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Autore: Northern Downpour    30/12/2015    0 recensioni
1920, Londra, un giovane avvenente avvocato, un cameriere eccentrico e tanto, tanto imbarazzo
Genere: Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 7 
Dolci contese al gusto di Red Velvet cake


Arrivammo presto al locale, che si trovava non molto distante dal centro città; era un luogo isolato ed esclusivo, conosciuto da tutti per la buona fama della sua cucina tra i più grandi chef del mondo.
Ci andai la prima volta quando vinsi la mia prima causa, e festeggiai pagando una grande cena a tutta la mia famiglia, sperperando una buona parte dei guadagno appena ottenuto: ancora non m'interessavo alla mia personale economia, allora...
Ma poco importa, ai fini della trama di questa mia cronaca.
Quando si trovò accanto all’entrata della nostra meta, il volto di George s’accese di celato stupore che però strabordava da quei grandi occhi luminosi di bambino, i quali spesso avevano tradito le sue intente emozioni.
Le sue labbra erano tentate di dire qualcosa, e boccheggiava affascinato mentre entrando si scrutava attorno ammaliato.
Il luogo era poco affollato, e quei pochi clienti lasciavano chiaramente trasparire il loro status sociale.
Il ragazzo si perdeva, sognando forse di far parte di questo mondo, mentre un sorriso stupefatto gl’incurvava le labbra in un’espressione buffa.
E quando notò che lo fissavo, felice di vedere quella piccola gioia che gli avevo portato, cominciò a balbettare qualcosa, che presto avrebbe preso forma in un allegro: «Wow Capo, che posto! – si tolse quindi il cappello – Qua è tutto così elegante…Mi sento un po’ come un pesce fuor d’acqua, ha presente, no?» continuò, alludendo ai guanti rotti, che aveva portato accanto a sé e che osservava imbarazzato.
Subito nascose le mani in tasca, e roteò gli occhi, ammirando di nuovo ciò che lo circondava.
«Suvvia, in quanto a vestiario non sei così fuori luogo: camicia bianca e gilet nero sono un classico, non ne vedo problema. E se parli dei modi di fare, beh, almeno porti un po’ di brio in questo luogo così serioso!» solo dopo aver sussurrato queste parole, nel tentativo di non disturbare troppo la vecchia signora seduta accanto a noi, mi resi conto di quanto potevo esser stato smielato, sotto certi aspetti; ma auspicavo che lui avesse capito il mio intento reale.
«Quanta gentilezza, Capo! Se continua così andrà a finire che inizierò ad arrossire!» ridacchiò lui in tutta risposta, ma non completamente scherzoso: pareva quasi che stesse per imbarazzarsi davvero.
Quando un cameriere ci raggiunse per ordinare, non feci troppo caso a George: ero davvero affamato, e tutto ciò che desideravo era un bel piatto di *qualcosa tipico del locale*.
Una volta ordinato per me, però, notai il ragazzo in difficoltà, che guardava il foglio del menù indeciso e confuso, come se quei nomi così sfarzosi lo disorientassero, e decisi di tentare, ordinando un’altra porzione di *specialità del locale sopracitata* anche per lui.
Era in fondo una ricetta squisita, terribilmente sottovalutata dai visitatori poiché degli ingredienti poteva sembrare realmente semplice, e forse lo era! Ma il modo in cui era cotta e preparata era a dir poco speciale, e la rendeva, a parer mio, il miglior piatto del ristorante.
Non esitai a prender atto dell’azione appena compiuta, non appena il cameriere si allontanò: «Scusami, ti vedevo leggermente confuso, ed allora volevo aiutarti…spero di non averti causato qualche fastidio, se così fosse non c’è problema: puoi disdire l’ordine e prendere altro...»
Non mi badò particolarmente: i suoi occhi erano concentrati ad assaporare, almeno con lo sguardo, le calde pagnotte accanto a noi, ovvero il contorno.
«No no, la ringrazio, Capo; non avrei proprio saputo cosa prendere! Ma senta: posso assaggiare una di queste meraviglie, o per qualche regola dell’etichetta, o qualcosa del genere, è maleducazione?»
Era palese il grande desiderio che aveva di poter assaggiare quel pane, tantoché quasi l’acquolina gli colava dal bordo della bocca.
«Non mi pare che alcuna legge lo vieti, e di legge credo di saperne abbastanza» scherzai, poiché sapevo bene che non era propriamente educato ingozzarsi di pane prima del paso (si sa, in fondo, che rovina l’appetito!) ma vederlo lì, accanto a me, ammirare sognante quelle pagnottine fumanti dall’odore delizioso mi trattenne dal dire la verità: come si poteva dire di no a quel viso così innocente?
La sua longilineità poi non incoraggiava affatto una risposta sincera, dal momento che pareva non toccasse cibo da anni, quasi come un bambino denutrito di quelli che spesso si vedevano nelle periferie qualche anno prima, appena alla fine della guerra.
Non indugiò, appena sentita la mia risposta, e subito prese un bel pezzo di pane dalla cesta apposita.
Rimase un secondo a contemplarlo, mentre delicatamente lo teneva con quelle sue grandi mani quasi avesse paura di perdere anche solo un minuzzolo, poi lo addentò, e ne assaporò il sapore ad occhi chiusi.
Sbocconcellava a piccoli morsi, quasi avesse paura che finisse, e masticava davvero lentamente.
Gustava ogni briciola, o almeno ci provava: pareva che stesse mangiando il più buono dei cibi, eppure era solo misero pane!
«Wow Capo, è delizioso! – disse, una volta finita la fetta – Se non le dispiace io ne prenderei un’altra…»
E così prima ancora che io potessi rispondere, già iniziava a centellinare il pane.
«Certo, fai pure, basta che poi tu riesca a mangiare l’effettivo pasto» mi sentii molto come una madre premurosa, nel dire quelle parole: spesso mi erano state ripetute, durante la mia infanzia.
Alzò lo sguardo verso di me, mentre teneva la testa vicina al piatto per non sporcare il tavolo, e deglutì il prima possibile, per poi ricomporsi e tenere un forzatissimo fare serioso, almeno sino a che non fosse arrivato il pranzo. 
Era evidente quanto si sentisse fuori luogo, ma era ancora più evidente, e mille volte più divertente vedere come tentasse di adeguarsi ai modi dei signori e signore accanto a noi.
Una volta portatoci l’ordine, vidi gli occhi di George brillare come se fossero incastonati di mille pietre preziose, e notai le sue labbra sussurrare uno sbalordito “Wow”.
I piatti di porcellana bianca colmi di cibo vennero posati accanto a noi ed il sublime odore s’insinuò nel mio naso inebriando tutto ciò che avevo intorno: ero veramente affamato.
Non attesi, non dissi nulla, neppure un “buon pranzo” prima di addentare la forchettata bollente, ma il mio compagno non fu da meno.
Così silenziosi mangiammo, anche piuttosto rapidi, quella grande porzione di paradiso.
Avevo quasi finito, quando mi destai, e pensai bene di osservare il ragazzo che poco prima si era quasi emozionato per del semplice pane assaporare quella delizia. Non ne rimasi deluso.
Finì prima di me: lui già aveva terminato quando io ero appena a metà del pasto!
«Avevi fame, vero? Quant’era che non mangiavi?» azzardai ridendo, sperando di non sembrare offensivo in alcuna maniera.
«In realtà - esordì, deglutendo quell'ultimo pezzo di pane con cui aveva pulito il piatto (cosa che, oltretutto, non vedevo fare da estranei da quando avevo lasciato la campagna) - in realtà io mangio...».
Era divertente sentirlo dire da lui, mingherlino com'era. 
«Davvero? A vederti, in tutta sincerità, non si direbbe affatto» 
«Oh sì Capo, mangio eccome! In fondo lavoro in un bar, là di cibo ce n'è in abbondanza!» il suo argomento era logico, eppure stentavo  a credere che lui amasse mangiare.
Quel ragazzo alto, dai gomiti spigolosi e le lunghe gambe magre, le clavicole che spuntavano dal bordo del colletto sbottonato, quel ragazzo che di profilo pareva scomparire, non poteva amare il cibo. Era, per me, puramente illogico.
Sia chiaro: anche io ero piuttosto longilineo ed amavo assaporare i più svariati piatti, ma non ero così tanto magro...
«E allora dimmi, per quale ragione sei tanto magro?»  
«Beh, sa Capo, non ne ho proprio idea. Solo, sono fatto così, da sempre. Non c'è nessuna spiegazione che le possa dare a riguardo e anzi, forse lei mi potrebbe proprio dare una risposta! Perché sono così? Perché non prendo peso, nonostante tutto ciò che mangio?»
Era bravo a rivoltare i discorsi, trasformando una risposta in una domanda, neppure troppo semplice, per giunta! 
Sapevo ben poco riguardo al cibo, ed ancora meno riguardo alla medicina: le poche conoscenze che possedevo erano dovute ai dotti discorsi dei miei amici medici, che qualche rara volta mi era capitato, per anomalia, di seguire quasi interessato.
«Penso riguardi il tuo metabolismo, credo sia piuttosto rapido, forse anche troppo, ma non è questo il mio campo di studio: di medicina so davvero poco»
«Oh, capisco, Capo…» era chiaro che non avesse capito una singola parola di quella mia affermazione, ma per educazione feci finta di niente.
«Vuoi anche un dessert? Un dolce…un pezzo di torta, ad esempio! O una coppa gelato, per quanto fuori non sia propriamente caldo… - presi tra le mani il menù (sottratto segretamente ad un tavolo vicino) e iniziai a guardare le varie proposte – ecco sì, la Red Velvet cake è molto gradevole, io penso che prenderò questa. Tu vuoi qualcosa?»
Gli passai perciò il foglio con le pietanze, e tornai a tacere.
«Grazie, Capo. Io, uhm…io penso… sì, penso proprio che prenderò una zuppa inglese, per essere certo di mangiarla».
Chiamai con un gesto un cameriere di passaggio vicino a noi, e ordinai.
Portò poi via i piatti vuoti, e se ne andò senza proferire parola.
«Abitudinario, non è così?» dissi, a basso tono e con un un mezzo sorriso in volto, non sapendo bene come spezzare quel silenzio.
Non notò subito il mio richiamo: il suo sguardo era perso, forse tra gli scintillanti lustrini che adornavano le donne tutt’attorno a noi, forse tra i lisci tessuti scuri degli abiti dei gentleman, forse tra la bellissima architettura, o forse invece ammirava il grande gusto con cui era arredato quel luogo.
Memore della mia passata figuraccia pensai ironicamente di imitare il suo gesto, e così approssimai la mano al suo viso, pronto a schioccare in vendetta le dita, ma non riuscii.
Prima che io riuscissi però lui si voltò, e io mi ritrassi come un paguro nel guscio quando ci si avvicina, sperando che non avesse notato nulla. 
«Diceva, Capo?» no, non aveva fatto caso a quel mio piccolo momento di stupidità, per fortuna.
«Nulla di importante, solo una piccola osservazione…» mi fissò, tenendo il capo basso e gli occhi rivolti verso di me, quasi domandando quale fosse quest’osservazione.
«Citando letteralmente le mie parole, ho detto: “abitudinario, non è così?”. Nulla di importante, di nuovo» ero piuttosto imbarazzato per quella situazione: perché non avevo taciuto?
Mantenni nonostante tutto un contegno, e alzai gli occhi verso di lui ancora una volta.
«Non sono proprio abitudinario, Capo…solo che evito di provare cose nuove, se queste potrebbero, non piacendomi, creare fastidio a qualcun altro. Ad esempio, se avessi preso ciò che ha preso lei, e questo non mi fosse piaciuto avrei avanzato, e che figura di sasso accanto al proprietario che è così gentile da offrirci questo ben di Dio! Capisce, Capo?»
C'era una logica in quel discorso, in fin dei conti, nonostante avesse come fondamenta una menzogna. 
«Sì certo, capisco. Però se avessi preso la Red Velvet cake e l'avessi avanzata stai certo che non sarebbe andata sprecata: l'avrei mangiata volentieri io, stanne certo!» non sapevo bene cosa dire, ed ero cosciente della mia incapacità di sostenere una bugia a lungo, perciò avevo optato per una sciocchezza che non riguardasse in alcun modo l'immaginario proprietario.
Certo, non avevo fatto trasparire la verità, ma tra mille argomenti possibili avevo scelto proprio il più insulso!
«In ogni caso, se vuoi, posso dartene un pezzo: è davvero squisita» continuai senza troppe esitazioni, per sopperire a quel silenzio che si sarebbe potuto creare.
«Oh no Capo, non voglio mica rubarle il dolce: sarebbe da maleducati!» 
Mentre terminava quella frase, notai all’orizzonte una bella fetta di Red Velvet, affiancata da della crema inglese e seguita dalle spalle ritte di un cameriere che camminava a testa alta.
Così non ribadii subito, ma attesi di aver l’ordine accanto a me per poter rispondere con un gesto quasi insolente: non appena mi si posò accanto quella delizia ne tagliai un pezzo, e glielo misi (senza troppo interesse nelle sue contestazioni) sul piattò.
«Capo, no! Davvero, non serve! È stato fin troppo gentile, Capo…davvero, glielo chiedo per favore, riprenda quel pezzo di torta, la prego!» oh santo iddio, cosa lo infastidiva tanto?! Insomma, era un favore, un grazie lo avrei accettato più volentieri, questo era certo!
«Vedilo come una richiesta: voglio un tuo giudizio su questo dolce. Forse figurando questo così, la smetterai di lamentarti» risposi, alzando le sopracciglia con fare scocciato, mentre in contrapposizione la mia voce era quanto più amichevole e giocosa fossi riuscito ad ottenere.
Il ragazzo mi guardò un attimo, e poi spostò gli occhi sulla torta, ripetendo quella transizione un paio di volte.
Infine, dopo un’apparentemente accurato ragionamento, acconsentì: «Va bene, okay, ha vinto lei, se proprio insiste…»
Mi scappò una risatina divertita, ed iniziai a mangiare il dessert strenuamente conteso.
George mangiò dapprima ciò che era realmente la sua ordinazione, ed una volta finito (con una rapidità incredibile, oltretutto) rimase esitante a scrutare quel pezzo di dolce che gli rimaneva sul piatto, serio.
Infine si lasciò cadere pesantemente sullo schienale, mentre posava un avanbraccio sullo stomaco.
«La prenda lei Capo, io sono realmente sazio»
Finii anche io, ed allora raddrizzai la schiena mentre mi pulivo la bocca.
Poi lo imitai, e con fare caricaturale mi gettai sgraziato indietro, lasciandomi sorreggere dallo schienale.
«Anche io sono pieno: come si fa?» lo guardai, inarcando un sopracciglio con aria di sfida.
«Mi dispiace dirlo, ma temo che questo piccolo pezzo di delizia resterà qua… non trova che sia un peccato, Capo?» ribatté a tono, mentre si raddrizzava e protendeva verso di me.
Non aveva intenzione di perdere, era chiaro. Ma mi dispiacque per lui: io, Edward Boyd Hall, non perdevo.
«Esatto: è proprio un misfatto!»
Ci fu poi silenzio, e la docile tensione che si era creata si sciolse in una gustosa risata: in ogni caso, non si era stabilito chi avrebbe mangiato quell’ultimo pezzo di Red Velvet. Ma in cuor mio sapevo che non sarei stato io!
«Non pensi sia maleducato lasciare questo misero resto? Eppure io già ne ho mangiata molte volte… E non sai cosa perdi! È davvero buona, sai?» non lo avrei mollato sino a che non avessi visto quel cibo entrargli in bocca. 
«Però Capo, se è così tanto buona, voglio lasciarlo a lei questo pezzetto! Suvvia, prenda!» avvicinò a me il piatto, mentre con la piccola forchetta argentata spingeva leggermente la torta.
Prontamente respinsi l’invito, facendo tornare quel piatto dov’era prima.
«Certo, ma io questa torta l’ho già mangiata e posso mangiarla quando voglio: ti conviene cogliere quest’ occasione, perché potrebbe non accadere più che io ti offra qualcosa con tanta affabilità!»
La conversazione era chiusa. Avevo vinto io.
George roteò lo sguardo ed incrociò le braccia al petto, mente io lo fissavo divertito: il sapore di quella piccola vincita era persino più dolce della torta!
Rassegnato racimolò dal piatto ogni briciola del dolce e sollevò la posata colma verso il suo viso, ed io seguivo attento ogni mossa.
S’interruppe subito prima di aprir bocca, ed allontanò di poco la forchetta dal viso.
«Mi dice come fa ad averla sempre vita? Ottiene sempre lei l’ultima parola, Capo!» chiese con una certa sincerità ed ingenuità quasi adorabile.
«Sono avvocato per una ragione, non pensi? È il mio lavoro» risposi sbrigativo mentre lasciavo a lui solo un piccolo “Ah” appena sussurrato, e lo guardai gustare quella squisita perdita.
Quando iniziò a testare il sapore del dolce era chiaro che gli piacesse, ed anche un bel po’!
Stette fermo persino dopo aver deglutito: impassibile.
Quando riaprì gli occhi non disse nulla, e parve non avere l’intenzione di voler dichiarare qualcosa.
Lo dovetti infatti spingere io a lasciare un commento, con un disinvolto «Allora…?», piuttosto informale.
«Cosa le devo dire, Capo? Non si è capito che mi è piaciuto?» ridacchiò lui, che d’un tratto era diventato silenzioso.
«Sì certo, lo hai lasciato intendere, ma ora voglio sentiti dire che ho fatto bene a spronarti ad assaggiarla. Non ce ne andiamo di qua sinché tu non lo ammetterai» proclamai, mentre avvicinavo l’orecchio a lui per sentire cosa dicesse.
La sua calda voce bassa e pacata era difficile da udire persino quando parlava conciso, è perciò inutile dire che i farfuglii erano semplicemente incomprensibili.
Ne estrapolai un, a modo suo, chiaro «Sì, lo ammetto» ma non mi bastò, e lo esortai ad alzare leggermente il tono di voce poiché “non potevo udirlo e comprenderlo”.
Senza troppe esitazioni ripeté ciò che aveva detto, aggiungendone un «E so bene che è ciò che vuole sentirsi dire, per cui la accontento: sì, Capo, sono stato sciocco a rifiutare all’inizio, ma le dirò che avevo una ragione per farlo».
Non era troppo serio dicendo ciò, così preso dal momento mi limitai ad un ironico «Ah sì?».
Mi rendevo sempre più conto di quanto il mio modo di parlare fosse influenzato da quel gergo così sbarazzino ed confidenziale, che mentre su di lui calzava perfettamente, su di me pareva una forzatura fuori luogo.
«Sì: temevo che mi sarebbe piaciuto così tanto da ordinarne un’altra fetta. E diciamocelo: non è proprio educato sfruttare così una persona solo perché questa ti offre tutto! Fortunatamente sono davvero sazio, quindi nonostante tutto non chiederò né un’altra fetta di Red Velvet, né altro» disse con fare solenne.
Non capii se fosse una bugia creata al momento (come poi prima era stato il proprietario, in fin dei conti) o se fosse sincero, in ogni caso mi limitai ad annuire e chiedere il permesso di andare in bagno un secondo.
In tutta risposta ottenni un’alzata di spalle ed un «Certo», così andai.
Inutile dire che la mia meta non era il bagno, bensì la cassa: dovevo pagare il conto, logicamente!
Non fu troppo difficile trovare qualche impiegato disposto a registrare l’incasso, ma decisi di puntare anche ad un altro obiettivo: parlare (di fronte a George, ovviamente) con il proprietario.
Lo conoscevo, in fin dei conti, perciò non sarebbe dovuto essere troppo complicato.
Lo conoscevo, in fin dei conti, perciò non sarebbe dovuto essere troppo complicato, decretai.
E infatti, inventando fandonie che tenessero in piedi un discorso sensato per invitare il proprietario al tavolo senza dire mai quale fosse la verità, ce la feci.
Dopo 2 minuti tornai al mio posto, cosciente che a breve sarebbe arrivato il grassoccio chef che avevo difeso tempo prima in una causa, che ovviamente avevo vinto. 
Ed ecco, dopo neanche un minuto dal mio ritorno, che si materializzava accanto a noi, mentre con una risata gagliarda mi salutava.
«Signor Hall! La vedo cresciuto, sa? – scherzò, per quanto la cosa non mi divertisse particolarmente: ero giovane, sì, ma non così tanto! – Come sta? Vedo che c’è qualcuno qui con lei, chi è?».
«Signor Wright! Quanto tempo, non è così? Io sto bene, e lei? Oh, questo è Jackson, George Jackson, un amico».
Per tutto il tempo George era stato zitto, e un lieve rossore comparve sul suo viso quando lo definii mio amico. 
Si rese conto che probabilmente era il caso di presentarsi, ed allora discantandosi, tentando di apparire quanto più serioso potesse, si presentò.
Tese la mano verso il signor Wright, e dopo un’incerta stretta di mano (in cui le grassocce dita del più vecchio parevano salsicce, in confronto alle lunghe dita di Jackson, che potevano esser paragonate agli steli dei fiori in quanto a grazia e misure) decise di non esser troppo professionale, perciò scherzoso mi corresse: «George Lewis Jackson III, per la precisione! Piacere, è stato davvero gentile!».
Qualcosa era andato storto.
Non avevo minimamente calcolato la possibilità che George ringraziasse il proprietario per “l’offerta del pranzo”, e tutto ciò che desiderai in quel momento fu che George non scendesse nei dettagli con quei suoi ringraziamenti.
Se fosse rimasto vago si sarebbe potuto fraintendere, sperai: in fondo avrebbe potuto ringraziare per la bontà delle pietanze, non è forse così?
Pregai vivamente che quella conversazione non continuasse, ma fui punito.
«Per cosa ringrazi? – domandò dapprima, velocemente, lasciando quasi perdere quel frammento nel fluire delle parole che seguirono – Ma, in ogni caso, cosa hai ordinato di buono? Oh, che sbadato! Posso darle del tu?».
Eppure George non lasciò sfuggire quelle tre piccole, terribili, parole.
Così confuso chiese: «In che senso, per cosa ringrazio? Comunque sì, certo che può darmi del tu!»
Uno sguardo perplesso si colorì sul volto dello chef, che si limitò a cercare il mio sguardo.
Ma tutto ciò che ottenne furono due occhi imploranti di cessar lì la conversazione, mentre tutto ciò che facevo era sognare di scomparire per magia. Avrei voluto sotterrarmi.
Quando poi era pronto a domandare la temuta domanda, per volere superiore ed una fortuna smodata, arrivo un richiamo dalla cucina che lo costrinse a congedarsi. Era salvo.
«Beh, è giunto il momento di salutarci – disse mr Wright, mentre già si preparava ad andare – è stato un piacere conoscerla, signorino Jackson».
Non feci a meno di lasciarmi scappare un risolino soffocato: quel signorino era a dir poco esilarante, dato che ero certo George avesse all’incirca la mia stessa età!
George strinse energicamente la mano del proprietario, e lo salutò quasi fossero amici di vecchia data.
L’uomo poi si girò verso di me, e subito mi alzai.
«Ah, Edward, è proprio simpatico questo tuo amico! Altro che questi qua – roteò gli occhi, lasciando intendere tutti i presenti – che non ridono mai: pare che non sappiano proprio cosa sia, l’umorismo! Ora vi devo salutare però…tornate quando volete!» si allontanò, ed allora sospirai sollevato.
Approfittai dell’essere in piedi per invitare George a seguirmi, ed andare.
Quando raggiungemmo la porta poi sentimmo dei passi goffi che correvano verso di noi, e di nuovo ci raggiungeva, fuggendo da un noioso cliente, il signor Wright.
«Ragazzi! Non vi ho potuto salutare a modo prima, e poi rischiavo di addormentarmi se stavo ancora un po’ vicino a quel signorotto d’alto borgo e a quella che più che sua moglie pareva sua figlia! Ah, fatevi abbracciare! Non siamo riusciti neppure a parlare, e non ci riusciremo neanche ora purtroppo: allora, se per voi va bene, magari potreste tornare, e questa volta offre la casa!».
Avevo cantato vittoria troppo presto.
«Sei sempre troppo gentile Arthur, ogni volta la stessa storia! Grazie ancora, ma adesso va’, che non voglio mica farti finire nei guai per aver trascurato qualche cliente troppo suscettibile!» lo spinsi così indietro, e frettoloso uscii, restando zitto.
George, fortunatamente, non fu da meno, e rimase complice stando taciturno: lo avrei voluto ringraziare, ma mi trattenni.
Son seppi mai se fosse cosciente di tutto, se avesse intuito parte dell’accaduto o se semplicemente lo ignorasse, e decisi che era meglio non approfondire.
   
 
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