarebbe il caso di cominciare dall’inizio a fare questo lavoraccio.”
“Sì, mi pare una buona idea, Paul. Com’è che faceva il primo desiderio? Voglio baciare John Lennon?”
“Sai che ti dico? Faccio prima a mostrartelo.”







Angolo dell’autrice:
Gary Crimble and Many Rudolphs, miei cari lettori. Cosa avete trovato di bello sotto l’albero? Chili in eccesso e sbronze famigliari come la sottoscritta? Fantastica festa, il Natale.
Va beh, passiamo alle cose serie (pffff). Sappiate che questa storia è stata scritta in quattro versioni diverse l’anno scorso, ma non riuscivo mai ad andare oltre ad un certo punto, non so bene il perché. Questo Natale ho deciso di riprovarci, e devo ammettere che è andata molto meglio. Mi spiace solo che sia lunga, spero non risulti troppo noiosa e pesante, sappiate che ce l’ho messa tutta per renderla il più frizzante possibile.
Ci tenevo a tornare la solita Anya di sempre, quella che scrive cose ironiche e fluff e non solo angst e introspettive. Mi era mancato tantissimo scrivere AU, resteranno sempre la mia passione –mica troppo- segreta.
Inoltre vi consiglio di leggere questa fanfiction ascoltando questa canzone, perché effettivamente credo si presti molto, e devo ammettere che è stata la mia ossessione natalizia di quest’anno. Grazie Michael Bublè, di nuovo.
Un grazie e uno yellow submarine pieno di regali e abbracci a Kia, che ha betato questa storia a tempo di record per permettermi di sistemarla tra tutti gli impegni, i treni e l’aereo. Gary Crimble pure a lei <3
E ancora tanti, tantissimi auguri a tutte le persone meravigliose di questo fandom che leggono questa mia storia (e che magari hanno letto pure le altre). Vi voglio bene, e non è solo l’alcool che parla, lo giuro.
A presto,
Anya


   
 
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