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Autore: Ecailles de Lune    31/12/2015    1 recensioni
Aurora è la tennista più brava del circolo e si annoia, non è più stimolata da nulla. La sua vita cambia solo quando al circolo arriva Emma, una talentuosa tennista francese con la tendenza ad accentare l'ultima sillaba di alcune parole. La loro storia scorre sotto gli occhi del "raccatta-palle", quello che tutti vedono solo quando lo cercano, che la racconta attraverso quattro fotografie, ciascuna emblema di come Emma sia piombata nella vita di Aurora, sconvolgendola, e di come Aurora l'abbia portata verso una nuova felicità, prendendosi il suo souvenir di un mondo sconosciuto e portandolo con sé.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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https://www.youtube.com/watch?v=uTM9x-fEMwo



Io sono quello che la gente, di solito, in un linguaggio abbastanza colloquiale, definirebbe un “raccatta-palle”. È, più o meno, tutto ciò che vi serve sapere di me. Quando avrete finito di leggere questa storia ed avrete chiuso queste pagine vi sarete fatti un’idea molto precisa su quello che sono. Specifichiamo: non sono uno stalker. Quando finirete di leggere, capirete. Non ho scattato quelle fotografie perché volevo farlo, ma perché era necessario. Perché ne avevo bisogno. Perciò, prima che iniziate a leggere, voglio chiedervi solo due favori. Il primo: cercherò di mantenere l’anonimato; ma, se doveste riuscire a riconoscermi, vi prego di non denunciarmi. Mi farebbe davvero molto piacere. Il secondo: quando vi parlerò delle mie fotografie sbattete le palpebre, come se steste scattando anche voi. È di questo che si comporrà la storia.

La prima volta che scattai una fotografia a Francesca Maria Aurora (che da ora in poi chiamerò sempre Aurora, e non ditele che vi ho fatto sapere del suo nome completo, vorrei sopravvivere almeno fino alla vostra denuncia) sembrava una furia. Aveva la coda bionda più alta e tirata del solito, segno che l’aveva fatta piuttosto in fretta; e con quella stessa fretta sbatteva le palline per terra e le colpiva con la racchetta. Meccanicamente.
Un’altra cosa che dovete sapere di me è che un raccatta-palle è invisibile, e questo vi servirà per la prossima fotografia, quindi ricordatevene. È una nullità. Non sto dicendo che la gente non riesca a vedermi, no, non sono mica un fantasma. Dico che la gente riesce a vedermi solo quando ha bisogno di me, quindi mi cerca con gli occhi e mi trova. Altrimenti mi passano tranquillamente attraverso con lo sguardo, senza battere ciglio.
Aurora, quel giorno, mi cercò. Ero sul balcone della club-house e la guardavo dall’alto, ma riuscì facilmente a vedermi. Mi chiamò e mi fece cenno di raggiungerla. «Credo proprio di aver bisogno di una mano.» Disse, ansimando.
Lasciai la macchina fotografica nella borsa e scesi velocemente le scale. Mi spiegò che la nuova arrivata al circolo, una certa Emma, l’aveva praticamente umiliata nella sua partita di iniziazione. Un classico. Comincia sempre così. Si era, quindi, resa conto che allenarsi in quelle condizioni sarebbe stato inutile, ed il mio compito sarebbe stato semplicemente quello di posizionarmi vicino alla rete e lanciarle le palline, che lei avrebbe dovuto con la stessa semplicità spedire dall’altra parte.
Un incarico da raccatta-palle.
Mentre l’aiutavo ad allenarsi – ed intanto osservavo la sua coda bionda oscillare ad ogni suo movimento – Emma si avvicinò a noi. Mi ignorò (ovviamente) ed io non raggiunsi le due ragazze (ovviamente), ma rimasi a guardare dalla mia postazione, un paio di metri più in là. Emma tirò via l’elastico della sua coda, ondeggiando i voluminosi capelli castani, e tese la mano ad Aurora con un sorriso smagliante.
«Penso che tu sia molto bravà!» Emma era appena arrivata al circolo perché era appena arrivata in Italia; aveva origini francesi, il che spiegava la sua tendenza ad accentare l’ultima sillaba di alcune parole. Ciononostante conosceva piuttosto bene l’italiano, e il forte accento francese – e l’ovvia erre moscia - la rendeva decisamente più affascinante.
Aurora strinse la mano di Emma controvoglia; Emma se ne accorse, ma non si lasciò scoraggiare.
«Grazie.» Si limitò a rispondere, prima di un lungo sospiro.
«Ti andrebbe di prenderci un caffè? Vorrei proportì una cosa!» Sembrava davvero molto motivata.
Sono piuttosto sicuro che Aurora abbia accettato più per curiosità che per vero interesse, ma forse questo non lo sapremo mai.
Ricordate quando vi ho detto che un raccatta-palle è invisibile? Ecco. Io quel giorno seguii Aurora ed Emma e mi sedetti al tavolo più vicino al loro, alle spalle di Aurora, ma sono abbastanza sicuro che non l’abbiano notato.
«I vostri due caffè.» Riconobbi una voce diversa e sentii il tintinnio delle tazzine. La cameriera si avvicinò a me subito dopo. «Posso portarti qualcosa?»
Ordinai un caffè anch’io, distrattamente. Emma stava spiegando ad Aurora che a novembre di quell’anno, quindi nove mesi dopo, sarebbe partito il campionato e che aveva bisogno di una compagna di squadra. Aurora non mi sembrava convinta, benché sapesse sicuramente riconoscere il valore dell’avversaria. Ma quando sentii che Emma era riuscita a farla ridere, lei che non rideva quasi mai e aveva, paradossalmente, la risata più dolce e cristallina che avessi mai sentito, capii che avrebbe accettato.

La seconda fotografia (sbattete le palpebre e immaginatela, mi raccomando!) di cui voglio parlarvi è dei primi di novembre. Emma ed Aurora si erano allenate più duramente di quanto avessero mai fatto, e c’era qualcosa di quasi sublime nel loro gioco di squadra. Erano capaci di capirsi senza neppure guardarsi, sapevano cos’avrebbe fatto l’altra ancora prima che quella lo facesse. Io ero al mio solito posto sul balcone e le osservavo, e non invidiai mai il loro rapporto più di quel giorno. Erano passati relativamente solo pochi mesi dal loro primo incontro ed era come se si conoscessero da un’eternità. Non si guardavano, perché si capivano, ma quando lo facevano nei loro occhi c’era un qualcosa di così magnetico che mi faceva credere davvero nella forza di quello che c’era tra di loro. Allora non capivo cosa ci fosse, mi sembravano solo indispensabili l’una per l’altra, e non sto parlando di indispensabilità fisica. Non avevano bisogno di stare insieme, no. Era qualcosa di più profondo, più potente. Avevano bisogno di sapersi vicine. Perché ognuna sapeva che, anche a chilometri di distanza, lei c’era.
I primi di novembre, dicevo, uno degli organizzatori del campionato fece visita al circolo. Avrebbe dovuto fare una selezione generale tra le squadre, nulla di preoccupante per un’accoppiata come Emma e Aurora.
Nonostante anche loro fossero sicure di passare s’impegnarono al massimo. Giocarono benissimo, a discapito di un’altra squadra femminile che aveva intenzione di partecipare al campionato. Le umiliarono a tal punto che non riuscirono a passare.
Loro, invece, sì. Quando l’organizzatore comunicò loro il risultato vidi negli occhi di Aurora una soddisfazione che non vedevo più da tempo. Aurora era una delle tenniste più brave del circolo, e qualcuno di voi potrà capire sicuramente meglio di me – non sono mai stato un primo posto, io sono un raccatta-palle – che dopo averci fatto l’abitudine essere il più bravo non stimola più. Aurora, quando la conobbi io, era una ragazza piuttosto timida, ma non appena riusciva a prendere confidenza si lasciava coinvolgere dall’entusiasmo e dalla carica. Era decisamente la più esuberante tra le due; al confronto, Emma era molto più riservata. Quando il giudice disse che sarebbero andate al campionato Aurora non si trattenne più, e mentre io scattavo la mia foto saltò praticamente in braccio all’altra; Emma l’abbracciò, ridendo, e fu lì che nella mia ingenuità da ragazzo-invisibile iniziai a capire che forse c’era qualcosa di più.

Terza fotografia. Sbattete le palpebre.
Emma ed Aurora, come in ogni grande storia che si rispetti, vinsero la finale del campionato. Fu una partita difficile, durò delle ore. Loro si mostrarono più affiatate che mai. Sentivo, dagli spalti, la forza dei loro sguardi, quel modo in cui si incoraggiavano a vicenda. Mentre gli spettatori esultavano – o si lamentavano – ed erano impegnati a seguire i movimenti della pallina ed il modo in cui rimbalzava sulle racchette, io seguivo i loro occhi, le loro mosse, come se al mondo non avessi mai visto nulla di più bello.
Forse era davvero così, perché Emma ed Aurora erano bellissime. Quando erano insieme sembravano brillare – lo ammetto, forse il riflesso del sole sui capelli biondissimi di Aurora faceva la sua parte – e riuscivano a trasmetterti quella sensazione nonostante tu non l’avessi mai provata.
Non ero mai stato capace neanche di immaginare una cosa del genere. È per questo motivo che vi ho detto, all’inizio della storia, che non sono uno stalker. Io non le seguivo, non nel senso che intendete voi. Avevo bisogno di star loro vicino perché mi rendevano felice con la loro gioia; io ero un ragazzo invisibile, la gente non mi vedeva. A stento mi parlava.
Emma e Aurora erano la mia piccola felicità.
Vi sembrerà incredibile, ma non so se avete mai notato quanto perdano importanza i giocatori di una partita, che sia di tennis o di calcio o di pallavolo, nel momento in cui essa finisce. Chi è impegnato ad esultare, esulta; chi è impegnato a lamentarsi o arrabbiarsi, si lamenta o si arrabbia. Ci si rivolge ai familiari, agli amici che ci hanno accompagnato. C’è un istante, un brevissimo momento, in cui i giocatori non esistono più. Non li guarda più nessuno. Nel caso di partite importanti, le loro reazioni sono testimoniate solo dalla tele o fotocamera di turno.
Io, quel giorno, fui quella fotocamera. Nessuno badava più a loro, tant’era forte l’emozione. Lì scattai una delle mie fotografie più belle.
Vi ho già parlato del fatto che fosse Aurora la più esuberante tra le due. Emma, di solito, evitava i contatti umani. Quel giorno, però, presa dall’euforia, appena vide Aurora correrle incontro la prese al volo e piroettò su se stessa, ridendo. Le loro lunghe code volteggiarono, sferzando contro i loro volti. Si fermarono e si appoggiarono vicino agli spalti, proprio prima degli spogliatoi, praticamente invisibili per chi non le aveva seguite con lo sguardo, come avevo fatto io.
Prima ancora che Aurora le stringesse il collo con le braccia io stavo già sorridendo, e quando si chinò a sfiorarle le labbra scattai la mia fotografia; e a quel punto, nonostante fossi ancora nel pieno della mia ingenuità da raccatta-palle, mi resi conto di averci davvero visto giusto da un bel po’.

Vorrei potervi dire che ho seguito il loro rapporto nei dettagli, e vorrei potervelo raccontare. Vorrei potervi dire che continuai a scattare le mie fotografie, e che magari, come succede nei film, ero stato notato da qualche fotografo importante che voleva aiutarmi ad allestire una collezione o una mostra.
Nulla di tutto ciò accadde, però. Le persi di vista. Per anni non riuscii più a sapere niente di loro, e mi crogiolai in quella nostalgia, riguardando le vecchie fotografie, senza più la forza di scattarne di nuove. Se Emma e Aurora avevano portato uno spiraglio di luce nella mia vita da nullità, quando se ne andarono sprofondai nel dolore. È più facile vivere nel buio quando sei sempre stato al buio; ma dopo aver visto la luce sei cieco, hai le pupille troppo strette per vivere in quel buio. Non ti ci orienti più. Continuai a cercarle, non riuscendo a sopravvivere con quell’assenza nello stomaco. E, finalmente, accadde l’evento che mi portò a decidere di scrivere questa storia: le trovai.

Sbattete le palpebre, ancora una volta. Questa è la mia ultima fotografia.
Quelle sbarre che vedete sono le inferriate della finestra. Avrei voluto avvicinarmi di più, entrare a salutarle. Credo di aver temuto che si fossero dimenticate di me; avevano controllato la mia vita perfino da lontano, non avrei mai sopportato di sapere che ero rimasto un ragazzo invisibile anche per loro.
La testa di Emma fa capolino dalla spalla di Aurora e le cinge i fianchi con le braccia. Lei ride. Il suo dito indice della mano destra è stretto dalla manina minuscola di una bambina bionda; ride anche lei. Sono lontano, non riesco a sentire che cosa dicono, ma è come se sentissi comunque la risata di quella bambina, che stringe forte il dito di Aurora così come sono soliti fare i bambini. Mentre scrivo riguardo quella fotografia ed essa mi mette gioia e tristezza allo stesso tempo. Avete mai provato questa sensazione? Quella fotografia riesce a trasmettermi la luce di cui avevo tanta nostalgia, ma c’è un piccolo dettaglio che mi uccide ogni volta. La foto è lucida, perché è scattata da oltre il vetro di una finestra. Più delle inferriate, che sono molto evidenti, il vetro è un messaggio più sottile, meno immediato da individuare, e mi ricorda che, nonostante non ne abbia avuto la conferma perché non ho suonato quel campanello, non sono mai stato e mai potrò essere anche solo la metà di quello che loro hanno rappresentato per me.
E che, da questo momento, rappresenteranno per voi.



Salve a tutti :) Avevo postato questa storia con un altro account, quindi qualcuno di voi potrebbe averla già letta. Vi chiedo solo di considerare bene il ruolo del narratore, che è una persona piuttosto semplice, come emerge dal testo: quindi, se trovate un "errore", riflettete un secondo sul fatto che potrebbe essere voluto. Se poi credete ancora che sia sbagliato, vi prego di farmelo notare; ve lo scrivo soltanto perché quando la postai la prima volta, più persone recensirono elencandomi la lista di errori che avevo fatto (si erano schierati principalmente contro quel "meccanicamente" che costituisce un'unica frase: se avessi aggiunto il "meccanicamente" alla frase precedente, avrei evidenziato più il gesto che il modo, ma l'obiettivo era evidenziare proprio il modo in cui Aurora colpisce le palline). Credetemi, mi dispiace doverlo specificare e mi è successo solo con questa storia, ma è per evitare di dover rispondere sempre con queste motivazioni, come se mi stessi giustificando. Non è questione di non accettare le critiche, è davvero una cosa voluta. Grazie mille per essere arrivati fin qui, comunque, buona giornata!
   
 
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