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Autore: PerseoeAndromeda    14/01/2016    7 recensioni
Un sogno che si materializza un giorno di primavera, ma spesso, in una città come Tokyo, anche i sogni possono riservare delle sorprese
[Seconda classificata al contest "Across the universe" di Bluevion EFP]
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Autore: Perseo e Andromeda
Titolo: Sogno di primavera
Genere: Sentimentale
Avvertimenti: shonen-ai
Sezione scelta: Romantico
Riassunto: Un sogno che si materializza un giorno di primavera, ma spesso, in una città come Tokyo, anche i sogni possono riservare delle sorprese
 
 
 
HARU NO YUME
 
Sogno di primavera
 
La precoce calura di quel pomeriggio di primavera era alleviato, a tratti, da qualche sbuffo di vento che si insinuava tra i rami facendo tintinnare le foglie.
Louis si sentiva stranito, gli capitava spesso da quando si trovava in Giappone: le più piccole cose - una strada, un tempio che spuntava inatteso tra le abitazioni, gli edifici stessi, i parchi e gli alberi - ogni particolare, anche il più insignificante, appariva diverso che in tutto il resto del mondo.
Aveva viaggiato tanto, ma in nessun luogo si era sentito così sospeso tra la realtà e il sogno.
Quel giardino di Tokyo, trovato per caso, non era diverso.
Si mise a camminare nel silenzio, i rumori della metropoli non giungevano fino a quello che sembrava il varco per una dimensione senza tempo. Le scarpe frusciavano leggermente tra erba e sassolini, sulla sua testa i rami dei mandorli oscillavano e il frusciare del verde creava una musica che cullava chi aveva il tempo di stare ad ascoltare.
Da qualche parte, non si capiva dove, anche l’acqua faceva udire la sua melodia cristallina; persino la voce dei ruscelli risuonava più fresca e pulita che in ogni altro luogo.
Il sole scintillava tra le foglie verdi e i boccioli bianchi dei mandorli; gli alberi parevano carichi di tante pietre preziose.
Louis si lasciò rapire dall’atmosfera incantata, camminò per un po’ senza meta, gli occhi socchiusi, levati verso la cupola arborea.
Poi, quasi inconsciamente, si mise a rincorrere il richiamo dell’acqua e si lasciò guidare, senza domandarsi dove essa l’avrebbe condotto.
Dapprima credette che si trattasse di un’illusione, un gioco di luci e immagini generato dall’agitarsi del vento tra le fronde; poi il timore reverenziale ebbe la meglio e temette l’apparizione di uno di quegli spiriti bellissimi e inquietanti che popolavano tante leggende giapponesi. Si scoprì, perplesso, ad affrontare con naturalezza una simile possibilità perché lì, in Giappone, il mondo onirico e spirituale sembrava fondersi alla perfezione con la quotidianità.
Il primo particolare che lo colpì fu la scia d’ebano lucente dei capelli che volteggiavano a ogni leggero movimento, un contrasto perfetto con le pieghe del candido tessuto che avvolgeva la figura. Il kimono, dalle fattezze antiche, si allungava a coprire completamente le forme della creatura e, al contempo, le esaltava in maniera leggiadra. Più che camminare sembrava fluttuare, accentuando l’impressione di inconsistenza; Louis era pressoché convinto di non avere nulla di materiale davanti a sé.
Rimase immobile per un po’, lo sguardo fisso sul profilo pallido; era convinto che l’apparizione sarebbe svanita da un momento all’altro, rivelandosi per quello che era, frutto di immaginazione o fantasma d’altri tempi.
Invece, accadde tutt’altro.
I passi della creatura si arrestarono, il viso si mosse nella sua direzione e, l’istante successivo, due paia di occhi si specchiarono gli uni negli altri.
Un fantasma avrebbe dovuto trasmettere paura, ma in Louis non vi era traccia di paura.
Quegli occhi, neri come pozzi senza fondo, sembrarono urlargli tutta la loro tristezza… e dolcezza… e senso di protezione.
Certo, sapeva che gli yokai potevano essere ingannatori, sapeva che la tradizione giapponese pullulava di racconti sulle kitsune, gli spiriti volpe, che si presentavano spesso agli esseri umani sotto forma di donne dall’ambigua bellezza.
Quella creatura aveva, in effetti, sembianze femminili ed era senza dubbio anche bella, in un modo che appariva ambiguo appunto, innaturale.
Le labbra dipinte di rosso si mossero appena, ma Louis non riuscì a cogliere ciò che formularono: parole o semplice sospiro?
Ancora non osava muoversi né prendere alcuna iniziativa, per timore di spezzare l’incantesimo, di vedere svanire ciò che gli sembrava quanto di più straordinario potesse esistere persino nell’immaginazione.
Passarono istanti lunghi, infiniti, poi la bocca della creatura si mosse di nuovo, questa volta per sorridere e il capo si piegò in un delicato inchino. A quel punto Louis non poté fare a meno di ricambiare goffamente, chiedendosi cosa l’etichetta prevedesse di fronte all’inchino di un essere sovrannaturale.
Udì se stesso, come parte integrante del sogno, borbottare in maniera un po’ sconnessa:
“Scusa se… se ti ho disturbata. Passavo per caso... ho sentito il ruscello e…”.
“Nessun disturbo”.
Sussultò, tirando su il capo con una certa sorpresa; non sapeva che voce aspettarsi da uno spirito, forse non si aspettava neanche che avrebbe risposto...
Forse non aveva neanche pensato cosa avrebbe dovuto aspettarsi.
Di sicuro non si era immaginato una voce così umana. Bella, musicale...ma indubbiamente umana, forse persino troppo profonda per appartenere a una creatura femminile così delicata.
Louis mosse un passo, ma lo scricchiolio della sua scarpa sui sassi gli sembrò così stonato e stridente che si bloccò subito, in preda all’imbarazzo. Non sapeva se scusarsi ancora o tacere. Una parte di lui era convinta di doversene andare, di avere interrotto qualcosa di sacro e cercava un modo un po’ elegante per congedarsi dall’apparizione.
Vi era, tuttavia, un’altra parte di lui, forse ancora più rumorosa e pulsante, che desiderava ardentemente restare… e parlare, conoscere, capire.
La creatura sembrò intuire i suoi pensieri, perché sorrise ancora e riprese a parlare:
“Non devi sentirti in obbligo di interrompere la tua passeggiata a causa della mia presenza. È talmente bello qui che non sarebbe giusto privarsi per imbarazzo di una tale bellezza".
Louis era sempre più stranito: l’apparizione non sembrava più così inconsistente, la voce, le espressioni, tutto gli parve all’improvviso bellissimo e meravigliosamente umano.
Una nuova ondata di coraggio lo travolse e riprese a camminare, senza più porre attenzione alle sensazioni negative che i propri passi gli trasmettevano.
Non si soffermò a riflettere su quanto fosse assurdo persino porsi tanti dubbi: in una città come Tokyo non ci si doveva chiedere nulla, bisognava semplicemente accogliere ciò che aveva da offrirti, l’aveva capito da tempo. Quell’incontro non poteva essere altro che il culmine di tutte le sorprese avute in quei giorni nel paese delle meraviglie nipponico; già l’esistenza di quel frammento di parco, al riparo di sguardi ed invasioni da parte della civiltà, somigliava, di per sé, a un incantesimo.
La figura non svanì, ne tentò di allontanarsi; lo osservò, anzi, con una certa curiosità intrisa di cortesia, mentre lui si accostava al ruscello, fino a scorgere la trasparenza perfetta che lasciava ammirare le pietre lucide e levigate sul fondo.
“Non immaginavo che a Tokyo esistesse un posto così silenzioso… solitario”.
“A Tokyo esiste tutto se lo si cerca. Non è una semplice città… è un universo “.
Nessuna risposta avrebbe potuto essere più perfetta di quella e con quella voce poi… impossibile dare una definizione alle infinite sfumature che la caratterizzavano.
“Credo tu abbia ragione “.
Louis si acquattò sulla riva, abbracciandosi le gambe; un attimo dopo il volto della creatura si riflesse nell’acqua e, con la coda dell’occhio, percepì l’accovacciarsi del suo corpo accanto al proprio. Suo malgrado, Louis fu colto da una tale emozione che il suo cuore prese a battere all’impazzata.
“Sei americano?”.
“Inglese veramente” rispose tentando, probabilmente senza riuscirci del tutto, di dissimulare quell’emozione così intensa.
"Il tuo giapponese è molto buono..." commentò la creatura con un sorriso timido, riservato, tipico di una ragazza d'altri tempi... una leggiadra figura, dalla pelle di seta, così, almeno, appariva agli occhi sfuggenti di Louis.
Seta bianca, come il suo kimono, adagiato su meravigliose camelie rosse che parevano fluttuare tutto attorno all'apparizione.
"E'... è..." balbettò Louis, abbassando gli occhi sulle proprie mani tremanti, mentre la bocca si asciugava di saliva e parole.
La creatura si sistemò una ciocca dietro un orecchio, lievemente, in silenzio, come se avesse compreso la momentanea difficoltà del ragazzo.
"... studente..." riuscì infine a dire Louis, quasi paonazzo per lo sforzo: era la magia di quella vicinanza, era la sua magia... come in quelle misteriose leggende che amava leggere. "Studio le lingue...".
Un dito della mano della creatura si allungò, fino a sfiorare la superficie dello specchio d'acqua che, tranquillo, come soggiogato da quel tocco, parve rallentare la sua corsa. Il cielo terso di quella giornata primaverile rimandò la propria immagine sulla Terra, in quel ruscello al centro di una Tokyo che pareva trasfigurata da un silenzio di cui, a volte, pareva dimenticare l'esistenza.
Appariva come un giardino dell'Eden, un'isola perfetta di una serena solitudine.
"Un ragazzo inglese che studia la mia lingua... ma che pare averla dimenticata...".
Un sorriso, uno sguardo limpido, cristallino, come dipinto da lunghe ciglia nere strappò, ancora una volta, la parola a Louis che guardò, come inebetito, labbra rosee e sottili che s'incresparono in una risatina divertita e innocente.
Tutto d'un tratto, Tokyo si ricordò di se stessa e parve riscuotersi in un fremito leggero, attraversando l'aria e colpendo Louis direttamente al cuore.
D'un tratto, quell'isola parve animata da qualcosa di più che semplice solitudine.
Da quel momento venne tutto naturale, parola dopo parola, giorno dopo giorno, due estranei non furono più tali e quell’inizio di primavera segnò l’inizio della loro storia.
 
 
***
 
 
Si chiamava Aki ed era un’attrice, questo era tutto ciò che aveva raccontato di sé. Per il resto, l’affascinante creatura dal candido kimono manteneva intatto l’alone di mistero con cui aveva accolto Louis il primo giorno.
La loro affinità cresceva, ma tra loro vi era sempre come una barriera, un confine che non poteva essere superato.
Ciò non impediva a Louis di legarsi ad Aki in un modo che andava ormai oltre la curiosità o la semplice attrazione. Inizialmente, recarsi in quel parco, giorno dopo giorno, cercare quell’angolo solitario e trovarla lì erano un bisogno dettato dalla curiosità, dal modo in cui quella situazione lo intrigava. Poi si era trasformato in pura necessità, una dipendenza alla quale non era possibile rinunciare e Aki lo incoraggiava, promettendogli che lei sarebbe stata lì ad attenderlo.
Perdeva importanza anche il semplice fatto che Aki non volesse incontrarlo in nessun altro luogo, come se tutta la sua esistenza fosse confinata in quel piccolo spazio di acqua, cielo e mandorli sempre più carichi di fiori.
Era difficile capire quando fosse cominciato, da quale esatto momento l’attrazione di Louis si fosse trasformata in desiderio struggente. Giorni di frequentazione, di consapevolezza che i loro incontri, per quanto effimeri, stessero rendendo sempre più profondo il loro legame.
Non importava quanto Aki continuasse a rimanere un mistero, quanto eludesse il bisogno che Louis aveva di conoscere maggiori dettagli su di lei…
A un certo punto, tutto ciò che contava per Louis furono quegli istanti che trascorrevano fianco a fianco e il desiderio, sempre più opprimente, di approfondire il contatto dei loro corpi che, fino a quel momento, non era andato oltre un lieve sfiorare di mani.
Quel giorno, Louis trattenne più a lungo la mano di Aki nella propria; il lieve tocco si trasformò in una stretta decisa, una stretta che parlava, e il messaggio che trasmetteva dovette giungere fino alle percezioni di Aki, perché la ragazza si irrigidì. Non sottrasse la mano, ma Louis la sentì tesa tra le proprie dita.
“Aki…” mormorò, cercando di rendere rassicurante il proprio richiamo, ma non riuscì a nascondere il desiderio di cui era intriso.
La ragazza si raccolse in se stessa, il volto così rintanato tra le spalle fin quasi a scomparire e, quando anche l’altra mano di Louis raggiunse il suo corpo, esso fu scosso da tremiti violenti.
Le dita di Louis cercarono la guancia più vicina, impressero una leggera violenza per costringere Aki a sollevare il viso e quello che incontrò fu un’espressione di puro terrore.
“Io… credo di amarti…”.
Gli occhi neri si aprirono in tutta la loro profondità; per un attimo, Louis temette che la ragazza volesse scappare via, perché si alzò in piedi, con uno scatto, e fece un passo indietro, strappando se stessa a ogni contatto.
Invece rimase ferma e non distolse lo sguardo da lui; lo spavento iniziale si dissolse e, quando una mano di Louis si sollevò, supplice, un po’ per chiedere perdono, un po’ per implorare la sua presenza, lei si chinò appena, racchiuse quella mano tra le proprie e lo attirò verso l’alto.
Louis colse l’invito ad alzarsi, ma adesso era lui a tremare e le sue gambe erano malferme, tanto che, quando si ritrovò in piedi, barcollò in avanti. Fu Aki a sorreggerlo, le mani sulle spalle, sollevando gli occhi verso i suoi e guardandolo in un modo che a Louis provocò un forte capogiro.
Aki era piccola, tanto più esile e bassa di lui, ma la forza delle sue mani lo stupì, leggere e, al tempo stesso, decise quando salirono alle sue guance. Poi la ragazza si sollevò in punta di piedi e, con le labbra, sfiorò quelle del giovane.
Quando si staccò, labbra e mani scivolarono via, lei indietreggiò.
“È tutto ciò che posso concederti… per favore… non chiedere altro…”.
Louis non poté ribattere, perché Aki gli diede le spalle e corse via. I mandorli la accolsero, poi la nascosero come tende di un sipario. Il cuore del giovane era troppo stretto, le gambe ancora instabili e una voce, dentro di lui, gli imponeva di non provare a seguirla.
 
 
 
 
Lo specchio riflette qualcosa che dovrei conoscere bene, ma ogni volta ciò che vedo mi rende incerto, mi comunica un senso di indefinito, lo stesso che mi coglie ogni volta che penso a me stesso.
La verità è che non so chi sono, non so cosa sono, non ho mai realmente scelto ciò che davvero desideravo per me, perché la possibilità di conoscere fino in fondo la mia natura non l’ho mai avuta.
Mi hanno sempre insegnato a essere una donna e io non ho mai chiesto il motivo: sono salito sul palcoscenico e ho fatto ciò che si pretendeva da me.
“È così bello!”.
“È più femminile delle donne e ha una tale grazia, un talento così innato!”.
Così mi sono abituato a vestire i panni delle donne, a pensare, persino a sognare come le donne e quando lo specchio riflette il mio corpo senza veli, vedo quello che si cela sotto quegli abiti e non mi riconosco.
I ruoli che da sempre interpreto hanno preso il sopravvento fino a plasmare la mia natura, persino quella più intima.
Mi sarei innamorato di lui se fossi cresciuto come un uomo?
Non lo so, non lo posso sapere e non lo saprò mai.
Quel che è certo è che lui ama una donna, lui non conosce l’uomo che quelle apparenze femminili tengono nascosto al mondo.
Lui ha visto la donna, vuole la donna.
Rivelargli la verità significherebbe perderlo, così mi limito a non viverlo.
Mi allontano da lui preferendo che mi ricordi come il sogno irrealizzato, ma sempre vivo, nel suo cuore: sarò per lui la donna che esiste solo nella sua memoria, colei che ha incontrato per caso, sotto le chiome dei mandorli in fiore scossi dalla brezza.
Il sogno di istanti sospesi, destinati a rimanere tali, un sogno che entrambi potremo continuare a vivere, ma che in lui morirebbe se scoprisse la verità.
Quale verità tra l’altro?
Come posso considerare reale un’identità di cui non sono certo nemmeno io?
Non è una vera bugia, in fondo, se io stesso non mi sento uomo.
Non mi sento neanche donna.
In alcuni momenti non mi sento nulla, io stesso giungo a chiedermi se tutta la mia esistenza sia pura finzione, se la mia persona sia reale o materializzazione dei sogni creativi della gente.
Se non sono reale non dovrei neanche provare sentimenti, non dovrei soffrire per quello che sono… o che non sono.
Vorrei solo essere amato, come tutti quelli che esistono, ma potrò esserlo solo in quanto protagonista fittizia dei sogni altrui.
Ho deciso…
Oggi gli dirò addio.
 
 
 
C’era qualcosa di strano, di diverso nella figura di Aki, quel giorno, e non era nulla di positivo, questo pensava Louis mentre, seduti fianco a fianco sulla riva del ruscello, restavano in silenzio, un silenzio che si protrasse a lungo, troppo a lungo.
Non era come quei silenzi leggeri e armoniosi che intercorrevano tra loro, di solito, quando le conversazioni raggiungevano il loro naturale esaurirsi.
C’era pesantezza nel silenzio di Aki, vi era stata pesantezza persino nel suo benvenuto, mormorato senza l’abituale sorriso.
Gli occhi neri della giovane fissavano insistenti il fluire costante dell’acqua, così in contrasto con la fissità quasi attonita del suo sguardo.
Louis, invece, guardava lei e il suo sguardo non era immobile, correva lungo tutte le membra, si soffermava sui punti che il kimono lasciava intravvedere e sulle pieghe e le volute dell’abito, immaginando ciò che si nascondeva sotto di esso e che non aveva mai potuto contemplare.
Era difficile per Louis trovare il modo di rompere quello stallo e allora fu quel parco, che tanto l’aveva conquistato, a corrergli in aiuto.
C’era vento quel giorno, proprio come il giorno del loro primo incontro e, come allora, i rami dei mandorli si agitavano e frusciavano. Tuttavia, la primavera aveva raggiunto il suo culmine e gli alberi erano ancora più carichi della candida infiorescenza.
Il vento si impossessava dei fiori, trascinandoli in un turbine senza fine.
Uno sbuffo più forte ne strappò una gran quantità dalla chioma sopra di loro e un fiore si depositò tra i capelli di Aki, spruzzo di bianco su un tappeto nero come la notte.
La mano di Louis si mosse per istinto e raggiunse il fiore, inizialmente con l’intento di toglierlo, ma poi le sue dita si trovarono ad accarezzare le ciocche lucide e morbide.
Aki sussultò, sorpresa, come se fino a quel momento si fosse trovata in un altro luogo e il tocco di Louis l’avesse ricondotta lì, a condividere quei momenti con lui.
Louis ridacchiò, intenerito, seppur oppresso da brutte sensazioni.
“Dov’eri? Persa in qualche epoca lontana, in uno dei ruoli che interpreti?”.
La giovane scosse il capo e lo abbassò, sorridendo senza allegria.
“Stavo pensando… a come rendere meno triste questo giorno che prima o poi doveva arrivare”.
Il cuore di Louis si fermò senza che il ragazzo sapesse perché.
Forse il suo cuore sapeva già tutto, ma non aveva il coraggio di rendere palese la verità, permettendole di salire in superficie.
Il fiore di mandorlo scivolò via insieme alla mano di Louis che, in questo modo, sfiorò il braccio fasciato dal kimono e percepì il brivido che attraversò il corpo di Aki.
La ragazza si scostò, come a respingere il gesto.
“Perché tutta questa paura?”.
Due dita si chiusero su un lembo del kimono mentre Aki si alzava e il movimento della giovane mise allo scoperto i piedi nudi, bianchi quasi quanto il tessuto che indossava.
“Non ho paura di te, non fraintendere” lo smentì subito lei, “sono spaventata perché…”.
Si bloccò, con una mano raccolse il lembo di kimono ancora prigioniero delle dita di Louis e il ragazzo lo sentì scivolare via, proprio come i suoi occhi osservarono, all’improvviso, l’allontanarsi di Aki, sempre più distante: evanescente come il primo giorno, si confondeva sempre più con i fiori che danzavano nel vento attorno a lei.
“Non sono spaventata, forse solo un po’ triste, ma so che è la cosa giusta”.
“Aki… di cosa parli?”.
“Io sono il tuo sogno, Louis… ricordami così, portami nei tuoi ricordi, io non posso legarmi a nessuno, ma ti porterò nei miei sogni”.
Come già era accaduto una volta, un sipario di mandorli si richiuse sulla figura che indietreggiava e, come allora, Louis non poté muoversi. Le sue lacrime, come i fiori, vennero rapite dal vento.
 
*
 
Non la rivide più.
Tornò per giorni in quel parco, seguì la voce del ruscello, ma Aki non tornò.
La primavera giunta al termine l’aveva portata via con sé.
 
 
 
EPILOGO
 
 
Passò un anno.
Louis si trovava ancora a Tokyo, in un piccolo appartamento in mezzo a tanti altri, in una stradina tranquilla di Shinjuku.
La casa era minuscola e un po’ angusta: l’angolo cucina all’entrata, sulla sinistra, il bagno a destra e la zona nella quale stendeva ogni notte il futon separata dal resto dell’ambiente da un fusuma scorrevole.
A lui bastava, era il suo nido, un piccolo spazio di Tokyo tutto per lui; ma in particolari momenti si sentiva soffocare e quel piccolo spazio diventava davvero troppo piccolo e i suoi pensieri troppo sovrabbondanti per essere contenuti in quelle mura.
Per questo, benché fuori piovesse e lui non avesse impegni, non riuscì a stare rinchiuso. L’anno precedente, in quello stesso periodo, non pioveva e la primavera era mite, anticipava quello che sarebbe stato il caldo dell’estate…
E lui aveva incontrato Aki.
Aveva tentato per giorni di rivederla, dopo il suo addio, senza successo, e non era mai più tornato in quel parco.
Pensò che forse era giunto il momento.
Gli scrosci di pioggia attraversavano le pareti e tintinnavano sui piccoli vetri della casa; indossò l’impermeabile, si infilò le scarpe e uscì, tirando il cappuccio sul capo.
Quando ebbe chiuso alle sue spalle il cancelletto esterno, il cielo aveva già riversato su di lui abbastanza acqua da renderlo immediatamente fradicio.
Gli acquazzoni giapponesi potevano ricordare i rovesci tropicali e, d’altronde, quando faceva caldo, era l’umidità estiva a penetrare fin nelle ossa. Louis aveva imparato a conoscere i disagi del clima nipponico, tuttavia quella pioggia che cadeva a ramate era forse più sopportabile dell’afa estiva.
Infilò le mani in tasca, inutilmente dato che, nonostante l’impermeabile, l’acqua era già riuscita a penetrare dovunque.
Ironizzò tra sé, mettendosi persino a ridacchiare da solo, riflettendo sui livelli cui lo conducevano quegli attacchi di masochismo.
Eppure Tokyo gli piaceva anche così: ogni condizione atmosferica era in grado di mettere in risalto la poesia delle cose, che giungeva intatta, persino lì, a Shinjuku, uno dei quartieri più pulsanti e frenetici della capitale.
Lungo la strada stretta sulla quale si affacciava il suo appartamento, allineato in maniera ordinata insieme ad altre case e giardini, si stendeva un tappeto di petali e fiori che il maltempo aveva strappato ai ciliegi e ad altri alberi lì intorno e che rendevano i passi più morbidi e ovattati.
Svoltato un angolo era come trovarsi in un altro mondo: le macchine si alternavano tra una direzione e l’altra, molte persone correvano sotto gli ombrelli, ansiose di raggiungere un riparo. Qualche coraggioso… o completamente pazzo… si avventurava sotto la pioggia in bici, riuscendo, con un invidiabile esercizio di equilibrismo, a reggere in una mano l’ombrello e a sfrecciare senza alcun impiccio lungo le strade bagnate.
Le prime volte cui aveva assistito a simili scene, Louis era rimasto a contemplarle con un misto di incredulità e timore reverenziale, ma aveva imparato ben presto a non farci più caso.
Era intanto giunto in una zona molto più simile alla Shinjuku che si era portati a immaginare: la vista spaziava tra grattacieli e insegne luminose.
Il semaforo pedonale davanti ai suoi occhi cambiò da rosso a verde e una melodia che riproduceva il trillo di un uccellino accompagnò la traversata dei passanti.
Louis e le altre persone in attesa raggiunsero il marciapiede opposto, dove vennero accolti da due simpatici pupazzi in divisa che annunciavano la presenza di un koban. Un po’ meno rassicuranti erano i volti dei ricercati che occhieggiavano dai manifesti appesi all’esterno.
Dopo qualche passo le due torri del palazzo del governo metropolitano svettarono nel cielo, le sembianze di un’imponente cattedrale gotica in veste moderna che vegliava orgogliosa su Shinjuku.
Louis sollevò il capo verso l’alto, a contemplare la cima del palazzo e, quando lo riabbassò, il suo sguardo fu attratto da un manifesto che annunciava uno spettacolo teatrale in zona.
La fotografia al centro del manifesto gli fece sgranare gli occhi e lo attrasse, costringendolo ad avvicinarsi, per vedere meglio.
Sembrò una nuova allucinazione, proprio come quella che gli era apparsa l’anno prima sotto i mandorli: i capelli neri come l’ebano, la carnagione bianca, quegli occhi scuri come l’abisso. Ma i capelli erano più corti e il kimono era sostituito da un elegante completo maschile.
Il nome che campeggiava sotto la fotografia fu una conferma e una freccia conficcata nel suo cuore.
“Aki…” mormorarono le sue labbra.
Quanto era stato stupido a non capirlo… o forse non se l’era neanche chiesto, cosa importava? Aki era un onnagata.
Sorrise.
“Ecco cosa mi sfuggiva di te… ed ecco perché sei scappato”.
Sapeva che sarebbe dovuto uscire quel giorno, i sogni vanno afferrati quando si presentano, ma il parco dei mandorli non era il luogo giusto: questa volta, la sua destinazione sarebbe stata il teatro.
   
 
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