Di
ferro, fuoco e speranze.
Capitolo 1: La regola delle ventiquattro ore –
parte prima.
«Non riuscirete a zittirci!».
«Non avete alcun diritto di trattarci in questo
modo!».
«Chi siete per stabilire cosa possiamo e cosa non
possiamo fare?».
«Che cosa chiediamo?»
«Libertà!» «A cosa non rinunceremo?» «Ai nostri diritti!».
Le voci della folla
continuavano a sovrapporsi e il clamore cresceva ad ogni passo che questa
aggiungeva alla propria marcia. Lo scalpitio aveva un ritmo tutto suo e
lentamente i vari partecipanti si erano adeguati a esso, diventando una cosa
sola, una forza lenta che credeva di essere inarrestabile.
«Non staremo
esagerando?». La voce di Jehan era titubante, più per paura che per la
timidezza che in lui era sussurrata dalla leggera introversione dei poeti. Era
la prima volta che usciva dalla propria stanza dopo l’ultima crisi, mesi prima,
e rimaneva dell’idea che fosse troppo presto, che ci fosse troppa gente. Che
sarebbe stato un disastro. E sarebbe stata colpa sua.
La mano di Courfeyrac
sulla sua spalla gli provocò un’ondata di rassicurazione e calore, giallina,
come le prime luci dell’alba e il poeta sorrise di rimando al viso
incoraggiante dell’amico, mentre quello cominciava ad intonare la prima strofa
di una canzoncina che da giorni ormai si era sparsa tra la gente.
Tra quelli come loro.
Era mezzo passo avanti al
poeta ora e Jehan poteva vedere chiaramente la leggera gobba che il lungo
impermeabile beige non riusciva a nascondere del tutto – s’incupì, perdendo il
sorriso ora che l’amico non poteva vederlo e sospirò piano, continuando a
marciare. Che cosa sarebbe successo? Per quanto sarebbero potuti andare avanti
in quel modo?
Pochi passi più avanti,
Combeferre affiancava Enjolras, tra i primi di quella marcia, con una grossa
bandiera bianca, appena sfilacciata ai bordi e la sua giacca rossa. Lo si
poteva vedere da qualunque posizione, splendente nella sua serietà, ardente nei
suoi ideali. Jehan poteva sentire la
convinzione che lo animava. E sapeva di rosso, come lui.
«Quantomeno, i boulevard
ci permettono di camminare liberamente», disse ‘Ferre guardandosi intorno – era
diventato stranamente suscettibile riguardo gli spazi personali e per quanto
fosse qualcosa di ironico data la posizione che gli Amis de l'ABC ricoprivano in quella situazione, gli faceva piacere
che quella situazione non si fosse trasformata in una turba pressante di gente
senza alcun ordine.
Enjolras, dal suo canto,
lo fulminò con lo sguardo facendo ridere l'amico che, doveva ammetterlo, almeno
in parte voleva solo provocarlo. La marcia impedì al leader di cominciare una
filippica sul significato e l’origine dei boulevard – qualcosa che comunque
Combeferre conosceva troppo bene; agitò la mano come a dire “sai cosa
l’intendo” e guardò avanti di nuovo concentrato.
«Mi sembra di aver visto
Joly», intervenne Courf raggiungendoli con Jehan - il poeta ora aveva una
strana sensazione che correva sotto pelle e lo sguardo serio e ponderato che
Enjolras gli rivolse non lo aiutò per nulla, per quanto sapesse che non lo
faceva di proposito, che era il suo modo di agire e mostrargli affetto.
«Credevo sarebbe rimasto
con Bossuet», disse, sforzandosi di rilegare nel profondo quel fastidio e
cercando anche lui con gli occhi l'amico. Joly, effettivamente, stava provando
a farsi strada tra la gente, tagliando trasversalmente la folla con
un'espressione contrariata. Dietro di lui, Bossuet era ancora più paranoico del
solito e si scansava quando qualcuno gli si avvicinava troppo, attento a non
inciampare o urtare nessuno. Enjolras li guardava e vedeva chiaramente le
differenze rispetto a quando erano da soli, quand'era al sicuro.
«La tua faccia è fin
troppo eloquente, Joly», scherzò Courf quando i due li ebbero raggiunti.
«Con così tanta gente
sarà un miracolo non beccarsi qualcosa», si lamentò quello continuano a
guardarsi intorno, quasi fosse capace di vederle poi le malattie, i germi e i
batteri che passavano tra la gente.
«Non credi sia ironico
che a preoccupartene sia proprio tu?»,
proseguì 'Ferre, pur notando come Enjolras cominciasse ad agitarsi - e sintomo
erano solo gli occhi che famelici guardavano ovunque, ma restava un segno che
non sfuggiva a chi lo conosceva bene.
Joly gli scoccò uno
sguardo risentito: perché nessuno di loro riusciva a comprendere l'importanza
della cosa? Dio solo sapeva se, data la loro condizione, anche le più semplici
malattie non potessero avere effetti sconosciuti e pericolosi su di loro.
«Siamo ancora in tempo?»,
intervenne allora Bossuet, facendo scivolare l'argomento su altro e salutando
tutti con un sorriso.
«Sempre», fu la risposta
sincera di Enjolras – aveva intimamente sperato, nonostante tutto, che ognuno
di loro fosse presente e il fatto che li avessero raggiunti significava molto.
Si mosse in avanti, raccogliendo una bandiera rossa e con entrambe gridando
nuovamente parole di protesta.
La folla svoltò col corpo
sinuoso di un serpente verso sinistra cominciando a percorrere la fine di Rue Soufflot e davanti agli occhi dei
manifestanti apparve l’imponente struttura del Pantheon di Parigi, fiero e
troneggiante nella piazza in cui la manifestazione doveva giungere. Jehan sentì
una fitta all’altezza del petto alla vista di quel bellissimo monumento,
custode di tanti patrioti, artisti, menti eccelse, ora in tal modo infangato da
un simile orrore.
Infatti, proprio alla
sinistra del Pantheon, a fargli ombra e oscurarne la bellezza e il magnifico
significato, in quella che fino a pochissimo tempo prima era la grande
biblioteca Sainte-Geneviève, era
stato inaugurato da qualche giorno il CCM. Centre
pour le contrôle des mutants. Il semplice suono di quelle parole nella
mente di Enjolras provocò un moto di sordo disprezzo, qualcosa di vicino l'odio
cieco, che il giovane non aveva mai provato e che gli faceva ribollire il
sangue nelle vene. Infangava tutto quello in cui credeva, tutto quello che di
buono c’era negli ideali della sua Patria, tutto quello che quella parte della
capitale in particolare gli pareva rappresentare. Era la morte
dell’intelligenza, dell’orgoglio, del motto di libertà, uguaglianza e fraternità
con cui ogni cittadino francese aveva imparato a crescere.
Era cominciato mesi
prima, lentamente e in modo inesorabile: non erano stati capaci di accorgersi
di nulla e provare ora a cambiare la situazione a qualcuno sembrava già
impossibile; eppure, se c’era una sola cosa di cui essere certi era che
Enjolras non si sarebbe arreso, non fino a che avesse avuto fiato in gola e
luce negli occhi. Perché nessuno poteva decidere di strappare loro libertà e
indipendenza in quel modo - facendolo apparire, poi, come un atto dovuto.
Perché la loro differenza, i loro geni mutanti non li rendevano meno cittadini
di Francia.
A detta di Joly, il gene
dei mutanti doveva avere avuto vita da sempre in determinati soggetti, ma, di
fatto, la situazione non era diventata tanto evidente se non dopo la Grande
Guerra e quella ancora peggiore che l’aveva seguita, quando giunti all’ultimo
pericolo svariati soldati avevano dovuto esporsi e la diversità era stata
infine portata alla luce del sole.
A quel punto avevano
cominciato con la classica diffidenza con cui si guarda il diverso: la prima
reazione era stata quella di tenerli a debita distanza e bollarli. Degenerati -
mutanti. E in fondo, Enjolras non s’era mai aspettato qualcosa di diverso: la
storia dell'umanità era costellata di reazioni simili e sapeva bene che tenersi
a distanza era il primo passo per analizzare e comprendere.
Ma le cose non erano
andate come sperava. L'uomo non aveva imparato a capire ma a temere. E la
diffidenza si era trasformata in paura e la paura in odio. Sotto lo sguardo di
chi fino a poco tempo prima era stato un semplice essere umano, la razza normale aveva stabilito il pericolo e
preso le adeguate contromisure.
Tutto era partito dalla
Russia. In piena guerra fredda, alla fine degli anni '50, aveva stabilito che
la questione dei mutanti era più importante della lotta agli Stati Uniti – o
forse solo un mezzo per continuarla – e aveva istituzionalizzato i primi Centri
di Controllo. Uno slogan recitava "sicurezza e rispetto della
persona" ma in realtà era ben noto a tutti che chi passava dal grosso
cancello in ferro battuto di uno dei Centri non ne sarebbe mai più uscito - o
almeno non allo stesso modo di come era entrato. Avevano preso a girare storie
su quei posti nei bassifondi di Mosca, storie terribili che nessuno ormai aveva
più il coraggio di raccontare, storie che mostravano l'orrore della razza umana
a soli pochi anni dalle oscenità dei lager e dello sterminio organizzato degli
ebrei.
«Siamo come il popolo
semita» aveva detto una volta Jehan, mentre gli occhi di Feuilly scintillavano
di dolore vivo «Jasenovac e Auschwitz ancora non hanno smesso di piangere i
loro morti che l'umanità decide di non aver ancora toccato il fondo».
La situazione, dopo
l’iniziativa della Russia, era degenerata in breve e - complice la guerra
indiretta che questa combatteva da anni con l'America - era stato fin troppo
facile stabilire quali paesi fossero a favore e quali contro la libera
circolazione dei mutanti e il mantenimento dei loro pieni diritti.
L’Europa si era spaccata.
Situazione inevitabile, la cui ombra incombeva da anni ormai, ma che pareva
aver preso maggior vigore proprio grazie all’emergere di quella questione. Le
prostrazioni per l’ultima mostruosa guerra ancora impegnavano cuore e menti di
ogni sopravvissuto eppure paradossalmente – o forse in semplice conseguenza –
schierarsi contro chiunque avesse geni mutanti era stato facile, quasi potesse
eliminare il problema, quasi non si volessero avere altri pensieri per la testa
e prima quella complicazione fosse stata risolta, migliore sarebbe stata la
vita per tutti. I filo-russi avevano
divorato territori e conquistato popoli, avevano reso gli animi ardenti e le
menti fisse su un unico pensiero: trovare, scovare
ogni mutante e tenerlo sotto controllo, bloccarlo in strutture apposite,
studiarlo e col tempo renderlo innocuo.
Gli Amis fremevano a quelle parole, la concezione che avevano di loro,
il fatto stesso che esistesse un loro
da contrapporre a un noi era una
ferita che continuava a riaprirsi, ma che dava a tutti la forza di battersi per
quello che era giusto, per un ideale di uguaglianza e libertà che il mondo
spesso dimenticava e ancor più spesso decideva di strappare.
E tuttavia, l’avanzata
della Russia, che in un primo momento pareva essersi arrestava nel centro della
Germania – all’altezza di quell’enorme taglio ancora fresco che il Muro di
Berlino rappresentava e che feriva e uccideva con la sua semplice staticità e
la freddezza di una sentenza eterna – negli ultimi mesi aveva mosso nuovi
passi, strappato nuova carne e inciso con gli artigli fin nel profondo, fino
quasi al cuore di quegli ideali che l’Intesa s’era tanto impegnata a difendere
in tempo di guerra.
Nasceva un Centro di
Controllo a Parigi. Sotto gli occhi di chi da lontano combatteva e sosteneva i
compagni in altre Nazioni, a pochi metri dalle loro case, a un soffio dalle
loro vite. Da un giorno all’altro s’erano ritrovati dei vecchi palazzi
trasformati e attrezzati per contenere le minacce mutanti – certamente un
progetto segreto che da qualche tempo, forse anni, era stato portato avanti e i
giovani rivoluzionari non riuscivano davvero a spiegarsi come fosse stato
possibile far passate tutto in sordina, non sentirne il freddo alito di morte
addosso, sempre più vicino.
Il governo aveva ceduto,
spezzato. Soppiantato da chi già da mesi al suo interno si schierava contro
qualunque apertura ai mutanti, dopo un simile colpo non aveva potuto strappare
neanche un attimo di più di vita e si era arreso a un rovesciamento inevitabile
ma non per questo meno doloroso. Era stato l’inizio della fine.
L’America aveva ceduto.
Non c’era stato modo di controllare quell’improvviso rivolgimento e prevenire
una nuova guerra di livello mondiale aveva avuto la meglio sulla difesa e
l’aiuto della semplice e piccola Francia. Con ogni certezza, da quel momento le
probabilità del blocco Sovietico di conquistare nuovo territorio sarebbero
state quasi nulle, ma perché la cosa non lasciasse reali dubbi, le forze degli
U.S.A. avevano innalzato con cordone
sanitario lungo i confini della nazione francese, abbandonandoli in pratica
a se stessi. Le bombe atomiche facevano paura, più del lento logoramento di un
intero popolo.
E che fare, allora?
Enjolras, Courfeyrac e Combeferre s’erano ritrovati d’accordo
sull’impossibilità di andare avanti in quel modo e gli Amis dell’ABC avevano deciso che da quel momento in poi non
avrebbero concesso più tregua all’odio della gente e ai piani di sterminio che
presto o tardi sarebbero giunti.
Enjolras fissava
l’imponente edificio bianco davanti a sé mentre continuava la marcia e solo
quando le dita si rilassarono attorno alle aste delle bandiere che ancora
stringeva in pugno si rese conto di quanto si fosse fatto trasportare da quelle
emozioni. Sentì chiaramente la presenza di Jehan alle sue spalle e sorrise in
modo quasi impercettibile. Stava badando a lui. Jehan a modo suo badava sempre
a tutti.
Era stato il primo a
trovarli - erano passati anni ormai: allora c’erano solo Courf e ‘Ferre, e Jehan
li aveva trovati un pomeriggio come tanti, mentre passeggiavano lungo il
boulevard, discutendo di diritti del popolo e di una strana sensazione di
pericolo che veniva dall’est. Prouvaire si era avvicinato a loro senza alcuna
esitazione, con un bel sorriso e gli occhi luminosi.
«È la prima volta che
incontro qualcuno dal colore tanto
netto», aveva detto, certo che loro avrebbero capito, che fossero le persone
giuste con cui parlare tanto apertamente. Ed Enjolras qualcosa l’aveva intuito,
mentre Courfeyrac scoppiava a ridere e Combeferre lo guardava perplesso.
«Intendo dire», aveva
continuato Jehan «Che quello che vi anima è molto puro. Sento… decisione e
voglia di libertà e speranza. Sono molto forti. Vi rendono luminosi e definiti
in ogni istante, a prescindere da tutto che proviate».
Il poeta parlava per
metafore e il filosofo era stato il primo a comprendere davvero.
«Puoi sentire quello che
proviamo?», aveva chiesto in un sussurro cui Prouvaire aveva annuito.
«Le emozioni mi appaiono
come colori, e le vostre sono nette.
Vi ho percepiti da quando avete svoltato l’angolo», aveva spiegato ancora il
poeta indicando la strada, mentre si univa alla passeggiata degli altri «Le ho
ancora davanti agli occhi, risplendono di rosso, verde e azzurro. Posso
sentirle e vederle. E alle volte…» parve incupirsi per un istante prima di
continuare «Alle volte posso condizionarle».
Jehan lo aveva rivelato
come si rivela un delitto, ed era stato il sorriso di Courfeyrac a dargli di
nuovo la calma di cui aveva bisogno: in fondo si era aperto a dei perfetti
sconosciuti perché sapeva di potersi fidare e quel gesto non aveva fatto altro
che dargli una conferma. Dopo qualche passo si era fermato, di nuovo
tranquillo.
«Perdonatemi, sono stato
scortese a parlarvi senza neanche presentarmi. Sono Jehan, Jehan Prouvaire».
Aveva allungato la mano verso di loro e mentre la stringeva, gli era parso di
conoscerli da sempre, da essere stato sempre intimamente connesso a loro.
Da allora, non si erano
mai più separati. E anzi a loro si erano uniti altri ragazzi, tutti con quella
stessa speranza che Jehan aveva sentito nel boulevard del loro primo incontro,
tutti luminosi nel loro alternarsi di chiaro e scuro, certi di combattere per
quel po' di bene che c’era ancora nel mondo, per la libertà che a nessuno
dovrebbe mai essere negata e per il futuro.
«Sono armati».
La voce di Bahorel arrivò
d’improvviso alla sinistra di Enjolras e il ragazzo spostò la sua attenzione
alle file di soldati schierate davanti al palazzo. Bianche come le pareti che proteggevano,
indistinte, unite e quasi confuse nel ruolo che erano chiamate a ricoprire;
protette com’erano da caschi, a quella distanza era impossibile distinguerne la
fisionomia del volto, l’età, quello che provavano e che gli occhi forse
avrebbero lasciato trasparire. Enjolras si chiese se avessero la sua stessa
età, se frequentassero la stessa università che fino a poco tempo prima aveva
frequentato anche lui, perché fossero dalla parte opposta ora, che cosa li
avesse convinti a schierarsi contro di loro. Perché avessero scelto un “loro”
anziché lottare per un “tutti”.
Se lo chiese per
pochissimi istanti, tuttavia, perché non gliene furono dati altri, perché la
situazione precipitò improvvisamente e con violenza in un disastro come mai
fino ad allora ne avevano vissuti.
Spari. Nessuno dei
ragazzi seppe dire se provenissero dalle file dei manifestanti o dalle guardie
armate e dopo pochi istanti non ebbe più alcun senso capirlo.
«Non sparate!», gridò
Combeferre, facendosi avanti a spintoni tra la folla che cominciava a
indietreggiare spaventata e raggiungendo il leader mentre voltava la testa
ovunque per capire da dove fosse provenuto il colpo – se vi si potesse porre
rimedio. Ciò che vide lo terrorizzò: un uomo – il nuovo capo del governo? Il
direttore del Centro? Il capo delle guardie? – sembrava dare ordini che da
quella distanza non potevano essere sentiti ma che furono comunque abbastanza
chiari.
«Ci spareranno addosso…»,
sussurrò. E sì, la paura lo prese, perché non credeva che avrebbero
semplicemente potuto ucciderli in quel modo, sparare sulla folla informe;
perché aveva piena fiducia in quello che faceva ma… Fu solo un istante, solo un
attimo di esitazione prima di riprendersi, allo sguardo degli amici che lo
avevano affiancato, ma bastò.
Bastò perché Jehan era
poco lontano da lui. E perché la folla stava aumentando in rabbia e terrore.
Partirono nuovi colpi e la paura s’innalzò come le onde che s’infrangono
violente contro una scogliera. E più aumentava nei manifestanti più atterriva
Prouvaire. E più Prouvaire si lasciava condizionare da essa più,
automaticamente, la paura s’irradiava da lui a chi gli era intorno, sempre più
incontrollabile ed estranea, sempre più profonda, condizionandoli tutti.
Il poeta chiuse gli
occhi. Doveva distinguere quello che provava da quello che sentiva provenire
dall’esterno, allontanare ciò che non era proprio e controllare quello che gli
apparteneva. Courfeyrac e anche Enjolras gli erano stati accanto per settimane
nel tentativo di allenarlo alla moltitudine di sentimenti che simili situazioni
avrebbero portato eppure ora che si arrivava alla prima falliva miseramente.
«Se vogliono le armi,
avranno le armi!», sentì gridare – e la voce e l’ardore erano rossi: Enjolras
si preparava al contrattacco.
Il leader degli Amis era
stato l’ultimo, quand’era ragazzino con Courfeyrac e Combeferre, a capire quale
fosse nello specifico la sua abilità: la mutazione di Courf era stata da sempre
fin troppo evidente mentre a ‘Ferre – come a lui del resto – era servita una
spinta emotiva. Mentre però l’amico s’era lasciato condizionare quasi subito da
sentimenti tali da portare alla luce il suo potere, ad Enjolras era servito
tempo e la sua particolarità si era rivelata in modo improvviso e inaspettato. Aveva
17 anni, Courfeyrac, il naso rotto e lividi su tutto il torace e lui provava
una profonda rabbia. Il metallo aveva semplicemente reagito in risposta, prima
tremando, poi sollevandosi e schizzando da una parte all’altra della stanza
quasi ogni oggetto fosse improvvisamente diventato una molla. I due amici lo
avevano guardato appena spaventati, scansando di poco l’attacco di
suppellettili varie e poi gli avevano sorriso. Era probabilmente merito loro se
Enjolras non aveva mai avuto paura di quello che poteva fare.
Il ragazzo aprì le mani davanti a sé con fare sicuro e
cominciò istintivamente a sentire tutto il metallo che in un luogo tanto grande
lo circondava. Appariva sempre così, prima come un’accozzaglia informe di
possibilità, poi lentamente sempre più del dettaglio, come il vetro di una
lente che si posava su tutto ciò che gli stava intorno svelandogli peso,
grandezza, intensità richiesta per spostarlo. E pericolo. Enjolras impiegò più
tempo del previsto a individuare le armi e si accorse, con un certo disappunto,
che riusciva a percepirne solo i proiettili – le armi dovevano essere fatte in
plastica: leggere e difficili da controllare,
sembravano fatte a posta per lui.
I proiettili basteranno, pensò il ragazzo, senza
scomporsi e socchiudendo appena gli occhi. La nuova detonazione che partì dai
soldati fu solo rumore: i colpi si fermarono a mezz’aria, a meno di un metro da
chi aveva sparato e caddero al suolo come giocattoli rotti. Enjolras si voltò
verso quegli uomini con fierezza negli occhi, prendendo un grosso respiro ed
espirando poi con lentezza. Era l’emblema della calma mentre tutto intorno il
caos urtava e spingeva e gridava e scappava. Jehan si aggrappò a
quell’azzurrino, a quella sfumatura pastello che offuscava il classico rosso
con tutto se stesso e si credette salvo.
«Ho visto almeno quattro
persone ferite», sentì dire a Joly, che gli si avvicinava, per poi superarlo in
direzione di una ragazza accasciata a terra e con una brutta ferita a un
braccio. Bossuet, al suo fianco, guardava senza poter agire e la cosa sembrava
innervosirlo più del solito.
«Mi piacerebbe metter loro le mani addosso», aveva detto qualche
giorno prima, seduto a un tavolo con i pugni chiusi, in preda all’esasperazione
«Così almeno avrebbero un motivo valido
per perseguitarci».
Bahorel aveva riso prima
di dargli un colpo sulla spalla e il sorriso di Feuilly aveva cercato di
rabbonirlo.
«Faremmo solo il loro gioco», aveva detto
quest’ultimo, prima di salutarli uno a uno e partire – era il loro contatto col
mondo oltre la Patria da quando l’Europa guardava la Francia quasi con la
stessa diffidenza con cui avevano insieme guardato la Russia.
«E noi non possiamo permetterci sbagli. Libertà senza
violenza o i loro timori diventeranno fondati», aveva aggiunto
Combeferre seriamente.
Eppure in quel momento a
Bossuet importava davvero poco di ciò che era giusto e ciò che era sbagliato:
guardie francesi, guardie della Patria avevano appena sparato sul popolo - come
poteva non sentire rabbia animargli il sangue e odio gonfiargli il petto?
«Legle, ho bisogno di
aiuto qui».
La voce imperativa di
Joly lo distolse da quei pensieri furiosi e Bossuet gli si avvicinò, rivolgendo
alla giovane ragazza a terra il sorriso più disteso del suo repertorio,
nonostante fosse lui il primo a esitare: era la cosa giusta da fare o avrebbe
rovinato tutto come suo solito?
«La spalla è malmessa,
devi tenerla ferma mentre cerco di sistemare la ferita».
Joly, dal canto suo, era
concentrato su quello che doveva fare a tal punto da non rendersi conto di come
i tratti del viso della ragazza divennero se possibili ancora più tesi a quelle
parole. Bossuet non poté biasimarla per quella reazione, ma allo stesso tempo
si scoprì a sorridere dell’atteggiamento dell’amico, quasi fosse rassicurato
dalla sua metodicità e andasse intimamente fiero della cosa: ammirava il lato
professionale di Joly, la sua prontezza e il sangue freddo che mostrava in
qualunque occasione richiedesse il suo intervento.
«Stai tranquilla: sa
quello che fa», sussurrò con una certa spontaneità alla ragazza,
per poi chiederle con gli occhi permesso di reggerla, posando - con cautela –
una mano sul fianco e l’altra sulla spalla sana. Quasi tremava, ma cercò di non
darlo a vedere: avere quel genere di contatto con qualcuno senza correre alcun
rischio era una cosa cui non era ancora del tutto abituato; i guanti, che
impedivano qualsiasi percezione tattile - la morbidezza del cotone o il freddo
del tessuto forse umido, magari il rilievo delle cuciture all'altezza del collo
- ebbero il potere di calmarlo, rassicurarlo mentre avvertiva lo sguardo
dell'amico scrutare appena prima di tornare alla ferita.
«Il taglio non è molto
profondo», disse Joly prima di riportare gli occhi sulla ragazza, rivolgendole
un sorriso così sincero che quasi stonò con la serietà del corpo. «Ma devo
pulirlo per evitare che s’infetti e poi cucirlo. Brucerà».
Sia Bossuet che la
sconosciuta capirono perché Joly avesse chiesto aiuto quando questi tirò fuori
dalla borsa da medico una boccetta di vetro marroncina contenente del
disinfettante: nonostante fosse qualcosa di fragile da portar dietro e negli
ultimi mesi anche più difficile da procurarsi, l'aspirante medico non sarebbe
mai uscito senza, men che meno in simili circostanze.
La ragazza scattò in
avanti - ed avrebbe rischiato di peggiorare la ferita se Bossuet non l'avesse
tenuta - senza poter trattenere un grido quando Joly versò il liquido incolore
sul taglio insanguinato, tamponando e assicurandosi che fosse pulito prima di
prendere un ago sterile.
«Come ti chiami?», cercò
di distrarla Bossuet mentre quella teneva ancora gli occhi serrati e gli
stringeva un polso con la sua mano piccina resa forte dal dolore e
dall'istinto.
«M-Musichetta», rispose
lei con voce soffocata; Legle tolse il proprio peso dal suo fianco, anche per
lasciare spazio a Joly di operare e le prese la mano, stavolta stringendola
nella propria in uno strano tentativo di rassicurarla - la carnagione rosea di
lei faceva contrasto con il guanto di pelle mogano che fasciava la mano del
ragazzo.
«Abbiamo quasi finito,
Musichetta. Andrà tutto bene».
Impressionante come la
paura di un altro rese coraggioso chi avrebbe davvero raggiorni per
spaventarsi. Bossuet nel momento del bisogno, in quel preciso istante, si
sentiva coraggioso e sicuro di sé come non lo era da davvero tanto tempo – non
con qualcuno che non fossero gli Amis.
Joly intanto aveva cominciato a cucire con
cura e cautela il taglio, facendo attenzione a non far male alla ragazza e
chiedendole scusa quando invece succedeva.
«Se qui per... sostenere
la causa?».
L’aspirante medico non sarebbe
voluto sembrare così indeciso o timoroso nel parlare – fu certo, per un
istante, che lo sguardo risentito di Enjolras l’avrebbe fulminato se l’amico
fosse stato abbastanza vicino da sentirlo. E dopotutto anche lui era sempre
stato apertamente fiero di sé e della propria mutazione, eppure esiste qualcosa
nell’animo umano di tanto crudele e fragile da far sì che si sussurri quando si
potrebbe parlare ad alta voce e si gridino invece oscenità che la mente non
dovrebbe neanche pensare.
«Oh, no, io non…». Anche
nella voce della ragazza ci fu incertezza, ma durò poco «Non ho alcun potere,
no. Ma questo non m’impedisce di essere qui a… "sostenere la causa"».
Joly fu sorpreso dalla
determinazione che per qualche istante lesse negli occhi di Musichetta: sembrava
una ragazza tanto semplice e fragile, eppure in quel momento il medico trovò in
lei una forza che non si aspettava.
«E poi, se quelli che
chiamano “mutanti” sono affascinanti come voi due, ne vale ancora di più la
pena, non vi pare?», sdrammatizzò lei con una risata cui rispose quella sincera
di Bossuet – Joly fu felice di sentirle, entrambe.
«Ora però faresti meglio
a metterti al riparo finché le cose non si saranno calmate», suggerì,
aiutandola a stare di nuovo in piedi – aveva anche fasciato la ferita e ora non
c’era più molto che potesse fare «E dovrai far controllare quel taglio ogni
paio di giorni per almeno due settimane».
«Agli ordini», scherzò
Musichetta, lasciando il braccio di Joly che la sosteneva e regalando ad
entrambi i ragazzi un veloce bacio sulla guancia, prima di correre via – c’era
tanta energia, una forza vitale stupenda in un corpo così piccolo: vederla
correre regalò ad entrambi, d’istinto, una gioia genuina.
«Sei stato bravo», si
complimentò poi il medico, avvicinandosi a Bossuet, che minimizzò abbassando la
testa con un gesto della mano. «Alla fine è stato un bene uscire, non c'era
motivo di preoccuparsi», disse, finendo di sistemare la sua borsa - era
intimamente fiero dell'amico, del coraggio che aveva dimostrato: per chi come
lui sapeva, era tantissimo.
«Non c'era motivo, certo,
tranne che per il fatto che a momenti davo di matto. Fortunatamente, questi aiutano» ironizzò invece Bossuet
e si guardò le mani ancora fasciate dai guanti scuri.
Anche Joly le fissò: in
un attimo gli parve di tornare alla prima volta che aveva visto Legle. Correva,
scappava dall’ennesimo incidente che gli era capitato – perché lui e la
Sfortuna parevano essere amici dall’infanzia – ma stavolta le cose erano
diventate troppo serie, troppo velocemente, e avevano coinvolto anche altri,
nello specifico un ragazzo che poteva avere qualche anno in meno a lui e cui
era capitata la disgrazia di urtarlo, sfiorandogli una mano. L'aspirante medico
non aveva capito immediatamente che cosa fosse successo: dal punto in cui si
trovava, diverse decine di passi prima del luogo dell'incidente, non aveva
potuto vedere granché; era stata la voce di una donna, uno strillo acuto, ad
attirare la sua attenzione e in virtù del suo ruolo si era fatto avanti con
caparbietà, infilandosi tra la gente che si era radunata intorno alla povera
vittima.
«Fate largo, sono un
medico», aveva asserito con una sicurezza che mostrava quasi solo in quelle
occasioni e poi aveva tastato il polso del ragazzo privo di sensi sul selciato,
accorgendosi che il suo pallore si avvicinava terribilmente a quello dei
cadaveri su cui aveva studiato anatomia all'università. Il viso pareva smagrito
e gli zigomi un po' troppo pronunciati per essere semplice costituzione.
Con difficoltà e dopo
svariati secondi, Joly era riuscito a trovare un flebile battito, mentre
intanto da una delle macchine che si erano fermate erano scese diverse persone
fra cui un medico, tale Mobilier, che il ragazzo conosceva di fama. Solo a quel
punto - assicuratosi comunque che lo sconosciuto fosse ancora vivo - il ragazzo
aveva lasciato posto a chi aveva ovviamente molta più esperienza di lui e si
era fatto indietro, osservando il modo pratico con cui anche l'uomo lo
esaminava per poi decidere di portarlo al più vicino ospedale.
Voltandosi, infine, per
tornare sulla sua strada, Joly si era accorto di un ragazzo, tra la folla, che
guardava la scena con una paura negli occhi che il medico non riusciva a
giustificare: sembrava terrorizzato, lo sguardo fisso, i polmoni pieni d’aria
che il respiro bloccato sembrava aver deciso di non lasciare più andare. Era
stato l’istinto a guidare l’aspirante medico e a farlo muovere nel momento il
cui il ragazzo si era mosso, lasciando la folla in prima fila, cercando di
sparire in essa; lo aveva seguito senza dire nulla fino a che questi non aveva
svoltato in una traversa stretta e deserta.
«Aspetta», lo aveva
fermato, notando il sussulto con cui lo sconosciuto s’era bloccato sul posto
«Ti senti bene?».
«Mai stato meglio. Se
vuoi scusarmi, ora: andrei di fretta», aveva provato a liquidarlo quello, senza
voltarsi e coprendo la testa insolitamente calva con un cappello.
Joly non sapeva ancora
che Bossuet era pessimo a mentire perché spontaneo in qualunque cosa facesse,
eppure non passò inosservato il fatto che fosse una semplice scusa per
scappare. Prima che il ragazzo potesse effettivamente andarsene, l’aspirante
medico aveva annullato la distanza che li separava e lo aveva bloccato
prendendolo per un polso. Legle era stato scosso da un lungo brivido a quel
contatto e si era voltato di scatto, dibattendosi per liberarsi dalla presa.
«Non toccarmi! Non devi
toccarmi, lasciami!», aveva gridato – a Joly era sembrato tutto d’un tratto
impazzito ed era stato più lo spavento per quella reazione che le parole di
Bossuet a far sì che lasciasse la presa.
«Non ti tocco», aveva
cercato di calmarlo, alzando le mani e muovendosi con cautela ma senza
allontanarsi «Ma non agitarti, non voglio farti del male».
Legle però non lo stava
osservando: aveva preso a guardarsi il polso quasi Joly avesse potuto
lasciargli il segno con quella stretta neanche così forte. Quando aveva
riportato nuovamente l’attenzione sull’altro, questi lo stava osservando con
attenzione clinica, quasi lo stesse studiando.
«Per favore, lasciami
andare via: non sono qualcuno con cui vorresti avere a che fare», gli aveva
chiesto, come si chiede un qualsiasi favore.
«Sei stato tu a far del
male a quel ragazzo, non è così?».
«Non volevo!». Legle
sembrava nuovamente terrorizzato, ma allo stesso tempo gli occhi trattenevano
una consapevolezza strana: non era la paura di un bambino, ma quella di un
adulto che sa perfettamente con cosa ha a che fare e teme di timore fondato
«Succede, semplicemente. Se tocco qualcuno, è come se gli togliessi tutta
l’energia dal corpo. È per questo che non devi toccarmi, io-».
«Sei un mutante». In
quegli anni il termine aveva preso a circolare con circospezione ma sempre più
velocemente tra la gente di tutta Europa e anche oltre oceano pareva essersi
affermato come parola più adatta a definire chi era dotato di particolari
facoltà; tratteneva in sé, tuttavia, già qualcosa di un’accezione negativa e
suscitava quantomeno preoccupazione pronunciarla con la libertà con cui Joly
aveva fatto.
La sola cosa che, in quel
momento, aveva trattenuto Bossuet dallo scappare era stata la prontezza con cui
Joly aveva preso dalla borsa da medico che aveva sempre con sé una lama
sottile, segnandosi la pelle all’altezza del palmo della mano per poi mostrarlo
a lui. Qualunque domanda Legle era stato sul punto di fare era morta sulle sue
labbra alla vista di quel taglio rosso che si rimarginava velocemente, così
velocemente che appena qualche goccia aveva toccato terra.
Quando aveva rialzato lo
sguardo, Bossuet aveva trovato un sorriso caldo ad attenderlo.
«Dubito potresti farmi
sul serio del male. Sono come te», aveva sussurrato Joly.
Da quel momento era stato
tutto fin troppo semplice: avevano trovato qualcuno che effettivamente
comprendesse ciò che l’altro provava e non si erano mai resi conto di quanto ne
avessero avuto bisogno finché non era successo. Joly aveva imparato che Legle era
completamente diverso da come si era presentato: era cordiale ed affettuoso,
sempre allegro e pronto a sorridere; dove ci si sarebbe aspettata malinconia e
tristezza, Bossuet portava buonumore. Il solo momento in cui si offuscava era
quello in cui c’era troppa gente intorno a lui; Joly aveva capito che isolare
il corpo dell’amico poteva bloccare il suo potere e da allora Bossuet aveva
preso a indossare sempre un paio di guanti che l’aspirante medico aveva
comprato per lui; eppure la folla lo innervosiva e preferiva di gran lunga
passeggiare di mattina presto o la sera, quando le strade erano libere e l’aria
fresca. Joly lo accompagnava il più delle volte e Legle non poteva desiderare
altro.
Era stato durante una
delle loro passeggiate che avevano sentito parlare per la prima volta Enjolras:
la sua voce, gli ideali che esprimevano, la convinzione che la colorava, tutto
li attirò verso quello che sarebbe stato il loro leader in una battaglia che in
realtà avevano da sempre affrontato. Conobbero lui e conobbero gli Amis. Trovarono altri con cui poter
essere realmente se stessi e non avere mai paura di nulla, altri che avrebbero
voluto cambiare il mondo, proprio quando questo cominciava a fare un po’ più
paura.
I militari che sostavano
sempre più numerosi davanti al Centro di Controllo non sembrarono affatto
scoraggiati dal modo in cui Enjolras aveva annullato il loro fuoco. Stavano
dritti, incarnazione della disciplina, e attendevano ordini su come muoversi.
Allo stesso modo la folla, inizialmente sparpagliatasi per il principio di
scontro, ora era radunata a gruppi nella grande piazza e attendeva, sospettosa,
l’esito di quel temporeggiare.
Il leader degli Amis
aveva il bel volto serio rivolto verso i soldati e al suo fianco Combeferre e
Courfeyrac guardavano a destra e manca controllando la situazione – non erano
di certo i soli a portare avanti quel movimento e anzi potevano chiaramente
scorgere i comandanti di altri gruppi più o meno grandi controllare i propri
uomini nella loro stessa situazione di attesa; eppure a loro pareva di poter
muovere le folle, in un giovanile slancio di fervida presunzione, giustificata
se non altro dalla nobiltà degli ideali e dell’intento.
Proprio uno degli altri
leader, il Generale Blanchard, venne verso di loro col passo da soldato che lo
contraddistingueva: aveva militato nei tempi bui del secondo conflitto mondiale
e quando la Francia si era arresa alla potenza tedesca era rimasto fedele al
Generale De Guille, organizzando la Resistenza e rientrando a Parigi tra i
primi al momento della liberazione della Patria. Era stata la normale
prosecuzione di quel primo atto di libertà, per lui, decidere di schierarsi con
il popolo tutto, senza fazioni o discriminazioni, quando aveva deciso di
organizzare un nuovo gruppo di resistenza contro il nuovo governo e il CCM –
ancor più perché molti dei veterani che avevano combattuto con lui, bravi
uomini e forti soldati, rientravano nella categoria dei mutanti e di certo lui
non li avrebbe mai abbandonati.
«Ragazzo, la folla è
spaventata, resiste a stento. Sei certo di poter controllare i colpi delle
guardie?», chiese, rivolgendosi con un certo pragmatismo ad Enjolras.
«Finché i proiettili
saranno di metallo, signore, non avrò problemi», rispose quello, sicuro di sé,
mentre Joly e Bossuet si riunivano al gruppo: avevano soccorso diverse persone
ferite dal primo fuoco – solo per una di loro, un uomo sui cinquanta, non c’era
stato nulla da fare.
«Jehan, riesci a tenere
sotto controllo l’umore generale? Che nessuno faccia mosse azzardate, questo
non è un attacco ma una protesta pacifica – non avrebbero dovuto spararci
addosso». Combeferre sembrava il più risentito da quella situazione: mal
sopportava l’idea di un nuovo scontro a fuoco e ancora meno quella dei
cittadini francesi che si facevano guerra fra loro – gli eventi degli anni ’40
erano bastati come prova di un simile orrore e avrebbe fatto di tutto per
evitare che accadesse nuovamente.
Il giovane poeta, dal
canto suo, provò a sondare ciò che gli era intorno, lasciando che la propria
coscienza si espandesse a raggiera dal proprio corpo in tutte le direzioni ma
stando attento a sentire senza lasciarsi condizionare: raramente aveva a che
fare volontariamente con tante sensazioni diverse e davanti ai suoi occhi tutto
quello che sentiva si trasformava in un tripudio chiassoso e confuso di colori
più o meno intensi. Trattenne istintivamente il fiato, cercando di isolare le
emozioni più forti e più pericolose – odio, paura, rancore, esaltazione – tutte
micce di possibili attacchi dai colori scintillanti e le confuse con la calma
che fino a quel momento aveva cercato di contenere dentro di sé, tenue,
pastello ma indelebile. Come le onde leggere che lentamente confondono e
cancellano orme di passi sulla sabbia, la tranquillità di Jehan placò
l’intensità di quei sentimenti – il poeta percepì come cosa lontana, staccata
da sé, la mancanza di stabilità che il suo corpo per lo sforzo cominciava a
subire, ma Bahorel fu pronto a prenderlo per le spalle, tenendolo in piedi,
mentre Courfeyrac, di fronte a lui, non lasciava che i suoi occhi vedessero
altro se non il viso dell’amico, pronto a intervenire in caso ce ne fosse stato
bisogno.
«Così… va meglio…»,
sussurrò Jehan, quand’ebbe finito, con voce stanca: si scoprì assetato, mentre
la testa girava e la fronte era imperlata di sudore. Enjolras, accanto a lui,
lo ringraziò con un sorriso.
«Generale, crede che sia
possibile organizzare un incontro con chiunque sia ora al governo e al comando
del CCM? Tutto questo è semplicemente… assurdo, e la guerra civile è così-». Enjolras
avrebbe voluto dire anche che sapeva come si sarebbe conclusa se non fossero
intervenuti, ma lasciò che un termine tanto oscuro rimasse un suo pensiero,
solo un brutto incubo da evitare ad ogni costo. Era già successo una volta,
Enjolras voleva sperare che avessero imparato qualcosa da allora.
Il soldato guardò quel
ragazzo, lesse la fierezza nei suoi occhi, l’orgoglio di chi difendeva il
popolo e il conflitto di chi avrebbe voluto alzarsi per l’intera Patria. Per un
giovane del genere, una guerra civile era la peggiore: la Francia sarebbe
tornata a distruggersi dall’interno e allo stesso tempo i mutanti di tutto il
mondo sarebbero stati in pericolo.
«Non sono certo di quanto
potranno ascoltare le nostre parol-».
Blanchard non riuscì a
concludere le proprie parole. La situazione precipitò in un istante. Di nuovo.
Con sviluppi ancora più duri. I soldati caricarono rapidamente e puntarono
sulla folla: avevano ricevuto infine l’ordine – e di eseguirlo immediatamente.
Enjolras si preparò a neutralizzare i nuovi colpi senza battere ciglio, ma
sentiva che qualcosa non andava – attaccare due volte allo stesso modo era
stupido, sparare sulla gente non avrebbe avuto alcun effetto se non quello di
aizzare ancora di più contro di loro la folla e-
Gli spari. Il leader
degli Amis raccolse il suo potere ed alzò un braccio per indirizzarlo ma
accadde l’imprevisto: le pallottole sfuggirono al suo controllo, deviarono
curvando in traiettorie improbabili e fecero in gran parte centro. Decine di
persone si accasciarono a terra, ferite più o meno gravemente dai colpi e lo
stesso Enjolras si piegò, colpito a una spalla, mentre Courfeyrac, poco lontano
da lui stringeva gli occhi per una pallottola che gli aveva sfiorato la gamba,
senza ferirlo in modo serio.
Furono grida e fu terrore.
Jehan se ne sentì improvvisamente sopraffatto: esplosioni di colori e
sensazioni cui non era preparato, cui non sarebbe mai stato preparato, gli
riempirono gli occhi e il petto in una sinestesia asfissiante. Cacciò un grido
di dolore, stringendosi le braccia al petto, cercando un appiglio che gli si
era appena sgretolato tra le mani: anche Enjolras era trascinato dai sentimenti
della folla e tutto si riversava in lui come un torrente che distrugge gli
argini e invade la terra con furia. Prouvaire continuò a gridare, voce nelle
voci di paura e disperazione, finché fu troppo, finché non perse i sensi.
«Bisogna sparpagliare la
gente, bisogna sgomberare la piazza!», stava gridando intanto ai propri uomini
il Generale, scampato per chissà quale miracolo alle pallottole «Portate tutti
via!».
I soldati cominciarono
l’assalto, con bastoni e pistole, ferendo e colpendo senza badare a niente e
nessuno. Se per qualche istante chiunque era rimasto interdetto dalla loro
azione, il concretizzarsi della minaccia fu anche la scintilla che rianimò i
cuori di chi manifestava.
Bahorel seppe esattamente
che cosa fare e per la prima volta sentì che quel bizzarro potere che chissà
chi aveva deciso di dargli poteva essere utile a qualcosa. Non gli servì
concentrarsi, non gli servì catalizzare quello che provava: era tutto fin
troppo in superficie e tirarlo fuori fu facile come aprire una porta.
D’un tratto la piazza
scomparve, divorata da una foschia fitta e bianca che tolse a tutti la vista di
ciò che andava oltre il proprio naso; Bahorel respirò con pesantezza,
incrementando quanto più possibile la nebbia e sperando che quel cambiamento
atmosferico bastasse a dare a tutti il tempo necessario per scappare: era
chiaro ormai che quella fosse la sola cosa da fare, per quanto sarebbe stata
difficile non vederla come sconfitta e ancora più difficile riprendersi da un
simile colpo.
Il ragazzo mosse qualche
passo in avanti - lui poteva distinguere bene ciò che lo circonda: in fondo
quella nebbia era sua, come qualsiasi altra variazione atmosferica - e si piegò
verso Enjolras, che Joly stava sistemando al meglio nonostante i pochi mezzi a
disposizione.
«Approfitteremo del tuo
diversivo per assicurarci che tutti siano al sicuro», gli disse quello, senza
battere ciglio e quasi con la stessa risoluzione di sempre «Dobbiamo
separarci».
__________________
Buonasera! Se vi state
chiedendo che cosa mi sia passato nella testa quando ho deciso di pubblicare
questo primo capitolo, me lo sto chiedendo anche io! In realtà questa storia è
in progettazione da quasi più di un anno e in questi primi giorni di vacanza mi
sono resa conto che nella mia testa è abbastanza avviata da potermi concedere
di cominciare a pubblicarla. Spero che i fatti non mi smentiscano.
First things
first. Come già specificato nell’introduzione, non c’è bisogno di conoscere
l’universo degli x-men per capire ciò che seguirà: ho semplicemente preso i
poteri di quello scenario e li ho dati ai nostri rivoluzionari. Spero, poi, che
il setting di luogo e tempo risulti accurati (ci sto
impazzendo) e che non ci siano grossi scivoloni.
Questa storia sarà
lunghetta, investirà molti personaggi e diverse storyline
contemporaneamente nel corso dei capitoli, quindi mi scuso da ora se i primi
capitoli parranno un po’ lenti. Inoltre voglio avvisarvi che ci sarà angst. Oltre all’azione, oltre ai cliffhanger
e ai family!bro!feels, oltre al romantico, ci sarà angst. Lettore avvisato mezzo salvato.
Spero di riuscire a dare
giustizia ad ogni personaggio, con caratterizzazioni e storyline
degne di ognuno di loro. E spero, soprattutto, che la storia possa piacervi.
Cercherò di essere regolare negli aggiornamenti (che saranno ogni 7-10 giorni).
Detto questo, un
ringraziamento speciale va a Luna, Arianna, Ame e Mels (sì, tanta gente, perché
faccio pena in quanto a sicurezza sulle cose che scrivo) che sto assillando da
tempo con questa cosa e che mi stanno rassicurando con tanta pazienza.
Alla prossima.
Alch~