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Autore: EsseTi    27/12/2015    5 recensioni
Dominik è un pianista ceco…e cieco.
Suona il pianoforte da quando ha sei anni, e a 13 ha lasciato Praga per raggiungere Milano e studiare al Conservatorio Giuseppe Verdi.
A 18 anni è una promessa della musica, con la passione per Mozart e Chopin.
Suona il piano perché è come vedere i colori.
Vive per la sua musica, ma si ritroverà a dividere il bilocale in cui vive con Federico, un barista estroverso e terribilmente disordinato. Federico, però, gli insegnerà che i colori non sono solo nella musica.
A lui piaceva l’arancione; la mamma diceva sempre che era un po’ come il calore delle coperte d’inverno, quando fuori faceva freddo e si mettevano a dormire insieme.[...]
Gli avevano insegnato le note, l’adagio, il notturno. Gli avevano insegnato Mozart, Chopin, Bach.
Nessuno, però, gli aveva insegnato di quanto fosse bello il calore di un bacio.
Quello, doveva essere il rosso.

Revisione in corso. Ci saranno modifiche importanti.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Peccare di silenzio, quando bisognerebbe protestare, fa di un uomo un codardo.

Ella Wheeler Wilcox, Protest, 1914


Chapter 42nd: Codardo
 
Il suono del suo respiro sembrava amplificato dal silenzio della stanza dalle mura spesse.
Ad ogni soffio, gli sembrava di avvertire l’aria lungo la gola sfiorarlo come una carezza.
Era un silenzio avvolgente, morbido. Musicale.
Un ultimo respiro, lungo appena un attimo, e cominciò a suonare.
Dominik stava provando quell’esercizio da quella che doveva essere un’ora, eppure c’era sempre qualcosa che lo irritava, una piccola sbavatura nella musica, una nota dimenticata, la necessità di far scorrere i polpastrelli sullo spartito per riprendere un passaggio particolarmente complesso.
E tutte le volte, ad ogni pausa, avvertiva il sospiro silenzioso eppure così fastidioso della maestra.
Lo aveva fatto apposta, ad assegnargli quell’esercizio così lungo, solo per privarlo del tempo di dedicarsi a Chopin, avanzando la giustificazione degli esami di fine anno così vicini, anche se era ancora Febbraio e sapeva benissimo anche lei come gli sarebbero bastati poco più di una quindicina di giorni per padroneggiare ogni brano, a differenza di tutti gli altri allievi.
Ma lei era cattiva.

Dominik non aveva mai sperimentato cosa fosse la cattiveria: non avrebbe saputo darne una definizione, o darle un colore, una sfumatura, farne un esempio.
Ma se glielo avessero chiesto in quel momento, la cattiveria avrebbe avuto la stessa sfumatura di viola che aveva il respiro stizzito della maestra, insieme alla sua lingua tagliente e ai suoi modi sgarbati. Si era chiesto più volte, durante l’ultima settimana, se davvero le fosse mai stato simpatico e lo avesse stimato, visto che era bastato così poco per renderlo diverso ai suoi occhi.
- Marek! Non ci siamo ancora! –
La voce tornò a rimbrottarlo proprio nel bel mezzo di un passaggio più difficile degli altri, distraendolo. Lo aveva fatto apposta. Lui non aveva sbagliato, stava suonando bene: aveva avuto solo una piccola incertezza, ma se lei lo avesse lasciato fare l’avrebbe superata, se ne sarebbe accorta. Invece lo aveva interrotto di proposito.
Il respiro stizzito riempì di nuovo il silenzio.
- Che cosa ti succede? Hai smesso di studiare? –
Dominik avvertì la tensione fluire lungo le dita fino ai polpastrelli, e immaginò di riversarla sui tasti del pianoforte che stava ancora sfiorando. Si chiese che ore fossero, e sperò che mancasse poco alla fine della lezione e all’ora di pranzo.
- No. Io studio sempre. E suono. Stavo suonando bene, se lei non mi avesse interrotto – rispose, frustrato. La maestra era ancora seduta lì, di fianco a lui: ne avvertiva la posizione.
- Invece no. Non stavi suonando bene, sei in grado di fare molto meglio di così. –
- Sono esercizi. Non c’è niente dentro. Posso suonarli solo così. –
- Sei sempre stato molto più bravo, Marek. Stai avendo un tracollo. – Dominik accusò il colpo, ma non rispose. – Sei distratto, non ti eserciti abbastanza. Quel ragazzo ti ha portato ad uno stile di vita che non ti fa affatto bene. –
Avrebbe tanto voluto non avvertire quella solita stretta allo stomaco di tutte le altre volte, ma non ci riusciva mai. L’inquietudine arrivava immediatamente, partiva dal petto, si irradiava fino alla punta delle dita e poi scendeva giù, concentrandosi in un macigno dentro al petto che sembrava soffocarlo e paralizzargli le mani, impedendogli di suonare. E gli riempiva la testa, e lo faceva sentire in colpa.
Perché, nonostante fosse consapevole di essere bravo e di avere studiato, tutte le volte che la maestra gli parlava a quel modo c’era una piccola parte di lui, quel minuscolo tarlo del senso di colpa, che iniziava ad eroderlo, consumandolo dall’interno: allora pensava a come avrebbe suonato se la sera prima, invece di trascorrerla a letto con Federico, l’avesse passata sul divano a studiare; o, ancora, a che colore avrebbe assunto la musica se il pomeriggio di due giorni prima Dominik non aveva mai sperimentato cosa fosse la cattiveria: non avrebbe saputo darne una definizione, o darle un colore, una sfumatura, farne un esempio.
Ma se glielo avessero chiesto in quel momento, la cattiveria avrebbe avuto la stessa sfumatura di viola che aveva il respiro stizzito della maestra, insieme alla sua lingua tagliente e ai suoi modi sgarbati. Si era chiesto più volte, durante l’ultima settimana, se davvero le fosse mai stato simpatico e lo avesse stimato, visto che era bastato così poco per renderlo diverso ai suoi occhi.
- Marek! Non ci siamo ancora! –
La voce tornò a rimbrottarlo proprio nel bel mezzo di un passaggio più difficile degli altri, distraendolo. Lo aveva fatto apposta. Lui non aveva sbagliato, stava suonando bene: aveva avuto solo una piccola incertezza, ma se lei lo avesse lasciato fare l’avrebbe superata, se ne sarebbe accorta. Invece lo aveva interrotto di proposito.
Il respiro stizzito riempì di nuovo il silenzio.
- Che cosa ti succede? Hai smesso di studiare? –
Dominik avvertì la tensione fluire lungo le dita fino ai polpastrelli, e immaginò di riversarla sui tasti del pianoforte che stava ancora sfiorando. Si chiese che ore fossero, e sperò che mancasse poco alla fine della lezione e all’ora di pranzo.
- No. Io studio sempre. E suono. Stavo suonando bene, se lei non mi avesse interrotto – rispose, frustrato. La maestra era ancora seduta lì, di fianco a lui: ne avvertiva la posizione.
- Invece no. Non stavi suonando bene, sei in grado di fare molto meglio di così. –
- Sono esercizi. Non c’è niente dentro. Posso suonarli solo così. –
- Sei sempre stato molto più bravo, Marek. Stai avendo un tracollo. – Dominik accusò il colpo, ma non rispose. – Sei distratto, non ti eserciti abbastanza. Quel ragazzo ti ha portato ad uno stile di vita che non ti fa affatto bene. –
Avrebbe tanto voluto non avvertire quella solita stretta allo stomaco di tutte le altre volte, ma non ci riusciva mai. L’inquietudine arrivava immediatamente, partiva dal petto, si irradiava fino alla punta delle dita e poi scendeva giù, concentrandosi in un macigno dentro al petto che sembrava soffocarlo e paralizzargli le mani, impedendogli di suonare. E gli riempiva la testa, e lo faceva sentire in colpa.
Perché, nonostante fosse consapevole di essere bravo e di avere studiato, tutte le volte che la maestra gli parlava a quel modo c’era una piccola parte di lui, quel minuscolo tarlo del senso di colpa, che iniziava ad eroderlo, consumandolo dall’interno: allora pensava a come avrebbe suonato se la sera prima, invece di trascorrerla a letto con Federico, l’avesse passata sul divano a studiare; o, ancora, a che colore avrebbe assunto la musica se il pomeriggio di due giorni prima fosse stato veramente concentrato, anziché pensare a come sarebbe stato baciare Federico quando fosse tornato dal lavoro.
Si sentiva spaccato, percorso da qualcosa che lo tormentava, dentro e fuori dal petto.
Era così facile, prima, far tutti felici: la mamma, la sua maestra, il mondo intero. Anche la musica.
Adesso era tutto una gran confusione, e la mamma era preoccupata, la maestra lo tormentava, gli estranei l’avrebbero guardato con quel misto di pietà e disgusto, come solo un ragazzino gay cieco poteva essere guardato. E poi c’era la musica, che non riusciva più a esprimersi come una volta, quando era così facile disegnare delle cose, quando non c’erano tutte quelle sensazioni nuove ad emergere mentre suonava, riversandosi non solo nella musica ma anche sulla pelle, e nella testa.
-  Non riesco a capire come farai a superare gli esami, quest’anno, di questo passo. –
Dominik deglutì, a vuoto.
Stava cercando di ritrovare la calma, di far cessare quell’impercettibile tremore che sentiva lungo le dita e che gli avrebbe impedito di suonare. Avvertì fermarsi prima di polpastrelli, poi si impadronì di nuovo del movimento delle dita, infine della solidità dei gomiti e delle spalle.
C’era di nuovo silenzio, e soltanto due respiri.
Attorno a quei respiri, iniziò a sentire la musica, prima che a suonarla.
Attaccò immediatamente, non appena sentì che fosse arrivato il movimento, e ricominciò a suonare da capo: questa volta le note dello spartito gli si riversarono nella mente come se le avesse scritte lui, con una fluidità che gli era sembrato impossibile raggiungere, nei minuti precedenti.
Alla fine, chiuse l’ultima nota con una profondità maggiore delle altre, lasciando che risuonasse un po’ e venisse assorbita dalle spesse pareti del Conservatorio.
La maestra non disse nulla per alcuni minuti, poi si schiarì la voce.
- Meglio – borbottò. - Ma non è abbastanza. Sei scostante, e distratto, come se non ti importasse più abbastanza – lo accusò poi.
Io te lo avevo detto che quel ragazzo avrebbe portato guai. E se adesso sta provando a deviarti, dovresti dirmelo. 
Avvertì lo stridio della sedia che scivolava sul pavimento, mentre lei si alzava, insieme al fruscio dei suoi vestiti.
Io ti ho preso a cuore. Ho fatto per te ben più di quanto mi venga richiesto come insegnante, e più di quanto avrei dovuto fare. Non voglio che tutti i tuoi sacrifici vadano perduti per colpa di un pervertito
– Ti avevo assegnato la sonata numero 2, Chopin. Hai studiato? –
- Sì – rispose subito, quasi automaticamente, sobbalzando. Un altro lieve ondeggiare di abiti. Nella mente, gli sembrava di sentire ancora spegnersi le ultime sillabe della parola pervertito che lei aveva usato così poco tempo prima, riferendosi a Federico. Riferendosi a lui.
- Esercitati. Tornerò tra dieci minuti, pretendo di ascoltare qualcosa di impeccabile. –
Dominik non disse nulla.
Rimase fermo, le dita a sfiorare i tasti del pianoforte e la sensazione che un unico respiro potesse scoppiargli nel petto. Stava cercando, da qualche parte dentro di sé, la musica da mettere dentro la sonata di Chopin.
Non c’era niente.
C’era solo quel fastidio, quell’inquietudine che lo corrodeva dall’interno.
Quando finalmente avvertì il rumore della porta che si chiudeva, e più nessun respiro intorno a sé, fece una cosa che non aveva mai fatto: staccò le dita dai tasti bianchi e le portò tra i capelli. Rimase così, finalmente in pace, con la testa tra le mani e i gomiti poggiati sulla tastiera, godendo del silenzio e del vuoto.
Non c’era più niente
In tutto quel vuoto, avvertiva solo il suono del proprio respiro, e poi il silenzio: nessuna musica, nessuna nota, solo uno strano rimbombo nella testa, che sembrava pulsare senza sosta.
Era stanco.
Per la prima volta nella sua vita aveva il solo desiderio di uscire da quell’edificio e rifugiarsi a casa, dietro il proprio pianoforte e la propria musica, senza che nessuno potesse opprimerlo.
Non era mai successo. Non aveva mai sperimentato quella sensazione prima.
Si sentiva come se non ci fosse più niente intorno: nessun obiettivo, nessuna gioia, nessun colore. Ogni colore che provava a creare veniva spazzato via dal senso di oppressione al petto che seguiva ad ogni respiro stizzito della maestra, o dalla morsa allo stomaco quando pensava a Federico, ai suoi baci e ai suoi sospiri.
Forse era vero, era distratto. Solo un po’.
Lo era quando Federico tornava a casa dal lavoro e lui si alzava subito per andare a rubargli un bacio, o quando lo raggiungeva sul divano per guardare un film insieme o farsi semplicemente fare qualche carezza. Lo era ancora quando decideva di accompagnarlo al supermercato, perché fare la spesa insieme gli metteva addosso uno strano e dolce senso di intimità.
Tutto quello, però, metteva la musica appena un po’ da parte.
E se, prima, era così facile riprenderle le fila e tirarla verso di sé, adesso sembrava sfuggirgli dalle mani, come se fosse una coperta schiacciata da un masso enorme e pesante, mentre lui se ne stava da una parte a strattonarla inutilmente per un angolo. Il masso, in quel caso, era rappresentato dal resto del mondo, o meglio, da quello che il resto del mondo pensava di quelli come lui e, di riflesso, anche di lui: deviato, pervertito, animale. Ed era rappresentato anche da quella parte di delusione e di amarezza che, anche se aveva fatto finta di niente, aveva sentito nella voce di sua madre, quando l’aveva chiamata, e che era mancata solo in quell’ultimo “ti voglio bene”.
All’esterno, sembrava non essere cambiato nulla.
Continuava a frequentare il Conservatorio, a studiare sulla sua poltrona, a cenare con Federico e fare lunghe telefonate ai suoi genitori, come era successo negli anni e nei mesi precedenti, fino a Natale: eppure, nel momento stesso in cui Federico lo aveva baciato per la prima volta, si era avviata una catena di eventi che aveva cambiato tutto.
Anche se le cose apparivano sempre uguali, lui era diverso.
Quando andava in Conservatorio si scontrava con i bisbigli e l’isolamento degli altri studenti e con i toni velenosi della maestra. Quando studiava sulla poltrona teneva le orecchie tese al minimo rumore, in attesa che Federico rientrasse, e quando cenava con lui si lasciava sfiorare le mani e lo ascoltava raccontare la sua giornata immaginando il movimento delle sue labbra. Quando telefonava a casa, non trovava le parole e gli pareva si avvertire sempre una strana tensione nella voce di sua madre.
Dominik trasse un profondo respiro, raddrizzando la schiena.
Iniziava a sentirla, pensando al suono della voce di Federico, la sonata di Chopin prendergli forma sotto la pelle. Doveva concentrarsi solo su quella, e allontanare tutto il resto: le occhiate, i sussurri, la tensione. Prendere solo le cose belle e lasciarle fluire lungo le spalle, e le braccia, fino alle dita.
Premette i polpastrelli sui tasti, e iniziò a suonare.
 
§§§
 
Si sentiva leggero.
Come se stesse respirando un’aria impalpabile, come se non dovesse compiere più nessuno sforzo nemmeno per respirare.
Era letteralmente su una nuvoletta rosa, a guardare il resto del mondo dall’alto.
Federico allacciò il grembiule nero intorno ai fianchi: l’rologio segnava le quattro e cinque del pomeriggio, il locale, che aveva appena aperto, era ancora vuoto, i tavoli e le sedie in ordine, il bar ancora fermo come nel languore del sonno. Proprio dietro il bancone, Samuele se ne stava appoggiato ad una parete, lo smartphone tra le dita e il viso illuminato dal lieve chiarore dello schermo. Gli altri erano tutti sul retro, Claudio fuori a fumare l’ultima sigaretta nel freddo di Febbraio.
Federico si lasciò cadere moridamente su uno sgabello di fronte al bancone, il gomito sul piano di legno e il viso poggiato sulla mano.
Non vedeva l’ora di tornare a casa, anche se era uscito da nemmeno un’ora.
Avrebbe trovato ad accoglierlo il tepore del riscaldamento centralizzato, e quello più dolce delle mani di Dominik e della sua musica che riempiva la stanza mentre lui preparava la cena. E i baci di Dominik. E il corpo caldo di Dominik tra le lenzuola.
Probabilmente non era mai stato veramente così felice.
Tutta la sua felicità, negli anni precedenti, era sempre stata soffocata dal timore di essere scoperto a letto con Manfredi dai suoi genitori, dall’ansia del non potersi tenere per mano e dall’angoscia delle bugie. Anche dalla paura del futuro.
Adesso, solo adesso, così lontano da casa, gli pareva di aver trovato se stesso e l’essenza della vera felicità, quela che Dominik diceva di disegnare con le sue note, quando le dita si piegavano e si contorcevano rapidamente sui tasti del pianoforte.
Sarebbe potuto restare bloccato così, in un istante eterno, senza tornare mai più indietro.
Nessuna bugia, nessuna ansia di essere visto in giro, nessun timore.
Solo Federico, e la felicità, e Dominik, e le mani intrecciate, e le cene a casa e le passeggiate al freddo, e il lavoro con la voglia di tornare a casa a rifugiarsi sotto le coperte.
Nessun limite, nello spazio e nel tempo.
- Ehi – si sentì chiamare. Lo aveva visto, avvicinarsi di qualche centimetro, il corpo di Samuele: il richiamo era giunto quando aveva ancora gli occhi fissi sul cellulare, ma quando Federico si voltò, lo aveva già rimesso in tasca.
- Ehi – lo salutò di rimando, voltandosi del tutto verso il bancone e incrociando le braccia sul ripiano. Samuele sorrise, ma aveva un’aria stanca, le occhiaie, e il viso teso. Aveva indosso un maglione tutto stropicciato, il cui colore non c’entrava proprio nulla con quello dei pantaloni. Era strano: Samuele era uno che a cose come quella prestava attenzione. Anche se indossava quasi sempre magliettine aderenti e jeans a vita bassa, ci teneva che fossero sempre perfettamente abbinati, e stirati, e magari con una marcia in più, come un foulard o un bracciale. Di rimando, anche Federico si fece sfuggire un largo sorriso. Sentiva di non poter fare a meno di sorridere, da alcuni giorni a quella parte.  -  Ti ho mandato un messaggio stamattina – gli fece notare.
Gli aveva scritto intorno alle dieci, quando, da solo in casa, non era riuscito più a contenere il buonumore e gli era venuta voglia di uscire a bere qualcosa, o di parlare con qualcuno. Ma Samuele non aveva risposto, così Federico era rimasto a casa a fare le pulizie, utilizzando la scopa con l’asta di un microfono mente ascoltava gli U2 a tutto volume.
Samuele parve sobbalzare appena, solo una lieve scossa delle spalle. Poi, con un movimento fluido, agitò una mano in aria, davanti al viso, in un gesto distratto.
- Sì, scusa, io…Ho tenuto il cellulare spento tutto il giorno. Ero…sono stato qualche oretta in palestra. Proprio adesso stavo leggendo tutti gli sms… - si giustificò, con un sorriso.
Federico non trovò nulla di strano, in quello. Non era la prima volta che Samuele spariva per delle ore o non rispondeva ad un sms. Quando andava in palestra, ogni mattina per tre volte la settimana, staccava il cellulare, o lo lasciava proprio a casa: diceva che la palestra fosse l’unico angolino di pace della sua vita, quello in cui rifugiarsi qualche ora per tenere lontani tutti e tutto: il lavoro, la vita, la casa, le spese, Riccardo. Soprattutto Riccardo. Ecco perché staccava il cellulare.
No, questo non era strano.
Quello che lasciò Federico stranito, con una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco, fu il sorriso di Samuele.
Quel sorriso finto. Teso, vuoto.
La sua bocca si era distesa, ma i suoi occhi erano rimasti assenti.
Samuele non sorrideva mai così. Nei sorrisi di Samuele c’era sempre un calore che sembrava avvolgere tutti come una coperta calda d’inverno.
Federico non fece in tempo a dirgli nulla, perché l’altro aveva appena fatto un cenno con la mano per indicargli dei clienti appena entrati, che attendevano di ordinare.
Li raggiunse con una strana sensazione di disagio che gli scorreva lungo la spina dosale, come un brutto presagio.
Il comportamento bizzarro di Samuele poteva essere attribuito ad una sola cosa: Riccardo lo aveva di nuovo piantato in asso. Per San Valentino, e magari proprio quando lui aveva preparato una bella cena e aveva riempito la vasca da bagno per trascorrere una serata insieme. E Samuele, come sempre, doveva aver incassato e tirato fuori quei sorrisi di circostanza, fino a quando, tra qualche giorno, non gli sarebbe passata, mandata giù come l’ennesimo rospo.
Almeno, fino alla delusione successiva.
Riccardo era una di quelle classiche persone che rappresentava l’incarnazione della delusione continua e ripetuta. A volte, certi gesti, certe giustificazioni, gli ricordavano Manfredi.
E la trovava una cosa brutta, e cattiva, da pensare, associare la figura del suo migliore amico, una parte dell’essenza della propria anima, a quel bastardo traditore e vigliacco che era Riccardo.
Eppure, certe volte, quando Samuele gli parlava dell’ennesimo appuntamento rimandato, della cena finita nella pattumiera e della chiamata dimenticata, Federico avvertiva bruciare ancora nel petto la delusione, gli pareva di sentire sulla pelle l’occhiata triste eppure altera – come se non fosse dalla parte del toro – di Manfredi, tutte le volte che gli faceva notare l’ennesima mancanza.
E li sentiva ancora addosso, i baci del sesso dopo la litigata, quel filo invisibile che gli si attorcigliava intorno al cuore e sembrava ridurglielo in poltiglia ad ogni sguardo del suo migliore amico.
Pensare a Manfredi, in quei giorni, era quasi piacevole.
Era come se la felicità e la leggerezza stessero soffocando i brutti ricordi, le litigate, i dissapori e le urla, per lasciare spazio soltanto alle cose belle: il calore degli abbracci di Manfredi, i pomeriggi passati a giocare a Fifa, le gite scolastiche e le versioni di latino passate di nascosto sotto il banco. E quel viaggio che avevano fatto di nascosto, inventando che ci sarebbero stati dei colleghi di Manfredi, e le domeniche allo stadio a guardare il Palermo, e quel susseguirsi di baci, nel buio della sua stanza, nascosti agli occhi di tutti.
I ricordi, i bei ricordi, lo accompagnavano con una dolcezza disarmante, facendo da sfondo al battito forsennato del cuore nel petto tutte le volte che pensava a Dominik, e a come avevano fatto l’amore, la notte precedente, e alla sua smorfia assonnata al suono della sveglia, quella mattina, prima che si voltasse per rubargli un bacio all’improvviso.
Federico poggiò il biglietto con gli ordini dei clienti sul bancone, proprio di fonte a Samuele.
- Due caffè per quei due tipi laggiù. Due thè caldi e un caffè al ginseng per le salutiste in fondo – gli indicò.
Gli occhi di Samuele saettarono subito, giusto un attimo, verso i due tavoli occupati, poi verso Claudio, all’altra estremità del bancone. Mentre quello preparava i caffè, Samuele si mise subito al lavoro con il bollitore. A Federico non sfuggì il lieve tremore delle sue dita quasi impacciate.
Mentre aspettava, si lasciò cadere sullo sgabello circolare, lasciando che ruotasse un po’, come in un gioco, le gambe penzoloni.
- Com’è andata ieri? Festeggiato San Valentino? – chiese Samuele, il sottofondo del tintinnare dei cucchiaini e delle tazze.
- Festeggiato è un parolone! – la buttò lì, stringendosi nelle spalle ma aprendosi immediatamente in un sorriso. – Dominik non è voluto uscire, ma forse è stato meglio così. Non ha ancora…diciamo mandato giù quello che è successo al Conservatorio, credo. E’ scazzato, si sente oppresso da quella stronza della sua insegnante e da quegli idioti con la puzza sotto il naso. Io non so cosa fare, come aiutarlo. Lui dice che non ne vuole parlare, e io faccio finta di niente. Però lo vedo più sciolto con me, sai? …Così ieri siamo rimasti a casa, a letto, per tutta la sera – snocciolò, parlando velocemente, come se l’entusiasmo gli spingesse le parole fuori dalle labbra senza che avesse il tempo di contenerle. – È stato bellissimo, Samuele. Credo di non essere mai stato così felice, di questa felicità pulita e senza ombre. -  Abbassò lo sguardo, a fissarsi le punte delle scarpe: un po’ si vergognava, quasi si sentisse sporco, di quello che stava per dire. - Nemmeno con Manfredi. C’era sempre qualcosa da nascondere o qualcosa da accettare di malavoglia, per colpa delle persone e dell’ambiente che avevamo intorno, e anche per colpa sua, che non ha mai accettato di dire la verità ai suoi, non l’ha mai nemmeno preso in considerazione. O di andare via, partire e mandare tutto al diavolo. Ma adesso mi sento bene, come se niente più potesse andare male. –
Fu allora che accadde.
Fu allora che gli occhi di Samuele si sollevarono finalmente su di lui e, con quel verde intenso come del mare in tempesta, lo bruciarono.
Fu come avvertire una scossa che partiva dall’altezza del petto, insieme alla sensazione di qualcosa che lo ustionava sul viso, sul collo, e che lo soffocava, stringendolo alla gola. Eppure Samuele non aveva detto nulla, né cambiato espressione.
Solo dentro ai suoi si occhi si era aperta una voragine.
Durò solo lo spazio di qualche secondo, poi quegli occhi sfuggirono, concentrandosi sull’acqua all’interno del bollitore.
- Ti è mai capitato di sentirti come se tutto quello che fai fosse sbagliato? – gli chiese. Federico si strinse nelle spalle: gli mancava l’aria, come se fosse ancora soffocato da quello sguardo. Samuele non attese nessuna risposta. – Io sono sempre stato un bravo bambino, e un bravo ragazzo. Non ho mai fumato, mi sarò ubriacato sì e no due volte, avevo buoni voti, anche se mi toccava studiare fino a tarda notte. Ero un bravo figlio. Non so se lo fossi davvero, perché volevo esserlo, o solo perché mi piaceva avere l’approvazione dei miei genitori. Probabilmente la seconda. Quando a diciassette anni ho confessato di essere gay, ho pensato che quella sarebbe stata la decisione peggiore che avrei preso in tutta la mia vita, e che l’avrei ricordata così, in questo modo, fino a quando fossi stato vecchio. Ero convinto che quel dolore, quella sensazione di smarrimento e di vertigine, la terra che mancava sotto i piedi, fossero tutte cose che non avrei mai più provato con quell’intensità, mai più. Mi sentivo perso. – Si strinse nelle spalle, continuando ostinatamente a sfuggire al suo sguardo. Gli parve quasi di vederlo sorridere, una specie di smorfia. – E invece, adesso sto facendo un casino, Federico – lo sentì dire.
E mentre l’acqua iniziava a bollire e l’odore del caffè iniziava a diffondersi, la voragine lo risucchiò.
Federico ci roteava dentro, e la voce di Samuele lo avvolgeva, parlando del senso di colpa, di Mattia, del buio e della sensazione di sporco. E parlava anche del desiderio sotto la pelle, e dell’estasi, e del benessere che gli riempiva il petto prima di gettarlo nello sconforto del tradimento.
Samuele stava bruciando, dall’interno.
Bruciava l’uomo che era stato, e l’uomo che credeva di essere, mentre l’uomo che sarebbe diventato prendeva forma dalle ceneri, plasmato dalle mani di Riccardo, e da quelle di Mattia e delle altre persone che gli vorticavano intorno, mentre lui sembrava aver perso la presa.
Federico lo lasciò parlare, cullato dall’inflessione morbida della sua voce, addolcita dalla malinconia. Dovette lasciarlo, per pochi minuti, per servire ai tavoli, e mentre lo faceva, mentre guardava i visi sorridenti dei clienti, i loro bei vestiti, la barba di uno e le unghie smaltate dell’altra, si chiese se anche loro, come lui, come Samuele, avessero alle spalle una storia, e che tipo di storia fosse.
Quando tornò al bancone, Samuele era ancora nello stesso punto in cui lo aveva lasciato, i palmi delle mani adagiati sul legno, le spalle un po’ curve in avanti.
Si sedette di nuovo sullo sgabello.
- È per questo che stamattina non ti ho risposto. Non ci sono nemmeno andato, in palestra. Sono rimasto tutta la mattina a casa, il cellulare spento per il terrore di leggere un sms di Mattia, o di una chiamata di Riccardo. Con quale coraggio avrei potuto fare finta di niente quando non riesco nemmeno a guardarmi allo specchio? –
Federico pensò che avrebbe potuto dire tantissime cose, ma che qualsiasi cosa avesse detto non sarebbe servita a nulla. Samuele era innamorato di Riccardo, e tutte le parole delle persone intorno a lui non lo avrebbero nemmeno toccato, tutti i discorsi razionali si sarebbero schiantati contro la parete costruita dai suoi sentimenti, lì a proteggerlo.
- Cosa pensi di fare adesso? – gli disse allora.
Samuele si strinse nelle spalle, un gesto quasi grottesco, il movimento infantile che cozzava con l’imponenza del suo corpo da uomo.
- Ero sicurissimo di quello che avrei dovuto fare. Smetterla. Avevo confessato a Riccardo quello che era successo, avrei fatto in modo che non si ripetesse. Sarebbe tornato tutto come prima. – Un sospiro, lo sguardo un po’ perso. – Solo che poi è arrivato Mattia. Non era nemmeno arrabbiato per l’indifferenza che gli avevo riservato, anche se mi sarei meritato un bel cazzotto in faccia – ammise, lasciandosi andare ad un lieve sorriso, più simile ad una smorfia che alla vera allegria. Sospirò, come un soffio di vento in un pomeriggio d’autunno. - Mi sono sentito come se ci fosse qualcuno a cui importasse di me. E ho fatto di nuovo la cazzata. –
Federico seguiva con la punta dell’indice una venatura del legno. Le loro vite – la sua, quella di Samuele – erano come quelle venature: un complesso di linee, diverse sfumature, che si intrecciavano, disegnavano percorsi irregolari che a volte era impossibile seguire, perché si intrecciavano così saldamente con quelle degli altri da sparire in quella confusione. Si perdevano, ma riemergevano da qualche altra parte, a distanza, a volte di un colore diverso, ed era impossibile riconoscerne l’origine.
- Non hai risposto alla mia domanda però. –
- Cosa dovrei fare, Federico? La cosa giusta. Smetterla e basta. Anche se c’è una parte di me, irrazionale e stupida, che pensa che forse Mattia, e Riccardo, hanno tutti ragione. Che posso essere egoista, fare sesso quando mi sento solo, divertirmi, pensare a me e solo a me, nell’attesa che la vita che voglio mi apra le porte. Anche se questo potrebbe significare non riuscire più a guardarmi allo specchio. –
- Potrei farti un bel discorso, Samuele, uno di quelli razionali, ordinati, da persona matura. Potrei dirti di “lasciare Riccardo, di riprendere in mano la tua vita, perché meriti di meglio e che lui si renderà conto del gioiello che ha perso e allora tu sarai felice con un uomo migliore e gli sbatterai la porta in faccia”. Insomma, tutte delle sante verità che però sono anche le cazzate che si dicono sempre per sembrare dei gran fighi a cui importi qualcosa della tua vita, tanto è tutto facile quando non è tuo il culo che brucia. – Vide Samuele sorridere di nuovo, appena. Nel locale, ancora vuoto, si sentiva solo la musica provenire dalla tv e il lieve chiacchiericcio delle tre ragazze al tavolo, le salutiste al ginseng, come Federico le aveva ribattezzate. -  Però, anche se sembrano cazzate, in realtà è vero. Lasciare Riccardo e decidere per te sarebbe la cosa giusta, indipendentemente dalla presenza di Mattia o di chiunque altro. Solo tu. E ti dico che farà un male cane, come se ti strappassero tutte le budella senza anestesia, e che non avrai nemmeno voglia di alzarti dal letto per giorni, e giorni e giorni. Però devi farlo, prima o poi, o rischi di passare il resto della vita così, e ti ritroverai a sessant’anni a vivere con tre gatti e a guardare Forum e Barbara D’Urso, chiedendoti che cosa sarebbe successo se… -
Samuele stava per dire qualcosa, ma Federico lo interruppe. Stava prendendo coraggio, a parlare con lui, come se non stesse dicendo quelle cose solo a lui, ma anche a se stesso.
- Ma continuare ad andare a letto con Mattia, nell’attesa che Riccardo lasci sua moglie, lasciatelo dire ma è proprio da stronzi. –
- Ed io non voglio esserlo! Io amo Riccardo, ho investito otto anni della mia vita in questa storia, ed è con lui che immagino il mio futuro…E’ solo che… - Samuele sbuffò, frustrato. – Mattia mi confonde. Io ho delle mancanze, lo ammetto, ma è come se lui ci rigirasse dentro un coltello. È un bell’uomo, è divertente, io...mi sento leggero, e libero, quando sono con lui… - Negli occhi di Samuele, il verde era diventato morbido, e soffice, come anche il suo tono di voce. E quell’improvvisa arrendevolezza aveva irritato Federico nel profondo, come se una serie di spilli avessero iniziato a pungerlo, e pizzicarlo, all’altezza dello stomaco, irritanti come le punture di insetto d’estate.
- Non hai mai pensato di prenderlo sul serio, allora? – Federico rigirò lo sgabello sul quale era seduto, puntando i piedi a terra per fermarsi di fronte a Samuele, in modo da averlo proprio di fronte. – Mattia ti piace. Non hai mai tradito Riccardo in otto anni di relazione, e adesso sì. Io mi farei due domande. –
Federico immaginava che, a quel punto, Samuele non avrebbe risposto, che avrebbe dischiuso la bocca, come per cercare le parole, ma che non avrebbe detto niente, limitandosi ad abbassare il capo in segno di resa. Invece, quando parlò era terribilmente lucido e sicuro di sé. Anzi, era irritato.
- Io e Mattia facciamo sesso, Federico. Solo questo, e lui lo sa, è stato lui stesso a ribadirmelo. Non gli piaccio io, gli piace il sesso. Non ci sono implicazioni, seghe mentali o complicazioni. Non c’è proprio niente da prendere sul serio. – Sembrava quasi frustrato, come se avesse ripetuto quella frase più e più volte a qualcuno che non voleva capire. Probabilmente a se stesso. – Io ho un compagno, e a giugno andremo a vivere insieme. Non appena lascerà sua moglie. Mattia…Mattia non lo so. È come se tutte le persone che ho attorno mi stessero consumando – soffiò. Era come se la voragine si fosse chiusa, e fosse rimasto solo un involucro esterno, un mulo testardo con i paraocchi. Federico non credeva proprio che fosse solo per il sesso: sorbirsi le paranoie di Samuele, i suoi sbalzi d’umore e i suoi sensi di colpa per il compagno tradito era davvero troppo per qualcuno che voleva semplicemente godersi un po’ di sano sesso senza impegno. Soprattutto per uno come Mattia: carismatico com’era, e non semplicemente bello, in una discoteca o in un bar avrebbe rimorchiato chiunque nel giro di dieci minuti. Per questo, probabilmente, l’idea che Samuele ci fosse andato a letto – o anche solo quella che potesse pensare di farlo di nuovo – per colmare il vuoto lasciato da Riccardo gli gettava addosso un velo di disagio e di irritazione.
- A me sembra invece che tu glielo permetta, alle persone che hai intorno –  rispose. Si alzò dallo sgabello, perché un’altra coppia di uomini era entrato nel locale, togliendo i guanti e i cappotti. - Ti ho conosciuto come un tipo sveglio e cazzuto, mentre adesso somigli tanto a Manfredi. E a Riccardo. Un codardo senza palle che ha paura di usare la bocca per parlare – gli snocciolò proprio davanti alla faccia. Samuele arrossì, ma non di un rossore timido, o imbarazzato. Era il rossore tipico di chi sta per tirarti un cazzotto in faccia. Si era sicuramente incazzato di brutto, ma gli sarebbe passata. – Così non mi piaci proprio. Io ho trovato il coraggio di lasciare Manfredi e riprendermi me stesso anche grazie a te, perché ti vedevo così maturo, e adulto, e mi davi dei buoni consigli, e volevo essere adulto e maturo anch’io, farti vedere che lo ero. A te, e anche a Dominik. Ma adesso sembri proprio uno senza palle, come Riccardo.  – Gli lanciò un ultimo sguardo. – Dominik mi dice sempre che gli ricordi il colore giallo. Per lui il giallo è luminoso, potente e caldo. È una sensazione bella. Se ti vedesse adesso, non piaceresti nemmeno a lui. Sei diventato grigio, Samuele, il colore peggiore di tutti, quello vuoto. –
Federico lo lasciò lui: il suo primo amico a Milano, l’uomo che aveva raccolto i suoi pezzetti e li aveva incollati ad uno ad uno, che gli aveva aperto le porte di una città nuova e che lo aveva avvolto in un abbraccio caldo. Non voleva dirgli quelle cattiverie, eppure era arrabbiato: era arrabbiato con lui, e con se stesso, perché fino a pochi mesi prima era stato così anche lui. Grigio e vuoto.
Gli sarebbe passata. Lo avrebbe lasciato riflettere, ma gli avrebbe chiesto scusa. Dopo, un altro giorno. In quel momento non riusciva a pensare ad altro che al desiderio di tornare a casa e di immergersi nel mondo colorato di Dominik e della sua musica, e sentirsi di nuovo leggero.
 
 
§§§
 
Quando tornò a casa, Dominik non lo stava aspettando sulla soglia, né lo raggiunse qualche minuto dopo.
Era seduto sul divano, con degli spartiti in mano e l’aria tesa. Si era sistemato di traverso, le gambe distese sui cuscini e la schiena poggiata ad un bracciolo.
Federico lo vide mentre si toglieva il giubbotto, lasciandolo all’ingresso.
Il riscaldamento centralizzato doveva essere acceso da un bel po’, in casa faceva caldissimo. Le guance di Dominik erano tinte di rosso, i piedi nudi distesi sui cuscini.
Si sentiva a casa, finalmente. Avvertiva la tensione di una giornata di lavoro scivolare via lungo la schiena mentre si spostava verso il divano e raggiungeva Dominik alle spalle.
- Ehi – lo chiamò, poggiando le mani all’altezza delle sue clavicole e abbassando il capo per baciarlo su una tempia. Ma Dominik fu più veloce, voltandosi verso la direzione della sua voce e reclinando il capo un po’ indietro, invitandolo a baciarlo. Quelle guance arrossate erano adorabili, e quando Federico lo baciò gli parve che le sue labbra fossero più morbide e dolci del solito, come miele.
- È già così tardi? – gli chiese. Aveva la voce un po’ roca, come se non parlasse da ore: probabilmente aveva trascorso tutto il pomeriggio a studiare o a suonare. I tasti del pianoforte erano scoperti, il panno copritastiera abbandonato sulla poltrona.
- Quasi ora di cena – rispose, seguendo con le dita il profilo delle sue clavicole, al di sotto del maglione. Lo sentì fremere lievemente. – Continua a studiare, faccio la doccia e poi preparo la cena. –
Sotto il getto dell’acqua calda, dentro la doccia, Federico si trovò a pensare a Manfredi.
Non sapeva perché, né perché proprio in quel momento. Non era arrivata nessuna telefonata da parte sua, né nessun riferimento in qualche conversazione con Milena o con i suoi genitori.
Forse era stato lo sguardo smarrito di Samuele, e la frustrazione che aveva sentito sotto la pelle mentre parlava con lui. Federico, in quella stessa situazione – vittima di un amore che faceva più male che bene – ci si era trovato imprigionato per anni, e persino in quel momento, quando gli capitava di pensarci, sentiva una lieve morsa all’altezza del cuore.
Non sapeva più nulla di Manfredi. Erano settimane che non lo sentiva, e ogni volta che pensava a lui lo rivedeva con lo sguardo perso e furioso di quando lo aveva lasciato a casa sua, prima di ripartire per Milano dopo le festività natalizie. Quando aveva baciato Dominik, quando si era lasciato avvolgere dal suo mondo fatto di buio e di colore.
Il fatto di sentirsi così bene, in quel momento, lo faceva sentire in colpa, come se avesse inglobato in parte la sofferenza del suo migliore amico, del suo amante, e non fosse in diritto di essere felice perché lui era lì e un pezzo di anima si stava lentamente dissolvendo. Anche una parte di lui, senza che avesse potuto farci niente, era rimasta a Palermo, nel letto di Manfredi, nella sua automobile, nel loro pub preferito e nel loro angolino in spiaggia dietro a quei grandi scogli: e stava morendo lì, consumata dal dolore e dalla lontananza.
Uscì dalla doccia, indossando l’accappatoio: si era creato un velo di vapore, sullo specchio, e anche sulle mattonelle alle pareti. Quando spalancò la finestra, un soffio di aria fredda lo investì in pieno, provocandogli la pelle d’oca sullebraccia, e sulla schiena, mentre ancora si sentiva soffocare dall’aria densa di vapore.
Dominik gli dava quella sensazione: l’aria fresca, pulita, che lo sconvolgeva mentre era avvolto da una cappa soffocante.
Quando uscì dal bagno, vestito e con i capelli umidi, lo vide ancora sul divano con i suoi spartiti: non poteva dire se fossero gli stessi di prima o meno.
Decise di non disturbarlo, resistendo all’impulso di piombargli addosso e riempirlo di baci: conoscendolo, gli avrebbe mollato un calcio, stizzito, prima di cedere al languore del desiderio.
Federico sorrise, mentre, in cucina, tirava fuori quattro uova e gli ingredienti per preparare un’insalata. Aveva voglia di un’omelette, con dentro un bel po’ di prosciutto e formaggio. Dovevano esserci anche dei funghi, da qualche parte in frigo.
Aveva appena iniziato ad affettare le carote per l’insalata quando Dominik apparve sulla soglia, attirato probabilmente dall’odore del burro che aveva iniziato a fondersi nella padella sul fuoco.
- Uhm, che profumo…Cosa cuciniamo? – chiese, raggiungendolo alle spalle e sfiorandogli la schiena con una mano. Se non avesse avuto le mai occupate, Federico l’avrebbe intercettata per baciarla, proprio sul palmo, dove l’odore della pelle di Dominik assumeva una sfumatura dolciastra.
- Omelette al prosciutto e una bella insalata – rispose, versando le rondelle di carote in un’insalatiera.
- Io cosa faccio? –
- Puoi venire qui a darmi un bacio, tanto per cominciare. –
Dominik sorrise, con l’aria un po’ dispettosa, ma dopo averci riflettuto qualche secondo gli si avvicinò, le dita distese nell’aria alla ricerca del suo corpo: quando lo incontrò, all’altezza del gomito, seguì il profilo del bicipite, della spalla, fino alla nuca, artigliandolo proprio lì. Lo baciò con le labbra già dischiuse, e fu come respirare di nuovo un soffio d’aria pura, scoprendo la punta della sua lingua che gli sfuggiva, quasi timida. Subito dopo, con la fronte ancora poggiata alla sua, avvertì sul viso il soffio del suo fiato mentre espirava.
- Com’è andata oggi? –
- Bene – rispose subito Dominik, mentre il suo viso si allontanava e lui sfuggiva. – Tanti esercizi. –
- E la tua maestra è rimasta contenta? – Dominik si strinse nelle spalle, scuotendo il capo.
- Come al solito. Lei non è mai veramente contenta. –
Federico avrebbe volto baciarlo. Afferrarlo a sorpresa, proprio sul viso, e premergli le labbra contro: baciarlo, fino a scorticargli le labbra, premere la fronte contro la sua e dirgli parlami, ti prego, dimmi qualsiasi cosa ma non lasciarmi fuori. Quella malinconica dolcezza gli scavava dentro alle viscere come se avesse gli artigli, e lui non poteva farci niente. Non poteva chiedere, non poteva parlare, non poteva pretendere.
Poteva solo stare lì, accogliere le brevi frasi che Dominik gli diceva, gli sprazzi di vita che gli concedeva, e lasciarlo fare.
Era così, Dominik, impalpabile come l’aria, impossibile da catturare e tenere tra le dita come l’acqua. E doloroso, a volte, come l’acido sulla pelle.
- A casa ho suonato Chopin. È bello suonare Chopin senza la maestra. È libero, e si colora. – Lo vide sorridere tra sé, le labbra distese e gli incisivi bianchi in bella mostra. Sul fuoco, le uova avevano iniziato a sfrigolare, liberando un odore che gli fece venire l’acquolina in bocca.
Federico prese il sale per condire l’insalata.
- Oggi ho litigato con Samuele. – In realtà non avevano proprio litigato, ma dirlo così sarebbe stato più facile per Dominik da comprendere. La sua espressione si fece subito corrucciata: nella sua mente, il fatto che uno come li potesse litigare con uno come Samuele doveva risultare impossibile.
- Perché? –
- Io…è un periodo un po’…particolare, per Samuele. E credo di avergli detto delle cattiverie, anche se a fin di bene. –
- Si possono dire le cattiverie a fin di bene? – gli chiese lui, interrogativo. Aveva messo un po’ il broncio. Federico spense il fornello e lasciò perdere l’insalata, facendo qualche passo verso di lui; quando gli poggiò le mani sui fianchi lo sentì sobbalzare, sorpreso.
- A volte, quando vuoi spronare qualcuno a migliorarsi, poi dirgli delle cose un o’ cattive. Per aiutarlo. Come quando l tua maestra ti dice che non sei abbastanza bravo, anche se non è vero. Così tu ti metti sotto a studiare per dimostrarle che ha torto. –
L’espressione di Dominik da interrogativa divenne corrucciata.
- Non è mai bello dire cattiverie. – Suonava quasi come un rimprovero.
- Alcune persone a volte ne hanno bisogno. – Come me, per esempio, gli venne da pensare.
Ma Dominik stava già pensando a qualcos’altro, l’espressione pensierosa, il silenzio che si dilatava intorno a loro. Sarebbe rimasto a guardarlo così per l’eternità, nelle palpebre chiuse e nelle labbra dischiuse, come una musica sospesa. Tutto, di Dominik, era musica.
- Anche io ne ho bisogno? – gli chiese poi. Federico avvicinò il viso al su, sfiorandogli il naso con il proprio.
- Nessuno riuscirebbe a dire cattiverie ad uno come te – mormorò, mentre protendeva le labbra per baciarlo. Dominik si ritrasse un po’, l’espressione un po’ dispettosa.
- Tu sì – gli rinfacciò.
- Io? –
- Sì. Una volta mi hai detto che sono uno stronzo e che non facevo funzionare la nostra convivenza. E un’altra volta che avevo paura di vivere e che la mia musica sarebbe stata vuota.  –
Federico scoppiò a ridere, ricordandosi perfettamente dei loro litigi e delle loro incomprensioni, di quando era arrivato a Milano e si era trovato a dividere l’appartamento con un alieno che non sopportava proprio, fino a quando non si era lasciato avvolgere dalla sua musica e aveva iniziato a vedere il mondo come lui.
- E, va beh, ma allora eri insopportabile, mi hai quasi costretto a dirti quelle cose! – lo prese in giro, dandogli un buffetto sul viso.
- E adesso le pensi ancora quelle cose? – lo incalzò. Aveva l’espressione seria, ma aveva portato le braccia sulle sue spalle, ad avvolgerlo in un abbraccio caldo, il viso vicino al suo.
- Insopportabile lo sei ancora. – Gli pizzicò un fianco con una mano, piano, sentendolo sobbalzare e schiacciare il petto contro il suo. – Però no, non penso più che tu abbia paura di vivere, e la tua musica non è vuota. Ero io che non sapevo vederci dentro. –
Dominik sorrise, soddisfatto della risposta e addolcito dalla carezza di Federico lungo la schiena, sotto il maglione, a contatto con la pelle tiepida.
- Invece sei tu la persona a cui nessuno potrebbe dire cattiverie – lo sentì dire poi, in un sussurro così caldo che fu come essere riempiti, nelle vene, di lava bollente. Anche il suo fiato, con il viso, sembrava bruciare.
- Eh, sapessi invece quante me ne hanno dette! – 
- Non capiscono proprio niente. –
Il suo bacio arrivò morbido, preceduto dal cauto avvicinarsi delle labbra che si sfioravano fino a trovare l’incastro giusto: Dominik lo baciava con la solita ingenuità mista a sorpresa, e ad ardore, insieme a qualcosa di malinconico e lento che fluiva tra le sue labbra.
Lo avrebbe baciato così per ore, la mano sulla sua schiena a sentire il morbido movimento dei suoi respiri, e le sue mani...le sue mani sulla nuca, tiepide, che gli percorrevano la pelle in carezze morbide, solo per sfiorare e non per studiare, solo per assorbire, un’essenza, un’emozione, un colore.
Tutto quel calore si condensava nel petto, nelle dita, nel ventre e si trasformava in desiderio, ma desiderio soffice di essere spogliato e percorso da quelle dita, e studiato, di avere tutto il tempo del mondo per essere cullato da quei respiri e per sentire il cuore scoppiare e uscire fuori dal petto.
E all’improvviso finiva tutto con il telefono che squillava nella tasca.
Sul display, il nome di Milena, accompagnato da una sua foto dalla faccia buffa, che le aveva scattato proprio lui quasi un anno prima.
Avrebbe potuto non risponderle, riprendere a baciare Dominik e perdersi così nel buio. Ma quella magia, il filo di quel desiderio, erano ormai andati perduti, come se fossero stati qualcosa di talmente intimo da essersi dissolto in un battito di ciglia.
- È mia sorella – borbottò. Dominik stava sorridendo, come se fosse divertito. Gli diede un pizzicotto, sull’addome, a quale lui sfuggì subito facendo due passi indietro.
-Pronto? –
- Federico! – La voce di Milena, attraverso il telefono, era come un trillo acuto, e sapeva di casa, delle lasagne di sua madre, del sole di Palermo, dell’odore di calore e di sabbia e di mare che si respirava d’estate, del sudore sulla pelle ad agosto e delle luci sui balconi a Natale. – Cosa stai facendo, stronzetto? Non ti fai mai sentire! – lo rimproverò, ma l’allegria nella voce.
- Ehi, ho lavorato un sacco in questi giorni, e poi mamma mi chiama quattro volte al giorno e mi parla sempre di te! – La sentì ridere all’altro capo: doveva essere a casa, gli sembrava di sentire il suono ovattato di un televisore.
- Ho una notiziona, Fede! Vengo su a Milano per un convegno di genetica forense, importantissimo, una figata! Insomma, vengo a trovarti, posso restare da te, no? Non mi farai dormire in albergo, vero? –
Improvvisamente, stava sudando freddo.
Vedeva Milena, a casa sua, insieme a lui e a Dominik. La vedeva scoprirli dormire insieme, qualche vestito di Dominik slla poltrona in camera sua, i loro baci. Vedeva Milena all’interno della loro vita, e stesso piombare nel buio.
Milena non sapeva niente.
Nessuno sapeva niente.
Non era più libero. Palermo, e l’angoscia, e il terrore di essere scoperto, e le bugie, stavano tornando a tormentarlo.
- E quando verrai? –
- Il prossimo venerdì! –
- Ah, è perfetto! -  
Poco più di una settimana, e la sua bella nuova vita sarebbe andata in frantumi.





Nota al capitolo 42:
E' passato decisamente troppo, troppo tempo dall'ultimo aggiornamento. Quasi un anno, senza rendermene conto.
Un anno di esami, problemi vari e di impossibilità di scrivere.
Il mio pensiero è sempre stato su questa storia, ma ho trascorso dei mesi - chi mi segue su facebook lo sa - in cui il blocco dello scrittore mi ha vinto, e di fronte alla pagina bianca di word mi sentivo quasi soffocare.
Vi ringrazio tutti per l'affetto ele bellissime recensioni, e per le bellissime parole che mi dedicate ogni giorno: mi impegnerò per riprendere bene le fila di questa storia, e aggiornare il prima possibile, ma certamente questa storia non verrà mai abbandonata. E ringrazio voi per non averla abbandonata, per averla tenuta viva e per aver dato corpo a Dominik, a Federico, a Samuele, a Mattia e a tutti gli altri personaggi.
Mando un bacio a tutti voi, con la promessa di aggiornare prestissimo con il nuovo anno.
Se volete contattarmi, mi trovate su facebook o qui su efp, seppure entro più raramente.
Vi lascio con i miei migliori auguri per il nuovo anno, che sia sempre migliore del precedente.
Un bacio!


 
   
 
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