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Autore: Keep_Running    26/12/2015    1 recensioni
L'amore vissuto da un adolescente.
Sempre che sia amore.
Penso sia amore, ma mica ne capisco qualcosa, io.
Che poi, cos'è davvero l'amore?
Beh, se qualcuno ne sa qualcosa, mi faccia un fischio.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Quando ero in prima superiore mi sentivo piccolo.
Certo, era un bel salto dalla terza media: essere di colpo il più piccolo, dopo nove mesi di pacchia nell’apice della piramide gerarchica scolastica, poco prima degli esami.
Non mi piaceva essere una matricola.
A dire la verità, i più grandi mi facevano anche un po’ di paura: ogni tanto entravano, nella nostra classe, facevano qualche battuta sui professori, ci spaventavano sulla natura demoniaca del preside, e poi se ne andavano ridacchiando.
Paolo diceva che erano simpatici, e che gli sarebbe piaciuto davvero tanto fare amicizia con loro.
A quel punto mi sentii un po’ preso in causa, perché io e Paolo ci eravamo conosciuti proprio lì, a scuola, e lo consideravo praticamente il mio migliore amico – l’unico che mi capisse, per lo meno.
E allora perché voleva conoscere quelle persone simpatiche? Io non ero abbastanza?
Ma sorvolai.
Dopotutto, erano di quinta.
Avevano quell’aria vissuta, quell’aria da chi ne ha viste davvero tanto e ormai ha capito tutto della vita.
Quei quattro anni sembravano quasi venti, alla fine.
E allora capii le parole di Paolo, e anche a me venne voglia di conoscerli e di capirli.
Così, cominciai a studiarli.
Provavano tante di quelle emozioni che la mia apatia post-medie, in confronto, sembrava quasi una vita finta.
I loro profili erano pieni di foto con amici, con conoscenti, con parenti e pure con animali. Partecipavano a concorsi, feste, concerti, ed erano sempre sorridenti.
Quello che mi colpiva di più, tuttavia, erano le loro parole. Per lo più citazioni, certo, come didascalia delle loro foto profilo con più mi piace.
Scrivevano pure da dove le avevano prese.
E così conobbi scrittori, poeti, musicisti e cantanti.
Trovavo affascinante il modo in cui certa gente potesse descrivere le emozioni.
L’amore era un sentimento tanto forte da lacerare l’animo, ricomporlo, e lacerarlo di nuovo. Come sarebbe andata a finire, poi, non si sapeva – o per lo meno, c’erano diverse versioni: o alla grande o di merda.
Mi piaceva, come descrivevano l’amore, mi piaceva tanto.
Ma non sapevo proprio di che cosa stessero parlando.
Guardavo quelli di quinta, però, quelli che avevano vent’anni in più di me e non solo quattro.
Li guardavo e pensavo ‘Cavolo, quelli sì che capiscono di quello che stanno parlando i poeti’.
E non vedevo l’ora di essere anche io in quinta, per citare quei grandi artisti e provare sulla pelle le loro parole.
Con una faccia sorridente e tante speranze.





Capii cosa fosse l’amore non in quinta, ma in seconda.
Solo un anno dopo, dopo un’estate di riflessioni e letture importanti, conobbi Federica.
Posso dire con sicurezza che Federica fu la mia Beatrice, anche se non vorrei far rivoltare il povero Dante nella tomba, con queste mie insinuazioni.
Capii di amarla quando la vidi per la prima volta.
Indossava un paio di jeans blu, niente di particolare o ricercato, con un maglioncino rosa.
Non la conobbi all’inizio dell’anno, ma solo verso Dicembre, poco prima dell’inizio delle vacanze natalizie.
Era un nuovo acquisto della seconda B, la classe davanti alla nostra.
Mi chiesi come avevo fatto a non notarla prima, una come Federica.
Era bella, bella da mozzare il fiato. Certo, non bella come Clarissa, la ragazza di seconda più popolare della scuola, nonché cotta storica di Paolo.
Non aveva la sua pelle diafana prima di imperfezioni, metteva sempre un po’ di fard per rinvigorire il suo incarnato.
Non aveva le sue forme tondeggianti e sode, era più secca e infantile.
Non aveva le sue labbra piene e scarlatte, ma sottili e delle volte screpolate, soprattutto quando la vidi per la prima volta, di dicembre, chè faceva freddo.
A dire la verità non aveva neanche i suoi occhi limpidamente azzurri, ma dei banali e semplici pezzi di cioccolato.
Ma i capelli…
Dio, i suoi capelli…
I suoi capelli erano la mia parte preferita.
Erano biondi, lunghi, naturalmente boccolosi e con delle ciocche leggermente più scure.
Erano brillanti, sotto il sole pure luccicanti, e le davano quell’aria angelica che tanto le si addiceva, soprattutto quando sorrideva.
Mi ritrovai a scrivere di lei, quasi per caso, giusto il primo giorno in cui la vidi.
Non mi ero limitato a dedicarle le mille canzoni d’amore struggente che conoscevo, non mi bastava più.
Avevo bisogno di nuove parole, nuovi suoni, nuovi colori per descrivere le mie emozioni.
Paolo mi prendeva in giro, e delle volte rideva pure, quando rubava le poesie che scrivevo sui suoi capelli bellissimi. Ma a lui piaceva Clarissa, quindi non mi arrabbiavo più di tanto: lui mi capiva.
Quando arrivarono le vacanze di Natale, però, mi salì una grande malinconia: non avrei potuto vedere Federica per ben due settimane.
Così, quando tornai a casa al suono dell’ultima campanella dell’anno, scrissi altre poesie.
Tante, nuove e fresche, che colmavano a pieno l’assenza di Federica e dei suoi capelli.
Scrivevo per lo più di loro, in effetti, quasi fossero un’entità a sé stante, con la loro bellezza innaturale, sempre perfetti. Perfetti proprio come Federica.
Non parlai mai con lei, e Paolo non parlò mai con Clarissa.
Ma lui non scriveva poesia per i capelli di Clarissa, e mi diceva che con quelle ‘merde sdolcinate’ Fede sarebbe capitolata ai miei piedi.
Io non la pensavo così, poi non avevo mica il coraggio di parlarle.
Ma la guardavo, tutti i giorni. La guardavo, cercando di non farmi vedere, le sorridevo, e scrivevo tante poesie sui suoi capelli.
Scrivevo e capivo i grandi poeti, perché anche io avevo un sacco di cose da dire sui suoi capelli.
Sui suoi bellissimi capelli biondi.
Amavo Federica, e l’ho amata con tutto me stesso.
Anche se Paolo mi prendeva in giro, e alla fine, mica gli piaceva così tanto, Clarissa.
 
 





Le cose cambiarono in terza.
Avevo passato tutta l’estate  a leggere le mille poesie su Federica. Le avevo anche scritto qualche canzone, ma non sapevo suonare nessun strumento quindi non avevo idea se facessero schifo o no. Avevo chiesto aiuto a Paolo, che suonava la chitarra, ma si era rifiutato.
Forse aveva fatto bene, a rifiutarsi.
Avevo riletto tutte le parole che avevo scritto, sui bellissimi capelli di Federica.
E quando l’avevo rivista, mi accorsi di una cosa importantissima.
Le mille parole che avevo scritto, le mille emozioni che avevo provato, i mille suoni che avevo immaginato… li avevo dedicati a dei capelli.
A degli stupidissimi capelli.
A dei capelli bellissimi, certo, ma pur sempre solo capelli.
Mi vergognai parecchio, a dire il vero.
Mi sentii come se avessi insultato le parole di tutti i grandi artisti che avevo cercato di imitare, quasi stessi infangando le loro parole usandole per descrivere dei capelli del cavolo.
Mi scusai anche con Dante, per aver definito Federica la mia Beatrice.
Così mi presi in giro, con Paolo, e le risate divennero due, e non una sola.
Ma in cuor mio, mi sentivo stupido.
Perché l’amore mica l’avevo capito, mica l’avevo riconosciuto, mica l’avevo provato.
E avevo anche paura, paura di rimanere per sempre un ragazzino di prima liceo e non invecchiare mai di vent’anni in quinta.
Intanto, però, ridevo con Paolo.
Perché alla fine, quei capelli, avevano pure le doppie punte.
 
 







In quarta Federica si era tagliata i capelli.
Non me n’ero neanche accorto, io, me l’aveva fatto notare Paolo.
Mi aveva detto ‘Ehi, dovrai bruciare tutte quelle vecchie poesie, ormai non servono a niente!’, e mi aveva indicato la classe di Federica, sempre davanti alla nostra.
Io avevo riso, ma non li avevo detto che io, quelle poesie, le avevo bruciate già da un pezzo.
Volevo bene a Paolo, gliene volevo tanto, ma non mi sentivo più tanto capito, da lui.
O meglio: ero io che non capivo più lui.
Si era trovato la morosa, quell’estate, si chiamava Veronica e aveva i capelli corti tinti di verde.
Era carina, la Veronica, con quella sua spigliatezza e il suo sorriso un po’ storto ma sempre adorabile.
Poi a Paolo piaceva tanto Veronica, molto più di quanto gli piacesse Clarissa.
Così gli avevo fatto ascoltare qualche canzone e leggere qualche poesia.
Quelle con i sentimenti struggenti e tutta quella roba là sull’amore.
Gli avevo chiesto ‘Tu provi queste cose?’, e lui mi aveva dato dell’esagerato.
Ma perché mi aveva dato dell’esagerato?
Lui e Veronica stavano benissimo insieme, ma quelle canzoni non lo rappresentavano.
Lì, incominciarono i primi dubbi.
E se fosse tutta una grande balla? E se le belle parole che tutti cantano fossero tutte inventate.
Quella consapevolezza quasi mi stordì.
Veronica era mia amica, e cercava di presentarmi tutte le sue amiche, anche quelle meno carine, ma nessuna di loro capiva il mio problema.
Nessuna di loro capiva, e forse neanche Paolo e Veronica lo facevano, ma mi volevano bene e mi stavano vicino comunque.
Le altre ragazze no, ma mi andava bene lo stesso. Perché avevo bisogno di pensare, di riflettere su tutto, di capire e finalmente vivere bene.
E amare.
Amare tanto.
Perché ero in quarta, ma alla fine ero come in prima: volevo solo provare tutte quelle belle emozioni.
Ma se non esistessero neanche?
 
 
 





Ora sono in quinta.
Sono all’apice della piramide gerarchica scolastica e vado dai primini con Paolo a ridere un po’, durante la ricreazione.
Vedo anche i loro sguardi ammirati, delle volte, ma mi fanno sentire solo in colpa.
Non mi sento vent’anni più grande di loro.
Mi sento solo più piccolo, molto più piccolo, come un bambino di otto anni.
Paolo e Veronica stanno ancora insieme, e io mi sento il loro piccolo bambino di otto anni.
Quasi rimpiango l’apatia della prima superiore, quasi mi sembra un sentimento vero, adesso.
Sono in quinta superiore, non ho capito un cazzo della vita e dell’amore.
Non ho capito un cazzo neanche della fisica quantistica, ma questo è un altro problema.
E ho preso la decisione di lasciar perdere capelli e canzoni d’amore, e di aspettare e basta.
I sorrisi di Paolo e Veronica mi danno speranza.
E poi si sa: il vero amore aspetta.
Io lo aspetto.
Tanto, non ho niente da fare.








Salve.
Mi sembra davvero strano tornare a pubblicare qualcosa, dopo così tanto tempo. Avevo smesso di scrivere quasi per caso, chiamatela mancanza di fantasia o ispirazione persa nel nulla, ma tornare a pubblicare mi fa davvero piacere.
Sarà la depressione post-natalizia, ma mi sento malinconica oggi.
Abbastanza malinconica da scrivere una robetta in dieci minuti e aver pure il coreggio di pubblicarla. Mi scuso se vi ha fatto schifo, ma mi andava di farlo.


Che dire, è la mia prima originale quindi siate clementi - anzi no, fate gli stronzi che fa sempre bene, alla fine.
Per il terzo anno di fila sono l'unica sfigata del gruppo di amici a non avere neanche una misera cotta, quindi mi ritrovo a scrivere 'sta cosa.
L'ispirazione è venuta dalla canzone dei Radiohead omonima al titolo, che è stata davvero davvero davvero l'unica vera fonte di ispirazione. 
Ascoltatevela, ragà.

Detto questo buon natale, buone feste e buona vita.
A presto

 
  
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