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Autore: gretamustdie    29/12/2015    2 recensioni
Frank vuole solo essere un ragazzo normale.
E' stufo di fingere di avere una famiglia perfetta. Stufo di non essere mai preso in considerazione. Stufo di non avere ambizioni. Stufo, semplicemente, di essere sé stesso.
Convive con la sua apatia, non trovando un senso in ogni azione compia, e si tormenta per il suo sentirsi costantemente fuori posto. Diverso.
Ma un giorno arriva una nuova famiglia nel quartiere e mai penserebbe che, da quel momento in poi, la sua breve esistenza verrà interamente stravolta.
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Dal capitolo cinque:
“Ma come fanno le persone normali a convivere con questo altalenare di umori? Come fanno a preferire il bianco o il nero al piatto grigio? L'apatia inizialmente mi spaventava, ma ho capito che non è poi male se paragonata al resto. Certo, quando assistevo alla felicità altrui un po' mi pesava, ma, si sa, è una cosa labile e rara. Quasi come una cometa: si ripresenta in cielo anche dopo secoli e non fai in tempo a godertela che già si è dissolta lasciando una misera scia che svanirà anch'essa, ma più tardi. Giusto per ricordarti quanto fosse stato bello prima del ritorno al buio.”
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[Il rating può subire variazioni.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bob Bryar, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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ANGOLO DELL'AUTRICE

Lo sto facendo? Lo sto facendo, davvero? A quanto pare sì, baldi giovini.
Che dire? Questa è la mia prima fanfiction Frerard, ma ci sto lavorando da circa un annetto. L'ho scritta a più riprese perché il 2015 per me è stata un'annata piuttosto pessima che preferirei archiviare. Ci sono stati periodi in cui scrivere, la mia passione più grande, era decisamente l'ultimo dei miei pensieri. Da qualche mese, però, mi son detta che fosse veramente uno spreco lasciare andare tutte le belle idee che avevo in testa, quindi ho ripreso in mano questa storia. Devo ammettere che i primi capitoli mi escono dalle orecchie, ormai, da quanto li ho letti, rivisti e perfezionati.
Il capitolo seguente è piuttosto statico, in quanto primo. Spero sia comunque di vostro gradimento.
Fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione, mi fareste un grandissimo piacere soprattutto se avete delle critiche da muovere o dei consigli da dare.
Grazie per l'attenzione,

Greta

 

CHAPTER ONE

Diverso e sbagliato

 

 

Una mattina mi svegliai stranamente in modo spontaneo, di solito mamma era costretta a torturare la porta della mia stanza per permettermi di andare a scuola ad un orario decente. Mi voltai verso la radiosveglia e scoprii di essere notevolmente in anticipo. Privo della voglia di mettere i piedi a terra ed iniziare a prepararmi, mi soffermai a riflettere fra me e carpii una cosa davvero insolita: non provavo nulla. Non ero felice, né triste e nemmeno rilassato o addolorato. Il vuoto totale. Non capivo cosa mi stesse succedendo, solitamente prima riuscivo a distinguere e catalogare le mie emozioni. Eppure, da quel giorno, la mia vita si è colorata di un denso grigio duro a morire e, giuro, ho provato in tutte le maniere a tentare di colorare disperatamente le mie giornate. Dopo un paio di mesi dalla nascita di questa consapevolezza, trovai il coraggio di chiedere a mia madre di cosa potesse trattarsi per far luce a tutti i dubbi maturati di conseguenza. Il mio tentativo fu pressoché inutile, dato che non mi dedicò più di tanta attenzione e mi disse che alla mia età era più che normale e che, essendo giovane, avevo tutto il tempo del mondo per poter sviluppare dei sentimenti o delle sensazioni talmente forti da poter essere percepite. Per quanto riguarda i sentimenti le diedi in un certo senso corda, però per i miei stati umorali no. Non credevo fosse normale il fatto che nulla riuscisse a toccarmi minimamente e che, invece di colpirmi, mi scivolasse addosso quasi fossi rivestito da uno strato d’olio. Ogni tanto i miei migliori amici se la prendevano con me, ma non mi arrabbiavo minimamente. Piuttosto, non me ne fregava niente e lasciavo che inveissero contro di me finché non si fossero calmati. Volevo davvero capire il motivo di ciò, per cui mi affidai ad altro: dove i genitori e gli amici non possono arrivare, vi arriva Internet. Mi iscrissi in un forum amministrato da medici, andai nella sezione ‘Psicologia’ e posi il mio quesito. Non so di preciso perché mi fossi rivolto alla scienza, probabilmente perché sentivo di avere qualcosa che non andava in me. Nonostante fingessi il contrario, non mi reputavo un ragazzo normale. Ero diverso e questo pensiero mi accompagnava fin da bambino, solo che, crescendo, si era fatto sempre più frequente. Descrissi, dunque, il mio problema con la sfera affettiva ed umorale ed il mio costante sentirmi a disagio in mezzo agli altri. Purtroppo la maggior parte mi rispose nello stesso modo di mamma dicendomi che questa sorta di apatia non fosse un fenomeno anomalo fra gli adolescenti e ne rimasi deluso. Eppure sentivo che non funzionassi nel verso giusto, qualche meccanismo era difettato. Quello che piaceva agli altri, a me spesso non piaceva. Tante volte mi trovavo a dover prestare ascolto, annoiato, alle storie di Ray, il mio migliore amico, con la sua cotta storica, Christa. Mi raccontava sempre di quanto fosse bello baciarla, ma al solo immaginarlo mi veniva il voltastomaco. Non perché Christa fosse brutta, piuttosto mi chiedevo cosa ci fosse di bello nel baciare una ragazza. Sono il primo ad ammettere che siano delle creature stupende, ma non mi sognerei mai di sfiorarne una nemmeno per sbaglio. Se penso alle donne mi vengono subito in mente le mie due sorelle, Paula ed Alex, oppure mia madre. Non farebbe schifo baciare una di loro? Non mi è mai piaciuta un ragazza. Poco tempo fa credevo mi piacesse Jamia, una mia compagna della classe di chimica, ma mi sono reso conto che forse mi ero infatuato più dell’idea di essere innamorato di qualcuno che di lei in sé. Sono confuso, molto confuso. Da quella mattina tutto è cambiato e a distanza di un anno e mezzo ancora non capisco in cosa consista il mio problema. Perché sono sicuro di averne uno, per non dire più di uno. Non riesco ad innamorarmi di nessuno, perfino Bob è quasi riuscito a trovarsi una compagna. Anch’io vorrei, ma al contempo non lo voglio. E’ strano da spiegare. Il mio provar nulla comincia a stancarmi, per colpa di esso sono inesorabilmente svantaggiato rispetto ai miei coetanei: hanno quasi tutti dato il primo bacio ed altri addirittura sono andati oltre, mentre il massimo che abbia sperimentato io è stato sfiorare per sbaglio la mano di un individuo dell’altro sesso. Eppure le farfalle nello stomaco di cui tanto si parla non le sento, il famoso calore che t’investe quando vedi una ragazza carina è una cosa a me sconosciuta anche perché, nonostante siano diverse, per me sono tutte uguali. Me ne vergogno assai. Ho paura che se la gente lo scoprisse, mi additerebbe come quello diverso e, anche se so di esserlo, non voglio passare per un fenomeno da baraccone. Per questo ho confessato a Ray di essermi preso una sbandata per Jamia, così sembrerò di sicuro un po’ meno strano anche se, secondo me, in fondo ha capito che l’ho fatto più per convincere me stesso. “Frank!”. Sussulto spaventato e ritorno bruscamente alla realtà: sono nel sottotetto polveroso di casa mia con le ginocchia conficcate nell'addome e le braccia avvolte attorno alle gambe. Tutt’intorno vi sono scatoloni, due vecchie sedie ed una cassettiera con dentro chissà quali altri oggetti. Sinceramente non mi sono mai domandato cosa vi sia all’interno, se vengo qua è solo perché desidero stare solo, anche se in questa famiglia è praticamente impossibile. Quanto rompono, non riescono a mettersi in testa che quando mi rinchiudo in soffitta non voglio essere disturbato. “Che vuoi?”, urlo di rimando, scocciato. E’ Alex, la mia sorellina di undici anni. La botola sul pavimento in legno che collega al piano sottostante si apre mostrando uno spiraglio di luce, dopodiché esso viene offuscato dal suo faccino paffuto incorniciato da una treccia ricadente lungo una spalla. Roteo gli occhi, questa è violazione della privacy in piena regola. “Perché ti barrichi in questo posto orribile? C’è una puzza di muffa assurda!”. Gradualmente la sua figura si erge dal buco per poi salirvi del tutto, si guarda attorno con circospetto tentando probabilmente di capire cosa mi spinga a recarmi qui quasi ogni giorno. “Ha importanza?”, chiedo arrogantemente. Incrocia le braccia al petto e mi fa la linguaccia, mi sfugge mezzo sorriso. In fin dei conti il rapporto fraterno si basa soprattutto sulle rispostacce e le prese in giro. “Mamma ha chiesto se vieni giù in salotto”. Aggrotto la fronte stranito, che vuole quella donna da me? “Se lo ha chiesto significa che è una domanda e se è una domanda significa che posso rispondere di no”. Inarca un sopracciglio contrariata. So bene che in realtà si tratta di un ordine e non di un invito, però tentare non costa nulla. “Perché dovrei?”. Fa le spallucce. “Che ne so”. “Ma ti avrà accennato qualcosa”, sbotto spazientito. Scuote il capo. “Mi ha solamente chiesto di farti scendere”. La fisso per alcuni secondi, poi sbuffo arrendendomi. “E va bene”, mugugno. Mi sorride trionfante e la tentazione di tirarle uno scatolone addosso diventa tanta, si fa un po’ più avanti e mi porge la mano. La squadro malissimo e mi dice: “Andiamo?”. Mi alzo in piedi da solo guadagnandomi una sua occhiataccia e raggiungiamo l’uscita del sottotetto. La faccio scendere per prima lungo la scaletta a pioli, dopodiché lo faccio io. Non appena a terra, afferro il bastone poggiato al muro e faccio pressione sulla botola affinché si chiuda. Rimetto lo strumento dov’era e c’incamminiamo lungo il corridoio in direzione della scala. “Comunque potevi anche degnarti di darmi la mano”. Mi alzo il cappuccio della felpa sulla testa. “Con me non trovi Paula”. Sospira. “Mi manca così tanto”. Terminato il tragitto, cominciamo a scendere al piano di sotto affiancati. “E’ andata al college, mica in guerra”. “Possibile che tu non riesca ad essere dispiaciuto per qualcosa?”. Siamo esattamente in salotto, ovvero dove mamma mi ha convocato. Mi domando cosa ci sia di così importante da interrompere qualsiasi cosa stessi facendo. “Sono solo realista”. Mi butto a peso morto sul divano e lei mi si siede accanto, involontariamente mi scosto leggermente appena sento i nostri corpi entrare in contatto. “Mamma mia, non sono mica contagiosa”. Poso il gomito sul bracciolo e mi sorreggo il capo con un pugno. “E chi ha detto niente?”. “Beh, ti sei appena allontanato da me”. Poso i piedi sopra il tavolino di fronte a me con nonchalance. “Guarda che noi ragazze non abbiamo mica qualche malattia”. Ma quanto è pesante quando ci si mette? M’infastidisce il contatto fisico e stare troppo vicino alle persone, è una cosa universale che comprende sia maschi che femmine. “Alex, non rompere i coglioni”. “Junior, cosa sono queste parole?”. Ci voltiamo verso l’arcata che collega questa stanza alla cucina: mamma ha appena fatto il suo ingresso. Ha un traversone legato alla vita e la lunga chioma bionda raccolta in uno chignonne. Annuso l’aria e noto che è impregnata da un buon profumo, deve aver cucinato qualcosa di dolce. “E soprattutto: quante volte devo ripeterti di non mettere i piedi sopra il tavolino?”. A malavoglia, li tolgo da dove detto, dinnanzi non ho più mia sorella e risponderle in maniera sgarbata corrisponderebbe alla mia fine. “Perché ci hai voluti qua?”. Mi giro verso Alex e la osservo confuso. Quindi voleva parlare sia con me che con lei? “Tranquilli, non è niente di grave”. Mi pare di avvertire la mia anima alleggerirsi, solitamente, quelle poche volte in cui ci deve parlare, non è mai per qualcosa di buono e, spesso e volentieri, sono io la causa di tutto. “Volevo solo dirvi che fra poco verrete con me a far visita alla nuova famiglia arrivata nel quartiere”. “C’è una nuova famiglia?”, chiede Alexandra. “Sì, sono arrivati un paio di giorni fa. Sono un po’ strani e per questo molti del vicinato hanno preferito rimanere nelle loro, ma non mi pare giusto che non abbiano un degno benvenuto, no?”. Assumo un’espressione contrariata mentre ascolto in silenzio, ma la nota subito. “Che c’è, Junior?”. Rimango fossilizzato una decina di secondi per incamerare bene la situazione, poi spiego: “Beh, prima cosa: magari sono degli psicolabili con precedenti penali, come puoi essere così sicura che quel ‘un po’ strani’ non sia qualcosa di peggiore? Se la gente li evita, un motivo ci sarà. Secondo: è una grandissima perdita di tempo. Perché mai dovremmo fare gli amiconi di persone che manco conosciamo? Ci viene qualcosa in tasca? Io dico di no. Ed ultimo, ma non ultimo: non puoi andare solo te, visto che ci tieni tanto? Perché immischiare me ed Alex? Già che ci sei, chiedi a papà di farsi un permesso di uscita anticipata da lavoro per l’occasione e telefoniamo pure a Paula avvertendola di venire di corsa. Morale del tutto? Questa cosa non ha senso, mi rifiuto di prenderne parte”. Soddisfatto di aver esplicato al meglio le mie ragioni, alzo lo sguardo incrociando quello di mamma che, contrariamente, sembra rimproverarmi. Che ho detto di male? Fin da piccolo mi hanno insegnato che fosse assolutamente proibito mentire ed ora non va bene nemmeno essere sinceri. Ed è ironico come i primi ad essere dei bugiardi impongano ai figli il contrario. “Innanzitutto ci tengo che ci siate anche voi per presentare la maggior parte della nostra famiglia, ma in particolare voglio che tu venga perché hanno un figlio della tua stessa età che, tra l’altro, frequenterà la tua scuola e sarebbe bello se avesse qualcuno con cui parlare almeno i primi giorni. Non trovo che sia un’azione inutile, penso piuttosto sia cordiale ed umile. E’ una tradizione dare il benvenuto nel quartiere ai novellini, ma in questo caso, purtroppo, nessuno si è degnato di fare loro visita. Mi spiace un sacco perché ho parlato con la signora per pura casualità e mi è parsa una tipa a posto. Infine, per l’altra cosa, credo ti faccia troppi problemi. Va bene valutare in base all’opinione comune, ma sono impressioni a pelle e, di conseguenza, nulla deve andar preso per certo. Diverso o strano non sono sinonimi di sbagliato, sono solo pregiudizi senza fondamenta”. Un fitta allo stomaco m’investe, una frase s’imprime nella mia testa come sia incisa con un ferro rovente: ‘Diverso o strano non sono sinonimi di sbagliato’. Io sono diverso. Io sono strano. Io, però, sono sbagliato. Ai ragazzi della mia età dovrebbe piacere divertirsi ed andare alle feste, mentre preferisco di gran lunga chiudermi nel sottotetto o suonare la chitarra e comporre canzoni. I sedicenni dovrebbero avere una modesta esperienza in fatto di donne, mentre io non so manco come fare per baciarne una. Una volta stavo leggendo una rivista e vi era un membro di una rock band con della matita nera a contornargli gli occhi, vedendolo pensai fosse una figata. Allora mi chiusi in bagno per provare a mettermi quella di mia madre e, dopo svariati tentativi fallimentari, riuscii ad ottenere un risultato decente. Mi piaceva, mi piaceva molto vedere le mie iridi verdi valorizzate da quel contorno intenso. Poi, quando stavo per rimettergli il tappo, mi soffermai a leggere lungo di essa: c’era su scritta la parola donna. No, ero un ragazzino. Avevo dodici anni ed ero un maschio. Perché il signore del giornale si era truccato? Non ero una donna. Feci scorrere l’acqua del rubinetto e mi sciacquai il viso tenacemente, volevo che anche il minimo residuo sparisse completamente. Ritornato alla normalità, mi ripromisi che non avrei mai più tentato di usare i cosmetici di mamma e così è stato: non guardo nemmeno per sbaglio il suo beauty case, da quel giorno. Ancora ricordo, però, quando mi stessero bene gli occhi cerchiati di nero. “…mi senti, Frankie?”. Rinsavisco e torno fisso su mia madre. “Sì, basta che non utilizzi più quel soprannome riferendoti a me. Chiamatemi per nome o al massimo Junior, detesto quel nomignolo irritante”. Sospira. Sarà la centesima volta che lo ripeto, lo imparerà mai? “Vero, colpa mia. E’ che quand’eri piccolo ti chiamavamo sempre così ed ora è difficile smaltire l’abitudine. Ogni tanto me ne dimentico”. Si dimentica di un po’ troppe cose, mi sa. Di tutto ciò che riguarda la sua prole, tanto per cominciare. “Infatti, ero piccolo e non capivo. Ora capisco che Alex ha un soprannome più mascolino del mio e la cosa mi snerva”. Mia sorella mi picchietta sulla gamba, ma ritrae subito la mano non appena la fulmino. “Frankie lo trovo dolce”. Regolo il respiro per non sbottare male, non devo incazzarmi. No, non devo. “Io lo trovo da femminucce, okay?”. “Quanto sei permaloso”, sussurra fra sé. “A me gli occhi…”, guardo mamma. “…Frank”. Bene, sta migliorando. “Non sono disposta a scendere a compromessi, tu verrai perché il mio è un ordine”. Allargo le braccia esasperato, non ci tengo proprio a fare questa cazzata. “Dimmi cosa devo fare per rimanere a casa, sono disposto a tutto: lavare i piatti per un mese, apparecchiare e disfare il tavolo per tre o fare la lavatrice per sei”. Ridacchia, divertita. Cosa suscita la sua ilarità in ciò? “Sono tutte proposte allettanti, ma sappiamo entrambi che non le porteresti mai a termine. Vado a mettere la torta in un contenitore, voi intanto rendetevi presentabili che fra cinque minuti usciamo”. Abbandona la stanza tranquillamente, non ci posso credere: ha vinto e pure con classe. Non lo posso accettare, no. Per ripicca non alzerò il culo da questo divano finché non tornerà e non me ne frega niente se non mi sono preparato per andare da questi nuovi vicini di cui manco so il cognome. “Non ti sistemi?”, domanda Alex che, nel frattempo, si è già messa in piedi. Con molta pacatezza mi volto verso di lei e le rispondo impassibilmente: “Ho la faccia di uno che ha voglia di sistemarsi?”. Sbuffa e se ne va lasciandomi finalmente solo. Che problemi affliggono mia madre? Ma soprattutto: cos’ho fatto di male per meritarmi tutto questo? Più passano gli anni e più ho la certezza di essere stato adottato. Detesto questo suo voler apparire per forza come una famiglia perfetta, il sogno americano per eccellenza, perché no, non lo siamo. Cerca di tenerci uniti in ogni maniera possibile ed immaginabile, ma non ha senso fingere una felicità che non ci appartiene. Perché lo so, lo so che i miei genitori sono separati in casa e che, quando io ed Alex siamo a dormire, silenziosamente mio padre sgattaiola in un’altra stanza. Dura da tre anni questo circolo vizioso ed inizio a non sopportarlo. Non sono più un bambino, eppure continuano a trattarmi come fossi stupido e fanno finta di amarsi, ma ricordo ancora la sera in cui ho visto papà baciarsi con un’altra donna. Ho una tale rabbia dentro che potrei esplodere in qualsiasi momento. Il bello è che sanno che sia io che Paula ne siamo al corrente, eppure si ostinano a portare avanti questa sceneggiata perché l’unica all’oscuro dei fatti è nostra sorella minore. Mi domando quando si decideranno a rivelarglielo. Se in più ci aggiungiamo il fatto che mi senta costantemente inadeguato quando sono in mezzo ai miei coetanei e che tema come la peste il giudizio altrui, abbiamo il quadro perfetto per una meravigliosa vita di merda. “Cosa pensi di fare ancora seduto?”. Schiodo lo sguardo dal pavimento, mia madre è davanti alla porta principale con il dolce in mano mentre mi osserva severamente. “Medito sulla vastità dell’universo e sulla possibilità di trovarvi altre forme di vita”, replico ironico. Assume un’espressione poco convinta, per poi dire: “Smettila di fare il cretino e alzati”. Ribalto gli occhi scocciato e mi alzo dal divano, attraverso il soggiorno per raggiungerla accanto all’uscita. “Non ti sei cambiato”. Ma davvero? Che arguzia, Sherlock. “Se mi vedi gli stessi vestiti addosso significa che no, non mi sono cambiato”. Mi rivolge un'espressione estenuata. “Per favore, cerca di essere simpatico quando saremo a casa degli Way o, almeno, provaci dato che non è il tuo forte”. “Ci proverò, ma non ti assicuro nulla”. “Per me è già tanto”. “Sono pronta!”. Ci voltiamo all’indietro, Alex si è sciolta i lunghi capelli castani ed ha cambiato la maglia, sostituendola con un golfino. Usciamo silenziosamente e passiamo per il nostro giardino arrivando sul marciapiede. L’abitazione di questa nuova famiglia pare essere di fronte alla nostra, ora capisco perché nell’ultima settimana ho visto spesso un camioncino parcheggiato di fronte ad essa tornando da scuola. Non mi ero posto alcun quesito su cosa stesse succedendo, comunque. Attraversiamo la strada e ci troviamo proprio davanti all’edificio: ha tre piani, è rivestito con intonaco bianco ed è tale e quale a qualsiasi casa americana tipo. Una residenza semplice, da quanto appuro. Giunti nel porticato in cui vi è l’entrata, mamma mi chiede di tenerle la torta e, controvoglia, faccio quanto domandatomi. Suona il campanello, da fuori non si sente alcun rumore perciò, in cuor mio, spero non vi sia nessuno così avremmo una scusa per andarcene. Purtroppo le mie speranze vengono bruscamente frantumate da una signora sulla cinquantina che appare sull’uscio. Bassa perfino più di me, dalla corporatura esile e coi capelli di una tinta biondo platino scolorita. Inoltre ha un trucco stravagante ed è vestita con una maglietta larga multicolore e dei pantaloni di stoffa grigia, anch’essi oversize. Avevano ragione i vicini: questi Way sono strani, non oso pensare come siano gli altri. “Buongiorno”, esordisce cordialmente mia madre. “Sono Linda, la vicina con cui ha parlato stamattina. Abito qui di fronte e questi sono i miei figli: Frank ed Alexandra. Siamo venuti a darvi il benvenuto nel nostro quartiere”. La donna accenna un sorrisetto ed ha l’aria perplessa, poi posa lo sguardo su di me e su ciò che tengo in mano. Non sembra molto sicura ed ha tutta la mia comprensione, penso ancora sia una cagata. “Sono Donna, uhm… certo, entrate pure”. Ci fa un cenno e si fa indietro in modo da farci passare, mi guardo attorno curioso in quanto mi trovo in un nuovo ambiente. C’è molto disordine: riviste sparpagliate sopra il tavolino dinnanzi al sofà, oggetti strambi posati ovunque senza un criterio ben preciso ed un forte profumo d’incenso mi stuzzica le narici. E’ tutto molto colorato e particolare, le pareti sono decorate da quadri con simbologie a me ignote ed i mobili colmi da sculture naif e cianfrusaglie mai viste prima. “Mi piace come avete sistemato”. Mamma bugiarda a livelli estremi, so benissimo che questo non è il suo genere. “Grazie mille. Prego, accomodatevi”. Toglie un po’ di cose dal divano per permetterci di sederci e scosta alcuni giornali dal tavolino per farmi poggiare il dolce. “Arrivo subito”. Donna ci lascia soli in salotto, non appena sono certo si sia allontanata del tutto mormoro: “Si può sapere in che razza di posto mi hai portato?”. Fa le spallucce. “Vedrai che ti piaceranno, sono solo un po’ originali”. “Un po’ originali? Me ne frego dell’originalità. So già che non mi piaceranno e basta. Cavolo, hanno un elefante sul tavolo da pranzo, ti sembra normale?”. Spontaneamente l’occhio ricade sul tavolo nel quale, al posto di un centrotavola, vi è posta la scultura di un elefante rampante. “A me piace come casa”, commenta mia sorella. “Non ricordo di aver chiesto la tua opinione”. “Junior, smettila di rivolgerti così a tua sore… oh, buongiorno”. Ci giriamo verso le scale, la signora è tornata in compagnia di un ragazzo alto, castano, magro ed occhialuto. Suppongo si tratti di suo figlio, anche se non le somiglia per niente. “Sono riuscita a recuperarne solo uno”, ammette ridacchiando. “L’altro non ha molta voglia di scendere”. Ah. Mia madre dovrebbe prendere esempio da lei: se uno non ha voglia di fare qualcosa, bisogna rispettare la sua decisione e lasciarlo in pace. “Questo è Michael, il più piccolo, anche se ha già la bellezza di sedici anni. Ha la tua stessa età, Frank”. Sorrido forzatamente annuendo, non reggo questa legge genitoriale secondo cui chi ha la stessa età debba per forza andare d’accordo. “Quindi tu andrai a scuola con Frank? Che bello, immagino tu non veda l’ora d’iniziare”. Mamma, ma che dici? E’ palese che l’ultimo dei suoi pensieri sia la scuola. Delle volte dubito seriamente che i miei genitori siano stati adolescenti un tempo, certe cose dovrebbero saperle. “Un po’ sì”, risponde piattamente. “Stai tranquillo, Frank ti starà vicino i primi giorni per aiutare ad ambientarti”. Imbarazzato, rimuovo il coperchio del contenitore della torta, tutto pur di non assistere a questa scena a dir poco disagevole sia per me che per questo Michael. “Bene, sarà molto importante conoscere una persona del posto perché è alquanto disorientato”. “Penso sia normale, ma vedrai che Frank farà del suo meglio per farlo sentire a casa”. La smette di mettermi in bocca parole che non ho detto? Non sapevo della sua esistenza fino a cinque minuti fa, come posso averle promesso di aiutarlo? Non si rende conto che stanno praticamente interloquendo solo lei e Donna? “Beh, se volete, potete andare di sopra mentre chiacchiero con Linda ed Alexandra. In questo modo Frank potrà vedere il piano superiore”. “Sì, è una bellissima idea, così potrete iniziare a conoscervi già da ora”. I presenti adesso sono voltati verso di me come se stessero aspettando un mio responso, l’altro, dal suo canto, si fissa le scarpe in religioso silenzio. “Io pensavo di… ehm, mangiare la torta”. Una delle peggiori scuse che abbia mai formulato in vita mia, ma la situazione è talmente paradossale da mandarmi in tilt. Mia madre mi lancia un’occhiata di rimprovero sottecchi. “Cosa vuoi che sia per la torta? Te ne terremo una fetta da parte!”, mi esorta. Mi torna in mente la promessa fatta poco fa, per cui, a malincuore, dico: “Uh, okay”. “Vado a prendere un coltello per tagliare la torta”, annuncia la signora. Faccio per alzarmi, ma mamma mi sussurra: “Avevi detto che avresti provato ad essere simpatico, mi raccomando”. Annuisco svogliatamente e mi metto in piedi, raggiungendo il ragazzo dall’altra parte del salotto. Mi sento basso accanto a lui, ma in fondo sono già abituato a fianco a Ray e Bob. Perché vogliono forzarci a diventare amici? Adulti: chi li capisce, è veramente bravo. Noto che si sta avviando verso le scale per cui lo seguo, saliamo fino al piano di sopra per poi trovarci in un corridoio lungo e largo. Come pretende che faccia il simpatico con lui, se non mi parla? Pare abbia qualche problema d’espressione o di relazione con le persone, sarà mica preso peggio di me? Ci fermiamo di fronte ad una porta, la spinge e dentro si scopre essere la sua camera. Vi entriamo e si siede sopra il letto, mentre io rimango in piedi come un ebete nel bel mezzo della stanza. E’ tappezzata da poster di rock band ed alcune, tra l’altro, le ascolto pure, tipo i Misfits ed i Black Flag. Abbiamo qualcos’altro in comune oltre all’età. C’è una scrivania con un computer fisso ed una pila accatastata alla bell’e meglio di quelli che sembrano fumetti. Ciò che mi rapisce in particolar modo, però, è un basso poggiato su un cavalletto. Dunque anche lui suona, interessante. “Bella la tua tana”. Aggrotta la fronte. “Tana?”, ripete. Cristo, questa parola l’avrò detta sì e no due volte in tutta la mia miserabile esistenza. Nei film pare un modo di dire divertente, ecco perché mi è uscito. Sembro patetico, non simpatico. Che figura di merda. “Intendevo dire... la tua stanza”. Mi osserva per alcuni secondi serio, l’espressività del volto in questo tizio è pressoché inesistente. “Grazie”. Ci è voluto così tanto per un solo ‘grazie’? Siamo a posto. “Vedo che suoni il basso, Michael”. Fa cenno di sì col capo, per poi dire: “Chiamami pure Mikey”. Mi sfugge una frivola risata. “Non t’infastidisce come soprannome?”. Inarca un sopracciglio. “No, perché?”. Scrollo le spalle. “Non so, forse perché è troppo dolce. Non preferiresti ti soprannominassero Mike, invece che Mikey?”. Scuote la testa. “Mi chiamano così da sempre, non vedo perché dovrebbe infastidirmi”. Mi poggio con una mano sulla scrivania, reggendo meglio il peso del mio corpo. “Ricordo che da piccolo mi chiamavano tutti Frankie, neanche fossi una femminuccia. Tra l’altro sono il figlio di mezzo e l’unico maschio, è anche per questo che spesso mi trattavano quasi alla pari delle mie sorelle”. Mi squadra imperturbabilmente. “Non ci trovo nulla di femminile nel tuo soprannome”, afferma. “Sarà, ma a me proprio non piace. Leggi fumetti?”. Mi dovrebbero premiare per il mio grandissimo sforzo, sto tentando in tutti i modi di essere una persona affabile e sono riuscito a togliergli di bocca più di un paio di monosillabi. Mi sento una divinità scesa in terra. “In verità no, sono di mio fratello. Me ne ha prestati alcuni perché li leggessi, ma ne ho cominciati due e li ho abbandonati subito”. “Ti capisco, neanch’io vado matto per questo genere di cose”, poi aggiungo: “Puoi dirmi dov’è il bagno?”. Cerco di sorridere nel modo più naturale possibile, cercando di trasmettergli una parvenza di gentilezza. “E’ l’ultima a sinistra, non puoi sbagliare”. “Okay”. Vado verso l’uscita, esco e richiudo la porta alle mie spalle. Lancio uno sguardo lungo il corridoio e sì, effettivamente c’è solo una stanza così tanto in fondo. Inizio a camminare a passo abbastanza spedito, quando, improvvisamente, un uscio si apre ed una persona si scontra con me facendomi sbattere contro il muro. Mi volto di scatto rabbiosamente verso chiunque sia stato talmente sconsiderato da gettarsi fuori in questa maniera e rimango letteralmente paralizzato, come se mi avessero congelato in un solo istante. Dinnanzi ho un ragazzo, sicuramente più grande di qualche anno, dai capelli corvini, leggermente lunghi, spettinati e ricadenti lungo il viso. E’ più alto di me, anche se credo che sotto questo punto di vista ci voglia veramente poco, ha un colorito cadaverico ed una corporatura non troppo magra. I miei occhi s’incastonano coi suoi e rimango rapito dall’intensità del suo sguardo, l’iride è di un verde ipnotico ed omogeneo. Non credo di aver visto niente di simile in vita mia. “Tu chi sei e che ci fai in casa mia?”, sbotta sulla difensiva. Cado dalle nuvole atterrando dolorosamente sul terreno, non dovevo di certo aspettarmi una reazione cordiale. “Ehm… Mmh…”. Perché non riesco a dire nulla? Parla, Frank. E’ l’unica cosa che sai fare, perché non sei in grado? “Ce l’hai un nome sì o no? O ti devo chiamare ‘quello che mi è precipitato addosso’?”. E’ dotato di sarcasmo e mi fa piacere, di solito né mamma né Alex riescono a carpirlo ed apprezzarlo. “Frank”. Incrocia le braccia al petto studiandomi con un’espressione corrucciata, mi sento perfino più a disagio che prima di sotto con Mikey e non ne comprendo il motivo. “Ah, dunque ti chiami Frank. Bel nome. Io sono Gerard e devo ancora capire cosa tu ci faccia qui”. Mi pareva di aver scorto un barlume di gentilezza nella sua frase, ma mi sbagliavo. “Abito dall’altra parte della strada, mia madre ha praticamente costretto me e mia sorella a darvi il benvenuto nel quartiere”. Annuisce immagazzinando ciò che gli ho appena riferito, almeno adesso riesco a rispondere. “Ora capisco perché mamma voleva che scendessi di sotto, a quanto pare ho fatto bene a non andarci”. Abbozza un sorrisetto beffardo, ma quanto è stronzo? Perfino più di me. Mi piace. Sarò stupido, ma m'intriga come aspetto. Non capisco perché spesso capiti che la gente tenti di essere disperatamente buona nei miei confronti, mentre, dalla mia parte, non faccio altro che atteggiarmi da arrogante graziandoli con la mia acidità. Lui non si fa scrupoli a trattarmi in malo modo anche se sono praticamente uno sconosciuto e, cosa ancora più strana, non trovo il coraggio di ribattere col mio tono caratteristico. Di certo sarà perché ha un'età maggiore e, di conseguenza, mi sento di dovergli portare rispetto oppure perché mi mette in tremenda soggezione. Opto per la prima, anche se dentro di me so che è, in realtà, la seconda. “Non ti perdi niente, in verità”. Storce la bocca disgustato e si gratta la testa, noncurante. “Lo sapevo senza che me lo venissi a dire tu, ragazzino. Quanti anni hai?”. Involontariamente mi mordicchio il labbro inferiore, ma mi blocco subito non appena vengo a contatto col labret laterale. Mio padre non mi ha parlato per una settimana quando mi sono presentato a casa col piercing al labbro, per non parlare di quello al naso. Sono state le settimane più belle di sempre senza la voce di quel vecchio dispotico a ronzarmi nel condotto uditivo. “Sedici fra poco più di una settimana”. Solleva entrambe le sopracciglia. “Sedici? Veramente? Avrei detto tredici dall’altezza”. E’ ufficiale: è bastardo forte, ma, dal momento che sono piuttosto autoironico, questa battuta non mi tange. “Beh, può costituire un vantaggio. Non hai idea di quante entrate libere mi sia fatto grazie alla mia altezza”. Riesco a strappargli una mezza risata e ne sono contento. Un bel voto non mi fa né caldo né freddo, ma, far divertire questo ragazzo che praticamente non conosco, mi rende orgoglioso. Mi sento come fossi l’unico al mondo ad essere stato in grado di farlo ridere vista la sua indisponibilità, che pensiero idiota. “Non male”, replica annuendo. “Tu quanti anni hai, invece?”, chiedo. La sua faccia diventa tutto d’un tratto scioccata e, teatralmente, si porta una mano alla bocca spalancata. “Come osi? Non si chiede”. In imbarazzo, cerco di riparare subito. “Oh, scusami. Non volevo in alcun modo…”. Una risata sguaiata invade il corridoio, sgrano gli occhi mentre lo osservo prendersi gioco di me per l’ennesima volta. Torna normale e cerca di riprendere fiato, poi mi posa una mano sulla spalla e m’irrigidisco repentinamente. Contatto fisico. “O sono io che dovrei andare a studiare recitazione o sei tu che dovresti darti una svegliata, ragazzino. Ho vent’anni, comunque”. Toglie la mano e si allontana, poi, improvvisamente, si arresta e si volta all’indietro. “Ah, sappi che faccio schifo a recitare”. Sorride perfidamente, poi aggiunge: “Non è che dovevi andare in bagno, vero?”. Scuoto vigorosamente il capo. “Perfetto, perché devo andarci io”. Continua a dirigersi verso la stanza sul fondo, mentre osservo attentamente la sua figura di spalle in movimento. Apre la porta e sparisce varcando la soglia del bagno chiudendo il tutto dietro a sé. Gerard

   
 
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