Death of a Goldfish
Il 24 Luglio 1982, esattamente tre anni e mezzo dopo la sua nascita, Dean vinse
un pesce rosso al luna park.
Contenuto in una piccola busta di plastica annodata, gli venne consegnato da un
giostraio di New Orleans eccessivamente accaldato, che glielo mise tra le mani
con sgarbo, quasi come se
vincendo quel pesce, gli avesse fatto un torto. L’ennesimo di quella
giornata, a giudicare dal suo umore.
Beh. In effetti, neanche il pesce sembrava particolarmente felice di andare a
vivere con lui.
Era stato il primo pesce di un
acquario sovraffollato a finire nel retino del giostraio, dopo una corsa
scalmanata tra i vari esemplari che dimenavano le loro lunghe code nel
disperato tentativo di sfuggire ad esso. Dean lo reputò crudele.
Quando sollevò la busta all’altezza dei suoi occhi, il pesce cominciò a
scuotere l’intero corpo come in preda a una furia incontenibile, una rabbia
sovrastante che oscurava la sua mente al
punto da non accorgersi che dalla sua bocca in continuo movimento non
articolasse alcun suono. O almeno,
niente che Dean riusciva a udire.
“Dagli un nome, Dean.” La mamma gli accarezzò la testolina
dorata con una dolcezza poco adatta al momento.
Il bambino sollevò il viso, ricercandone il volto con sguardo accigliato. “La
sua mamma non gli ha dato un nome?”
“Non lo so...” Mary si accovacciò accanto al figlio, stuzzicando con l’indice
la busta d’acqua adesso di fronte ai suoi occhi. “Hai provato a chiederglielo?”
Dean tornò a guardare il pesciolino dallo sguardo sconvolto “Non riesco a sentire cosa dice...”
E anche quanto non fosse stato così, Dean era certo che non gli stesse
rivolgendo parole che avrebbe voluto sentire.
“Se lo tirassimo fuori dall’acqua?”
Mary rise.
“Non puoi, tesoro. E’ un pesce. Non vive fuori dall’acqua...” Spiegò con tenero
rammarico.
Se solo fosse
stato possibile, Dean avrebbe aggrottato ancora di più le sopracciglia.
Poi, un’idea.
“E’ possibile che si faccia sentire solo dai pesci, mamma?”
“Uhm. Sì. Mi sembra un’idea interessante...”
Mary si rialzò sorridendo, un’espressione di finto compiacimento apparve sul
suo volto.
“Quindi come faremo a sapere qual è il suo vero nome?”
“Possiamo chiamarlo Jeffrey. Ha la faccia di uno che si chiama così, non credi
anche tu?”
“Jeffrey?” Il volto del bambino si strinse in uno smorfia di disgusto. “Ti
chiami Jeffrey?”
Il pesce continuò a premere il muso contro la plastica tesa, la sua espressione
rimase immutata.
“Non credo si chiami così, mamma...”
‘Jeffrey’ morì due
mesi dopo, apparentemente senza un perché.
John lo trovò immobile sulla superficie dell’acqua intorno alle sei del mattino
di un tiepido giorno di settembre, esattamente ventisei minuti dopo aver ritrovato sua moglie piegata sulla
tazza del WC intenta a vomitare l’anima. L’aveva aiutata a ripulirsi e a
tornare a letto.
Naturalmente, non senza prima esser rimasto per una manciata di minuti a
stringerla a sé e rassicurarla, a baciarle i capelli biondi e il viso sfinito.
Sarebbe stato un marito degenere se non lo avesse fatto, suvvia.
Quando si recò in cucina alla ricerca del telefono per
chiamare il dottore, la triste scoperta
nella boccia di vetro.
“Jeffrey è partito, Dean. Ha fatto le valigie e se ne è andato.”
Del resto, perché far sapere a un bambino di tre anni (e mezzo) che il suo
pesce rosso era morto proprio il giorno in cui la mamma gli avrebbe comunicato
l’arrivo di un fratellino?
Ad ogni modo, di fronte la boccia d’acqua adesso priva del
suo unico abitante, Dean credette a lungo che quel pesce fosse andato via
perché offeso. Dal nome in primis, e poi dalla sua becera incapacità di
comprendere ciò che, sin dal primo istante in cui lo vide, aveva tentato
disperatamente di comunicargli.
Le volte successive in cui andò al Luna Park, evitò il banco dei pesci rossi.
---
Quando suo fratello nacque,
Dean non lo trovò poi tanto differente da Jeffrey.
Il bambino emetteva versi sconnessi privi di alcun significato, ma non per
questo privi di intenzionalità.
Alle volte, quando nessuno riusciva a comprendere le sue richieste con le
buone, il suo visetto tondo si
contorceva dolorosamente divenendo un cumulo di grinze paonazze, allora le mani
si serravano in pugni stretti, le gambine paffute calciavano con forza, e a
quel punto le sue piccole labbra rosa si schiudevano per dar vita a degli acuti
così pieni di rabbia e frustrazione che Dean si domandava quanta importanza
avrebbe mai potuto avere il messaggio che intendeva comunicare.
Magari cercava di mettere in guardia la mamma circa ciò che sarebbe accaduto il
successivo 2 Novembre 1983, chi avrebbe mai potuto dirlo.
---
Paradossalmente, Dean imparò a comunicare con suo fratello quando il fuoco che
uccise sua madre lo trasformò.
Per gli altri, quella notte le fiamme non lo avevano scalfito. Non fisicamente,
almeno.
Il mutamento avvenne ad uno stadio più
profondo, un luogo del suo io in cui vi era custodita anche la sua stessa
natura, che venne avvolta dalle fiamme e rimodellata.
Ciò che ne derivò, ebbe del meraviglioso. Dean divenne un essere ibrido, metà
umano e metà pesce.
Non aveva branchie, ma il mondo terreno non era più l’elemento della sua interiorità,
e il modo in cui prese a fluttuare inespressivo attraverso i giorni gli dava
tutto, fuorché le connotazioni di un bambino.
E poi vi era il silenzio. Il grande, profondo silenzio in cui era stato chiuso.
Vi erano dei momenti in cui le sue labbra si muovevano ancora, ma la sua bocca non produceva alcun suono;
neppure un sibilio lontano.
“Va tutto bene, Sammy.”
Era stata l’ultima frase, prima dell’immersione in quelle acque invisibili.
Ed era così. Per Sammy, andava tutto bene.
Passava le sue giornate ad osservare Dean e lanciare sorrisi con la sua bocca
sdentata, a ciucciare i pugni e rotolare sulla pancia. Dava vita a dei suoni
che non chiedevano risposte differenti dal silenzio che Dean era in grado di
offrirgli, e nessuno dei suoi bisogni primari veniva soddisfatto attraverso
l’uso della voce, almeno – non quella orale. Ed andava tutto bene, davvero.
Di tanto in tanto, Dean affondava due dita sulla pelle morbida del piccolo
ventre, ed emulava risalendo su di esso i passi di un uomo, gesto che faceva
ridere Sam a crepapelle, come non ci fosse niente che avrebbe desiderato più
nella sua vita.
Erano due pesci rossi nello stesso acquario.
Nessuno dei due comunicava con l’esterno, nessuno dei due faceva uso delle
parole.
Nessuno dei due sentiva il bisogno di uscire da quel mondo ovattato, e davvero,
andava bene.
Erano in una sintonia così perfetta da apparire quasi crudele verso tutti gli
altri.
Lo sguardo accigliato che John gli rivolgeva quotidianamente era lo stesso che
Dean aveva rivolto a Jeffrey per tutta la durata della sua breve esistenza.
E la cosa buffa era che quello sguardo non provocava alcun genere di tumulto
nel suo animo.
John scavava in quegli occhi vacui alla ricerca di una risposta, ma Dean,
davvero, non sentiva alcunché, se non la
più totale, completa indifferenza.
Jeffrey docet.
“Mutismo reattivo.” Lo aveva definito
una sedicente psichiatra infantile del Sioux Falls General Hospital dal naso
adunco e il tono eccessivamente lezioso. Aggiunse ulteriori spiegazioni, ma il
provvidenziale pianto di Sam giunse a coprire gran parte di quei discorsi che
John (anzi, tutti e tre) aveva già
bollato come inutili, insensati e identici a tutti gli altri, e Dean,
dall’esterno della stanza, non udì nient’altro.
Suo padre non resistette lì dentro più di dieci minuti, prima di esplodere con
un flagoroso “Adesso basta!” che fece aumentare di intensità il pianto di Sam
tra le sue braccia e trasalire la donna dietro la scrivania.
Quando spalancò la porta, Dean non sobbalzò neppure, troppo abituato a scene
simili negli ultimi tempi.
Si lasciò prendere per mano e trascinare via senza batter ciglio.
“Nessuno porterà via i miei figli. Non un demone, né tantomeno dei fottuti
strizzacervelli. Che si fottano tutti.”
Borbottò John, guardando un punto
imprecisato davanti a sé.
Dean accolse Sam tra le braccia quando si sedette sui sedili posteriori dell’impala; il neonato stava ancora piangendo.
“Nella borsa c’è del latte. Fa’ mangiare tuo fratello,
Dean.”
Ma Sam non aveva fame e Dean lo capiva. Sam era nel suo stesso acquario, e
quello era l’inequivocabile pianto di un
pesce che aveva appena visto suo fratello sfuggire per un soffio ad un retino
che lo avrebbe portato lontano da lui. Era il pianto di un esserino che aveva
assaporato la sensazione di essere l’unico pesce in un acquario, circondato da elementi
incapaci di comprenderlo.
Dean accostò il proprio viso al suo, e lo strinse forte a sé.
«Non vado da nessuna parte. » Dissero
le sue braccia e le sue guance umide. «Non vado da nessuna parte, Sammy. » Urlarono le sue labbra afone pressate
sulla fronte liscia ancora e ancora, sino a quando il pianto non si
arrestò, e Sam si addormentò sbavando sul petto del fratello.
Sam, quella notte, si addormentò con gli occhi incrostati dalle lacrime;
proprio come John, che poco prima di stendersi sui sedili anteriori, giurò di non permettere mai più ad alcun
sedicente psichiatra di avvicinarsi a Dean nel raggio di un chilometro.
Mai più.
---
“Perché, cos’avrebbero i miei figli di tanto strano?”
In realtà, le parole furono superflue. Il modo in cui John aveva sollevato la
testa dal cofano anteriore dell’Impala e rivolto gli occhi verso Bobby, era più
che esaustivo.
Bobby serrò le labbra, e tirò un sospiro profondo prima di sfidare la sorte e accorciare
la distanza di qualche passo.
Teneva tra le mani un cacciavite che stava
svogliatamente ripulendo dal grasso, forse sperando che quel movimento
potesse dare alla discussione un tocco
di spontaneità.
Ma il punto era che nulla avrebbe potuto dare a John l’impressione che Bobby
non avesse pensato e ripensato ad ogni singola parola da dire, prima di
presentarsi da lui e uscirsene con quel “Non
pensi di dover far qualcosa per i tuoi figli?”
“Da quanto tempo è che Dean non parla più, John?”
John tornò a lavorare sul motore fracassato della sua auto scuotendo la testa
con incredulità.
“E Sam? Sam compirà tre anni il prossimo maggio, e non ha ancora proferito una
sola par...”
“E cosa dovrei fare secondo te, eh!? Abbandonare i miei figli in un istituto
per handicappati e dimenticarmene?!”
Sbottò, quando si rese conto che l’alternativa sarebbe stata quella di
cominciare a strappare pezzi dal motore e scaraventarglieli addosso, ad uno ad
uno.
Non vi era cellula del suo corpo che in quel momento non desiderasse afferrare
i propri figli e scappare lontano. Non da Bobby, o da Sioux Falls, o dal South
Dakota – neppure via dagli Stati Uniti d’America, in realtà.
Desiderava scappare in un luogo in cui non vi erano demoni, o cacce, o mogli
che bruciano sui tetti sopra le culle dei propri figli né fetidi motel a far da
case per settimane; in un luogo in cui i propri figli sarebbero potuti crescere
in una famiglia, una di quelle vere,
andare al pre-school senza ritrovarsi a dover lottare con i servizi sociali per
riaverli indietro a fine giornata, e dove la voce petulante di Dean avrebbe
fracassato le sue orecchie giorno dopo giorno, istante dopo istante.
Ma tutto ciò non lo avrebbe trovato certo in questo universo, John. E così, tutta la sua frustrazione venne
espressa attraverso l’immagine di un uomo che, ringhiando come un cane, afferra
una bottiglia di whiskey mezza piena
poggiata a ridosso delle ruote dell’auto, e ne trangugia in un sol colpo
persino le gocce sul fondo.
Bobby non riuscì a reggere quell’immagine. Preferì volgere
lo sguardo verso i due bambini nascosti nella carcassa arrugginita del vecchio
furgone in fondo alla recinzione.
“Sei disgustoso, John. I tuoi figli hanno bisogno di aiuto e tu cosa fai?”
“Faccio l’unica cosa che permetterebbe loro di arrivare al
decimo compleanno sulle loro gambe, Bobby. E non credo sia necessario che sia
io a ricordartelo!”
“E come!? Lasciandoli da soli in un motel per sette maledetti giorni!? Puntando
un fottuto fucile contro gli assistenti
sociali chiamati dal direttore quando si è reso conto che hai lasciato
un bambino muto di sei anni ad
occuparsi da solo del fratello minore per un’intera settimana?! Lo sai che
torneranno armati sino ai denti la prossima volta, vero John?! Lo sai cosa
accadrà!?”
“Accadrà che cambierò così tanto i loro connotati che
persino quelle puttane delle loro madri stenteranno a riconoscerli. Nessuno
porterà via i miei figli.”
John schiumava di rabbia come una di quelle bestie che era solito a cacciare,
ma non urlava. Non più.
L’alcol aveva cominciato a svolgere il suo lavoro, e non tardò a suggerire alla
sua mente alternative più creative agli urli e ruggiti fuori misura.
“Anzi.” Disse d’improvviso gettando a
terra la chiave inglese con cui stava lavorando. “Sai cosa ti dico? Per oggi
basta lavorare. Ho deciso. Porterò Dean allo zoo adesso. Se lo merita di
passare un po’ di tempo da solo insieme a suo padre, no?”
Strofinò le mani unte sui jeans, e si allontanò sino a
raggiungere il furgone arrugginito.
Bobby non disse nulla. Tirò solo un profondo respiro.
Dean fece appena un paio di passi, prima di scuotere il braccio divincolandosi
dalla stretta di suo padre, e tornare indietro come un magnete attratto dal
polo inverso.
Non vi era forza in quei movimenti; sapeva che suo padre non avrebbe opposto resistenza.
E infatti non disse niente. Si limitò ad osservarlo mentre si arrampicava
silenziosamente sulla carrozzeria arrugginita del furgone, e raggiungeva il
fratello accucciato sui sedili anteriori polverosi tra piccoli pezzi di lego
disseminati in ordine sparso.
“Non vuoi venire allo zoo con tuo padre, Dean?”
Dean distese il petto sullo sterzo, e allungò le braccia sino a stringerne con
le dita sottili la parte più alta.
Chiuse gli occhi, chinò il capo.
Sam aveva lentamente cominciato ad accatastare quadratini di lego per ordine di
colore circondato da un silenzio disarmante.
Nessuno dei due sembrava notare la presenza del padre. A nessuno dei due sembrava importargliene
nulla, ad essere sinceri.
“Lasceremo Sammy qui da Zio Bobby a riposare e noi due ce ne andremo allo zoo, ti
va? Come due veri uomini.” Le labbra di John si riempirono di un sorriso così
patetico, così sfigurato.
“Da quanto tempo io e te non andiamo allo zoo? L’ultima volta non avevi nemmeno
un anno, probabilmente non ti ricorderai neppure. C’era anche la mamma...”
Senza muoversi di un solo centimetro, Dean riaprì gli occhi, e lo guardò.
Sam aveva appena terminato la torre rossa.
“Coraggio, andiamo.”
Fece la mossa di prenderlo tra le braccia, ma Dean si sottrasse a quelle mani
come un pesce che sfugge a un bambino che immerge le proprie nell’acquario.
“Non vuoi proprio venire?”
Dean raccolse i mattoncini gialli caduti sul cruscotto.
“E allora dimmelo!” Fu un istante. Dean venne trascinato giù
da mani forti – questa volta veramente
forti – e posto in piedi lì, faccia a faccia con il padre. Rigido come un
soldato.
Sam sgranò gli occhi con un’espressione di ingenuo stupore, quando la brutalità
dei movimenti fecero crollare tutte le torri che aveva costruito.
“Vuoi venire o non vuoi venire con me allo zoo, Dean?”
Lo strattonò. Una, due, tre volte. Fino a quando Dean non si piegò sulla
schiena e tirò via il braccio, prendendone nuovamente possesso. Non emise un fiato, né un gemito. Nulla.
Tutto ciò che John ebbe da lui, fu un’occhiata strana; non era odio – era
fastidio.
Lo stesso fastidio che si proverebbe nell’accorgersi di avere una macchia sulla
maglietta a fine giornata, o lo stesso fastidio che un pesce rosso proverebbe
nel constatare di aver sbattuto il muso contro l’ampolla di vetro.
Poi si voltò, e avrebbe replicato il movimento di pochi
minuti prima se solo John non si fosse posto davanti a sbarrargli la strada.
“Dean! Non andrai da nessuna parte se prima non risponderai alla mia domanda!
Vuoi o non vuoi venire con me allo zoo!? Dean!”
Chiunque avrebbe equivocato, era naturale farlo. E non vi era certo da sorprendersi se Bobby
si lanciò in una corsa scalmanata quando da lontano vide John scuotere con
forza le spalle del bambino e urlargli contro frasi indistinte.
Erano mani possenti e callose; quando smisero di scuoterlo, Dean le osservò
bene.
Voltò il capo lentamente, prima a destra, poi a sinistra.
Poi guardò il viso di suo padre.
Lo ispezionò con sguardo annoiato, muovendo le iridi verdi, cogliendone ogni tratto.
Viveva in un’acqua invisibile agli occhi, una dimensione difficilmente
comprensibile agli altri.
E l’assenza di questa consapevolezza era tutta lì, spalmata su ogni ruga di
quel volto contorto, ogni tratto imbruttito dalle luci laterali del pomeriggio.
Se solo fosse stato fuori da quell’acquario, probabilmente, avrebbe provato una
profonda tenerezza per lui.
“Oh, Dio...Dean...”
Bobby fece finta di non vedere il modo in cui John crollò in lacrime davanti al
figlio, stringendo il suo piccolo bambino inumano con una disperazione che gli
affondava nelle viscere come una lama appuntita.
Cambiò strada, si diresse verso l’officina, finse goffamente di essersi recato
a prendere qualcosa che non ricordava più. Ma non lo raggiunse.
---
Avvenne in pochi istanti, un vero e proprio scherzo del destino.
Nessuno quella mattina avrebbe potuto prevedere che Sam si
sarebbe svegliato con un febbrone da cavallo, e che l’ultima confezione di
Tylenol disponibile fosse già stata trangugiata qualche giorno prima da John
per far fronte alla spaventosa emicrania regalatagli dall’ennesima, micidiale
sbornia.
(La confezione trovata nel kit di pronto soccorso di Bobby, invece, recava come data di scadenza il 1981. Neanche
a parlarne).
Sam beveva a grandi sorsate annaspando nel bicchiere sorretto da Bobby. In quegli occhi lucidi semicoperti dalle palpebre, l’uomo poteva scorgere la silente preghiera del bambino di essere rimesso sotto le coperte prima possibile, ma la febbre lo aveva cotto per tutta la notte e lui si era talmente disdratato che, terminato il primo bicchiere d’acqua, gliene volle porgere sotto le labbra subito un secondo, con un gemito di protesta da parte del piccolo, che comunque non tardò a bere con avidità.
“Visto? Stai già meglio. Secondo me il potere della medicina è un po’ troppo sopravvalutato al giorno d’oggi...” Disse con tono rassicurante mentre tornava ad adagiare il bambino sotto le coperte.
In realtà, era consapevole di averla sparata grossa: il corpo di Sam era un ammasso di brividi e
affanni, e si era già preparato psicologicamente all’idea di ritrovarsi un
bambino di neppure tre anni scosso dalle convulsioni se solo John non si fosse
palesato con le medicine giuste nei prossimi venti minuti.
Adesso la febbre si era alzata ancora, e Sam non riusciva quasi a trattenerli,
quei piccoli gemiti che fuoriuscivano dalle sue labbra ad ogni respiro.
Quando bussarono alla porta, Bobby si sentì graziato.
Non avrebbe certo potuto immaginare che due responsabili dei servizi sociali
scegliessero di presentarsi proprio in quei dieci minuti in cui John era andato
a comprare le medicine portando
con sé Dean.
Sarebbe stato davvero, davvero lo scherzo più ridicolo che il destino avrebbe mai
potuto fargli.
Se solo fosse arrivato due minuti prima – esattamente
novanta secondi cronometrati prima- John ne avrebbe impiegati appena trenta per
infagottare Sam come un burrito, caricarlo in auto insieme a Dean, e imboccare
la Interstate 229 alla velocità del suono, direzione Duluth (Perché a chi diavolo
sarebbe mai venuto in mente di andare a cercarli nel cuore del Minnesota? Gli
stessi che erano andati a ricercarlo a Sioux Falls, si sarebbe risposto da solo
subito dopo).
Ma arrivò due minuti dopo, e quel che
trovò fu una Volkswagen nera parcheggiata di fronte casa e la consapevolezza
che se avesse imbracciato il fucile che aveva nel cofano, probabilmente in quel
luogo sarebbe sorto un giorno il memoriale di una strage.
“Vai nell’officina, trovati un nascondiglio e restaci fin quando non te lo dico
io. Corri!” Prese il viso di Dean tra le mani, e sperò che l’urgenza nella sua
voce fosse sufficiente da convincerlo ad eseguire il suo ordine. Dean era un
ottimo soldato; lo fece immediatamente.
O almeno, questo è ciò di cui John era convinto quando entrò in casa si preparò
ad affrontare la sua nuova battaglia con il respiro rotto e le mani tremanti.
In realtà, si dice che i pesci rossi non abbiano nulla per cui vivere, in
quanto privi dell’area celebrale che risponderebbe alle sensazioni di piacere e
di dolore.
E per Dean, forse era questa una delle ragioni per cui stava tanto bene da pesce. Aveva smesso di provare
interesse per il mondo circostante, aveva spento i ricettori del dolore così come
quelli del piacere, e li aveva messi da parte, in una soffitta del suo io carbonizzato adesso ovattata dalle acque.
Non vi era stato un solo momento in cui li aveva rimpianti. Erano lì, e stavano
benissimo dov’erano.
Vi era un’eccezione, certo. Perchè in fondo, la sua natura umana giocava ancora
un ruolo fondamentale nel suo essere, non lo aveva mai negato. Ma non aveva mai rappresentato un problema,
in quanto l’unica sua ragione di vita era parte integrante del suo acquario; quindi
aveva taciuto su quella piccolezza, aveva
lasciato che mettesse una pecca nella sua esistenza, e non se ne era neppure
dispiaciuto.
Il suo cervello acquatico non sapeva farlo.
Ad ogni modo, adesso fu differente.
Non seppe dire in cosa, non seppe dire perché. Ma non trovava alcuna ragione
per continuare a restare sotto quel tir in fase di smantellamento cui si era
rifugiato su richiesta di suo padre.
Non quando vi era una parte del suo mondo -
quella parte del suo mondo - altrove, e tutte le persone esterne erano concentrate
attorno ad esso.
Raggiunse la porta sul retro in tempo
per sentire Bobby zittire suo padre, e gli assistenti sociali parlare in
termini incomprensibili.
“E’ malato, cazzo. Non lo vedete? Gli verrà una fottuta polmonite se lo portate
via adesso!”
“Stiamo solo svolgendo il nostro lavoro, Signor Winchester. “
“Fatemi parlare con il vostro superiore. Subito.”
“Il numero è sul biglietto da visita che le abbiamo dato. Potrà chiamarlo dalle
nove e mezza alle tredici e dalle...”
“No, esigo parlargli adesso! E voi
non porterete mio figlio da nessuna parte se prima non ho parlato con lui!”
“John, calmati. Chiederemo aiuto al Pastore Jim; andremo a riprenderlo domani,
dopodomani massimo. Ma devi restare calmo o peggiorerai ogni cosa.”
“Sam? Hey, Sammy?”
Si dice che i pesci non abbiano consapevolezza del tempo e dello spazio, perchénon
sanno neppure di star nuotando. La presa di coscienza giunge solo quando si
ritrovano fuori dall’acqua.
Quando l’aria asciuga le loro branchie e i loro corpi vengono scossi da fremiti
incontrollabili, vi è un momento poco prima di morire asfissiati in cui il
cervello percepisce la natura di tutta la propria esistenza, la disvelazione di
un segreto che però non avrebbero potuto condividere con nessuno dei loro
simili.
Spalmato contro la pesante porta di legno, Dean sul momento non seppe dire se
ciò che gli risalì in gola nel momento in cui udì gli assistenti sociali
chiamare suo fratello ‘Sammy’ fu
simile alla sensazione dei pesci che vomitano acqua poco prima di morire.
Si tenne la bocca con entrambe le mani quando uno spasmo del suo esofago ne
fece risalire ancora.
Il pianto soffuso di suo fratello che veniva svegliato da
voci estranee si levò dapprima con dei singhiozzi, poi con dei lamenti via via
sempre più forti.
Forse, se avesse visto con i propri occhi il momento in cui uno dei due agenti
aveva sollevato suo fratello dal letto e lo aveva avvicinato delicatamente al
proprio petto, Dean non avrebbe costruito un’immagine tanto orrenda come quella
che aveva percorso la sua mente in quegli istanti.
O forse sì; forse lo avrebbe fatto comunque. Perché forse, non era il modo a trasformare il battito del suo
cuore in un rumore più simile ad un ronzio che a una pulsazione, ma il concetto: stavano portando via Sammy, l’altro
pesce del suo acquario.
E il suo corpo fremette, le sue guance svuotarono la bile risalita oltre la
loro capienza, e Dean annaspò, proprio come un pesce a contatto con l’aria.
I pesci hanno una memoria di soli trenta secondi, a breve avrebbe dimenticato ogni cosa.
Era il motivo per cui, quando guardava Sammy, gli sembrava di vederlo
sempre per la prima volta.
Di notte lo stringeva a sé con le braccia e con le gambe per sentirne la presenza nelle viscere e rinnovarne il
ricordo, e quando baciava quei capelli folti, l’umana sensazione di gioia si
fondeva con il suo io acquatico, e Dean diventava un essere perfetto, completo
nella sua contraddizione.
Ma era passato un minuto, o forse, erano i secondi ad
essersi dilatati. Perché Sammy non
smetteva di piangere, e le gambe di Dean fremevano; a quel punto avrebbero
dovuto entrambi aver dimenticato, Dio solo sapeva cosa glielo stesse impedendo.
Dean guardò in alto, e dell’acqua lasciò il suo volto.
Stava piangendo. Ma i pesci non piangono.
“Deeeeeeeeeeeeeeeeeeeean!”
Avvenne davvero in pochi, pochissimi istanti.
E nessuno avrebbe davvero potuto prevederlo.
Sam aveva abbandonato l’acquario, e adesso gridava il suo nome nella lingua
umana.
Aveva fatto le valigie, ed era andato via. Proprio come Jeffrey quando non ebbe
più paura dell’aria.
“Sa—“ Boccheggiò. L’aria stava bruciando ogni cosa. “—mmy”
L’acquario si ruppe, le lacrime esplosero, le schegge ferirono le sue corde
vocali atrofizzate, e il pesce morì.
“Sammy!” Gridò.
E Dean cambiò pelle.
Fine.
__
Scritta per il Secret Santa 2015 del
WincestareCattiveComeSam
Prompt di Shi Madeleine: Prompt: #2 Baby!Sam, Baby!Dean
Dopo l'incendio Dean ha smesso di parlare e nulla di quanto John abbia provato a fare ha funzionato. A volte la sua bocca si muove, ma i suoni non vogliono proprio uscire. Poi Sam pronuncia la sua prima parola -il nome di suo fratello- e Dean risponde.
Beta: Betta 3x9 & Narcy (Thanks
a lot! :3)
Note: L’ultima volta che sono
riuscita a scrivere “fine” in fondo ad una fanficiton, è stato sei anni fa.
Sono sconvolta! O_O
Ho scritto questa fics in quattro giorni, ed è lontana dall’essere
perfetta. Per cui, grazie davvero
infinitamente per averla letta!