Libri > Il Signore degli Anelli e altri
Ricorda la storia  |      
Autore: Losiliel    15/01/2016    7 recensioni
Il primo incontro di Curufin con la sua futura sposa.
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Celegorm, Curufin, Fëanor, Maedhros
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Dedicato a tutte le lettrici che con i loro preziosi commenti a Tenn'Ambar-metta mi hanno calorosamente accolto in questo sito.
Grazie a tutte, ragazze!




 

LA MOGLIE DI CURUFIN
 

________________________________
 

Il primo incontro di Curufin con la sua futura sposa.
 

PROMEMORIA NOMI
Curufinwë (Curvo) = Curufin
Fëanáro = Fëanor
Nelyo (Nelyafinwë) = Maedhros
Káno (Kanafinwë) = Maglor
Turko (Turkafinwë) = Celegorm
Moryo (Morifinwë) = Caranthir
Nolofinwë = Fingolfin
Arafinwë = Finarfin
Findaráto = Finrod

ATTENZIONE: in questo brano il nome Curufinwë si riferisce sempre ed esclusivamente a Curufin, mai a Fëanor.

WARNING per punto di vista di Curufin (anzi, di un giovane Curufin), e ho detto tutto.

 ________________________________


 

 

La vita di Curufinwë era esattamente come lui la voleva.

Dopotutto, non poteva essere altrimenti, dal momento che ci aveva lavorato duro praticamente dal giorno in cui era nato.

E quando uno era dotato di una mente analitica superiore come la sua, di una velocità ad apprendere stupefacente, di una tenacia straordinaria, di una capacità di osservazione e deduzione che non aveva pari, sì, insomma, quando uno era così decisamente superiore alla media, non c'era da stupirsi se otteneva sempre i risultati che si proponeva di raggiungere.

Inoltre, Curufinwë aveva avuto uno scopo che non poteva permettersi di fallire.

Quando era ancora molto piccolo, si era reso conto che le lodi che riceveva dal padre (il grande Principe Fëanáro di cui tutti parlavano con soggezione) non erano elargite con lo stesso entusiasmo ai suoi fratelli più grandi. E dato che il responsabile di questo trattamento diseguale non poteva certo essere il genitore, che senza dubbio aveva cominciato con l'apprezzare tutti i suoi figli allo stesso modo, era evidente che i fratelli avevano fatto qualcosa, durante gli anni della loro crescita, per fargli cambiare opinione.

Curufinwë aveva quindi messo tutte le sue innumerevoli doti al servizio di un unico scopo: evitare di incorrere nello stesso errore dei fratelli (qualunque fosse stato) e dimostrarsi degno di tanta considerazione. E non aveva fallito: il padre non aveva mai smesso di elogiarlo, e la stima di cui lo faceva oggetto era aumentata nel tempo anziché calare.

Volendo essere sinceri (una delle poche cose che non riusciva facile a Curufinwë), l'impresa era stata più complicata di quanto a lui piacesse ammettere.

Per prima cosa, la sua bravura negli studi l'aveva continuamente sottoposto al paragone con il migliore dei suoi fratelli, l'erede, il perfetto Nelyafinwë ammirato da tutti. "Scrive bene come Nelyo alla sua età", "legge bene come Nelyo alla sua età"…

Eru, quanto aveva odiato quel "come"!

E quanto era stato bravo a non lasciar trapelare la propria insofferenza per quei commenti, né la frustrazione per non essere, di fatto, mai riuscito davvero a superare il fratello perfetto! Contenere le proprie emozioni era la Regola Numero Uno per non passare per debole (cosa pensava il padre davanti ai musi lunghi di Káno, agli scoppi d'ira di Turko o alle scenate di Moryo, se non che fossero segni di debolezza?).

Inoltre aveva dovuto perdere molto del suo preziosissimo tempo per ammaestrare i fratelli, che avevano avuto la spiacevole tendenza a stargli sempre addosso. Aveva faticato non poco per fargli capire che se desiderava compagnia l'avrebbe cercata lui stesso, non occorreva che venissero a bussare di continuo alla sua porta per chiedergli se aveva bisogno di qualcosa, se voleva andare a caccia, a fare una passeggiata, a pranzo o, colmo della domanda assurda, se era ancora vivo! Ancor meno occorrevano inutili manifestazioni d'affetto che implicassero il contatto fisico; abbracci o baci erano sgraditi (e minacciavano, tra l'altro, di far saltare l'imprescindibile Regola Numero Uno).

Grazie a Eru, o meglio grazie alla passione che ancora legava i suoi genitori, questo problema si era in parte risolto quando erano nati i gemelli e l'attenzione dei componenti della famiglia era stata deviata su di loro.

Comunque, alla fine, tutto era andato secondo i suoi piani e da diversi anni ormai le cose procedevano esattamente come lui le aveva programmate. Non veniva più disturbato da nessuno (fatta eccezione per Turko, che per qualche oscuro motivo si era scelto come missione personale quella di infastidirlo), poteva scegliersi le materie di studio che più lo interessavano (anche se continuava a seguire scrupolosamente i consigli del padre) e, terminati gli incarichi che gli venivano assegnati in quanto appartenente alla famiglia reale, aveva il permesso di trascorrere il resto del suo tempo alla fucina.

Lavorare col padre era l'apice del suo successo, il suo punto di arrivo. All'inizio era stato difficile concentrarsi su ciò che gli veniva richiesto, impegnato com'era a tenere sotto controllo la soggezione davanti al genitore (irraggiungibile nella sua assoluta perfezione) e soprattutto la paura (chiaramente irrazionale) di non corrispondere, in realtà, all'immagine che il padre si era fatto di lui. Ma ben presto, l'impegno e l'attenzione necessari per operare a quei livelli di destrezza avevano richiesto tutta la mente superiore di Curufinwë, impedendogli, di fatto, di preoccuparsi di altro che non fosse il suo lavoro. Da tempo ormai, nell'ampia costruzione di pietra che ospitava la fornace, poco fuori dalla città di Tirion, i due lavoravano serenamente, fianco a fianco, in silenzio, a volte su progetti in comune, più spesso ognuno alla propria opera; talvolta il padre gli dava consigli, ma per lo più lo lasciava provare da solo.

E quando scendeva la sera, prima di tornare verso casa, si sedevano a riposare sotto un pergolato rivolto a occidente, a guardare il calar di Laurelin e il sorgere del suo argenteo compagno, e parlavano a lungo, loro due soli, delle loro opere, della visione del mondo, dei progetti per il futuro.

In quei momenti Curufinwë si concedeva di lasciar trasparire un briciolo della gioia che lo pervadeva, e talvolta il padre, in segno d'affetto, stendeva un braccio verso di lui per stringergli il polso con la sua mano calda (e lui quel tocco lo bramava e lo temeva in egual misura, per il terremoto di emozioni che scatenava).

Il padre era l'unica persona che Curufinwë stimava più di sé stesso, e l'unica di cui gli importava il giudizio. In rari momenti di debolezza, a lui piaceva pensare che un giorno anche Fëanáro avrebbe provato i medesimi sentimenti nei suoi confronti.

Insomma, alle soglie della maggiore età, la vita di Curufinwë era perfetta, e il suo unico desiderio era che continuasse esattamente così com'era riuscito a costruirsela: a fianco del padre, per sempre. 
 

-
 

Era quindi stato colto completamente alla sprovvista quando Fëanáro aveva cominciato a fargli capire che si aspettava da lui che prendesse moglie e che avesse a sua volta dei figli. Il padre non insisteva mai troppo a lungo sull'argomento, niente più di qualche velato accenno, ma Curufinwë era abbastanza intelligente da capire che questo era un segno di quanto realmente gli importasse. Così, alla fine, si era deciso a prendere in considerazione seriamente la cosa, e come sua abitudine l'aveva fatto con metodo e con razionalità, valutandone gli aspetti favorevoli e quelli contrari.

Tra i primi c'era sicuramente il desiderio di compiacere il padre, e quello, altrettanto forte, di superare, anche in questo ambito, i fratelli maggiori. Superare Nelyo, che aveva evidentemente promesso il suo cuore a qualcuno che non avrebbe mai potuto avere, e Turko, che nel suo incessante saltare da una fanciulla all'altra mostrava solo la sua insofferenza per non poter ottenere chi realmente voleva. Superare Káno, che pur essendosi sposato, non era ancora stato benedetto dal dono di un figlio, e Moryo, che, se aveva qualcuno nel suo cuore, era così abile a tenerlo nascosto che nemmeno Curufinwë avrebbe saputo dirlo.

Ma anche l'elenco dei contrari era ben fornito: sposarsi avrebbe significato avere meno tempo da trascorrere col padre, un figlio l'avrebbe costretto a rivedere le sue priorità, a rimettere mano al suo progetto di vita. Cosa terribilmente seccante, considerata la fatica che aveva dovuto penare per arrivare dov'era.

Senza contare che, in ogni caso, non aveva mai incontrato una fanciulla che suscitasse in lui il minimo interesse. Le ragazze le riteneva frivole, dagli interessi noiosi e dall'intelligenza mediocre. Che era lo stesso identico giudizio che dava dei ragazzi, a dire il vero. Ma di questo ovviamente non gli importava, dato che non era previsto che dovesse passare la sua vita con uno di loro. Invece, a quanto pareva, era dato per scontato che dovesse farlo con una ragazza, e questo lo trovava molto irritante.

Sommato tutto, però, il suo orgoglio e la fiducia cieca che riponeva nel padre (e molto aveva pesato anche il "superare Nelyo") avevano prevalso e, sebbene con scarso entusiasmo, Curufinwë era entrato nell'ordine di idee che alla sua lista di cose da fare avrebbe dovuto aggiungere la voce: 'scegliere una moglie'.

L'occasione giusta sembrò presentarsi la sera della Festa del Raccolto, al Palazzo Reale di Tirion.

Era la prima volta che Curufinwë vi partecipava, avendo raggiunto la maturità solo quell'anno, e l'avevano tutto agghindato per l'evento. La sua chioma corvina l'avevano intrecciata in un'acconciatura troppo elaborata per i suoi gusti, che gli tirava da tutte le parti, e gli abiti che gli avevano fatto indossare erano poco pratici, gli pesavano addosso e gli pizzicavano la pelle. I gioielli, però, che gli ornavano i polsi, il collo e le orecchie, li aveva disegnati e realizzati lui stesso, ed era fiero, e un po' timoroso (ma questo non l'avrebbe mai ammesso a nessuno) di indossarli davanti a tutta la corte.

Nelyo, com'era prevedibile, gli aveva detto che stava benissimo. Nelyafinwë diceva sempre quello che pensava gli altri volessero sentirsi dire. Però anche Turko gli aveva detto la stessa cosa, e quindi poteva essere certo di avere un aspetto più che dignitoso, perché Turko aveva la stupidissima abitudine di dire sempre la verità. Sua madre, che sapeva quanto il quintogenito odiasse il contatto fisico, gli aveva tolto un invisibile granello di polvere dalla spalla, l'aveva chiamato "Curufinwë" forse per la prima volta, e gli aveva assicurato che tutto sarebbe andato bene.

– Ovvio – aveva risposto lui, celando l'orgoglio nel sentirsi chiamare con quel nome da sua madre dietro una maschera di impassibilità.

Ma non c'era niente di ovvio, in verità. Il pensiero di dover avvicinare una fanciulla, di doverla… faceva persino fatica a formulare la parola nella sua mente… corteggiare, lo rendeva teso e lo faceva sentire a disagio. Aveva fatto il suo ingresso nel sontuoso Palazzo Reale, che dalla cima di Túna dominava tutta la città di Tirion, col presentimento che le cose sarebbero state più complicate di quanto la madre gli avesse voluto far credere.

E la cena aveva confermato i suoi timori.

Nel tentativo di ignorare Turko, che gli additava tutte le fanciulle in sala descrivendone pregi e difetti ad alta voce, aveva passato il tempo a contemplare il tavolo del Re, al quale sedevano anche Fëanáro e Nerdanel, e Nelyafinwë, in quanto erede. Come sempre, aveva cominciato a immaginarsi al posto del fratello maggiore, a fianco del padre. Ma questa volta (era la prima volta che vedeva Nelyo in un'occasione ufficiale, alle prese con i figli di secondo letto del Re) era stato costretto a riconoscere l'abilità del fratello. Ad ammettere che forse lui non sarebbe stato capace di essere altrettanto diplomatico, che forse non sarebbe riuscito a frenare la lingua davanti allo zio Nolofinwë, e alla madre di lui. In breve, aveva dovuto ammettere che aveva ancora molto da imparare da quel fratello che nei suoi sogni si immaginava di soppiantare.

E se c'era una cosa che Curufinwë odiava più di ammettere che qualcuno era migliore di lui, era ammettere che quel qualcuno fosse Nelyafinwë.

A complicare le cose, come al solito, ci aveva pensato Turko. Preso com'era dall'osservare il fratello perfetto, Curufinwë non si era accorto che quello selvaggio aveva continuato a riempirgli il bicchiere ogniqualvolta lo trovava vuoto, e adesso sentiva un leggero giramento di testa e non era certo di avere la completa padronanza delle estremità.

Ma peggio ancora della cena si era rivelato il dopo-cena, quando la festa si era trasferita nel salone da ballo.

– Io non ballo – aveva detto categorico a Turko, cercando di allontanare da sé il pensiero di una persona sconosciuta, accaldata e (orrore!) magari anche affannata, che gli si aggrappava alla veste.

Ma il fratello non si era dato per vinto: – Non credo tu abbia alternative… e poi ti ho visto durante le lezioni di danza, sei bravo.

– Il che è irrilevante. Io sono bravo in tutto – aveva puntualizzato Curufinwë, quasi automaticamente.

– Niente ti riesce bene come parlare a sproposito, però – era stato il commento di Turko, prima di abbandonarlo a sé stesso, con un'alzata di spalle.

Di ballare non se ne parlava, ma restare nella sala voleva dire fare la fine di Nelyo che, finalmente libero da impegni diplomatici, si era ritirato in un angolo con un bicchiere in mano a guardare le coppie che danzavano. Una coppia soltanto, in effetti. Quella formata dal maggiore di Nolofinwë che ballava con qualunque fanciulla gli capitasse a tiro, senza soffermarsi troppo a far conversazione, né, d'altra parte, a guardarla in viso.

Forse era questo che più lo infastidiva nel maggiore dei suoi fratelli, non che fosse lui l'erede, non che riuscisse bene in tutto ciò a cui si applicava, non il suo aspetto innegabilmente gradevole, ma il fatto che non avesse il coraggio di essere sé stesso fino in fondo davanti al padre.

Coraggio che invece bisognava riconoscere a Turko, che proprio ora stava tracannando liquore direttamente dalla bottiglia, nonostante Fëanáro avesse chiaramente fatto capire che non avrebbe approvato l'uso smodato di alcol.

Curufinwë diede un altro sguardo alla sala gremita, valutando che forse davvero non c'era alternativa: se voleva conoscere una ragazza non gli restava che invitarne una a caso e costringersi a fare almeno un ballo. Stava chiedendosi con quale metodo procedere alla selezione, quando notò un altro dei suoi cugini a mezzo del sangue, Findaráto, il primogenito di Arafinwë. Danzava leggiadro con la sua splendida compagna… Amarië se Curufinwë non ricordava male (e Curufinwë non ricordava mai male). Lei volteggiava elegante tra le sue braccia e rideva di qualcosa che lui le sussurrava all'orecchio. All'improvviso il cugino alzò lo sguardo, incrociò quello di Curufinwë e con una disinvoltura sorprendente gli rivolse un sorriso radioso. 

Lo odiava, Findaráto! Sempre a suo agio in ogni occasione, sempre bendisposto verso tutti, sempre accondiscendente. Mente brillante, conversazione piacevole… tutti lo amavano. Possibile che lui fosse il solo a rendersi conto di quanto in realtà fosse un sottile manipolatore? Nonché l'unico cugino che poteva stare al suo livello, a volerlo ammettere. Curufinwë si accorse che stava rispondendo al suo sorriso.

Eru in Arda! … Ma quanto aveva bevuto?

Si voltò di scatto, cercando invano di dominare i suoi passi, e si precipitò verso una porta che dava sull'esterno. Uscì all'aria aperta, su un piccolo terrazzo che sovrastava il parco. Laggiù, coppiette isolate cercavano un rifugio tranquillo per terminare la serata.

Curufinwë si appoggiò alla balaustra e imprecò sottovoce. Maledizione, che gli era preso? Sorridere senza uno scopo era un chiaro sintomo di perdita di controllo.

Anche imprecare al vento, se è per questo.

– Fai pure come se io non ci fossi.

Per non parlare di farsi sorprendere mentre si imprecava al vento da… Curufinwë si voltò lentamente, riassumendo in un attimo la sua maschera di impassibilità… da una fanciulla appoggiata alla stessa balaustra a un passo da lui!

La inquadrò in un istante: i lunghi capelli nerissimi, molto simili ai suoi, e gli occhi grigi come l'acciaio, la facevano sembrare la classica dama Noldorin di città, ma il suo accento tradiva una lunga permanenza sulla costa e il vestito che indossava, pur essendo di ottima fattura, non era disegnato alla moda di Tirion. La deduzione era quasi elementare: molte ragazze andavano a studiare musica tra i Teleri, reputandolo un talento imprescindibile. Nel suo caso, poi, lo studio doveva aver richiesto più tempo del previsto, dato che il soggiorno era durato tanto da influire sul suo accento. Classificatala come frivola (e anche non particolarmente sveglia), Curufinwë sentì di avere la situazione in pugno e procedette col metodo più efficace per togliersi dall'imbarazzo, vale a dire mettere l'interlocutore ancora più in imbarazzo.

– Tu che ci fai qui? Non vai a ballare? – la apostrofò.

– Io non ballo – rispose lei, per nulla intimidita.

– Dunque si fa ancor più pertinente la mia prima domanda – la incalzò Curufinwë.

– Ho accompagnato le mie sorelle alla loro attività preferita.

– La danza?

– La caccia.

Dal giardino sotto di loro si levò la risata cristallina di una ragazza e il mormorio sommesso del suo compagno.

Curufinwë rimase per un attimo senza parole e l'esitazione gli fu fatale, perché la fanciulla se ne uscì con una domanda che lo colse di sorpresa.

– Posso vedere il tuo bracciale?

Curufinwë esitò, di nuovo in difficoltà. Cos'era quella, una scusa per avvicinarlo? Una scusa per toccarlo? Anche lei era… in caccia? Si preparò a una ritirata strategica ma fu tradito dal suo stesso braccio, che già si stava tendendo verso di lei. Prima ancora che se ne rendesse conto, la fanciulla gli afferrò il polso. Curufinwë sentì il familiare impulso a sottrarsi dal contatto con un'altra persona, ma riuscì a dominarsi. La presa della fanciulla era forte e calda, sicura. La pelle del suo palmo ruvida, come fosse temprata dal lavoro manuale. Gli ricordò, assurdamente, la mano del padre. Tutta colpa di Turko e del suo stramaledetto vino!

– 70% oro, 5% argento e 25% rame, direi – disse la fanciulla.

– Come? – domandò Curufinwë, che in vita sua non aveva mai chiesto a nessuno di ripetere un concetto.

– La lega, così a occhio, direi che è costituita da 70% oro, 5% argento e 25% rame – ripeté lei.

Curufinwë si guardò il polso. Con un certo sforzo spostò l'attenzione dalla mano di lei al proprio bracciale: una raffinata fascia di metallo su cui aveva inciso il suo nome. Era uno dei suoi primi lavori e inizialmente l'aveva concepito per regalarlo al padre, che portava il suo stesso nome, ma poi gli era sembrato un gesto troppo infantile e l'aveva tenuto per sé. In ogni caso la ragazza aveva ragione, quel bracciale l'aveva creato sperimentando una lega in cui aveva ridotto il contenuto di oro e aumentato quello del rame, per ottenere una tonalità più carica.

Va bene, era di fronte a un'orafa, non a una musicista. Aveva sbagliato una valutazione, era inconsueto ma non impossibile, soprattutto in quello stato di... leggera alterazione. Curufinwë prese mentalmente nota di non avvicinarsi mai più a una goccia di alcol, poi ritrasse la mano.

– 71% di oro – puntualizzò.

– Niente male – approvò la ragazza. 

Niente male? Ma cosa pensava, di impressionarlo? Lui riceveva le lodi di Fëanáro in persona! (Anche se non spesso quanto avrebbe voluto, a dire il vero.)

– Perché, sai fare di meglio? – le domandò, ignorando la crescente sensazione di aver preso la strada sbagliata, se lo scopo era mantenere il controllo della conversazione.

– Guarda – disse lei avvicinandosi ancor di più e, spostando una ciocca di capelli, espose il collo. All'orecchio aveva un ciondolo costituito da un intrico di fili d'oro bianco e d'oro giallo sagomati come due alberi i cui rami, più chiari e più scuri, si intrecciavano. Curufinwë si chinò su di lei per controllare se si vedevano i segni delle saldature, al punto che percepì il calore emanato dalla sua pelle e il suo profumo delicato. Stranamente non li trovò fastidiosi… e nemmeno trovò i segni delle saldature. 

Un lavoro notevole. Davvero. Ma lui aveva di meglio. Si slacciò il primo bottone della veste e sfilò dalla camicia il ciondolo che aveva al collo. La Stella di Fëanáro in oro smaltato di un rosso cupo che sfumava in arancione acceso sulle punte. Era il suo capolavoro. Il commento del padre quando gliel'aveva mostrato lo teneva nel cuore come un tesoro prezioso: "Sembra che presto avremo un altro artista in famiglia." (Ci aveva pensato Turko, anche allora, a ridimensionare il suo orgoglio col solito sarcasmo: "complimenti per l'originalità del soggetto", aveva sentenziato).

Lei prese in mano il gioiello, sfiorandogli la pelle della gola con quelle dita caldissime, e ancora Curufinwë non trovò difficile frenare il suo impulso a ritrarsi.

– Questo smalto… come riesci a farlo così brillante? – gli domandò.

– Sabbia del Mare Esterno.

La fanciulla alzò su di lui uno sguardo sbalordito: – Per tutti i Valar… e chi te la procura?

Curufinwë non riuscì a sopprimere un moto di orgoglio: – Ci sono stato con mio padre qualche anno fa.

Lei lasciò il pendaglio, che gli batté sul petto, e fece un passo indietro.

– Già. Avevo sentito dire che il Principe Fëanáro…

– Sai chi sono allora – la interruppe Curufinwë.

– Non so quale sei, ma non è difficile capire di chi sei figlio… c'è un tuo ritratto in ogni stanza di questo palazzo.

Si riferiva all'immagine del padre, così somigliante alla sua, presente in molti quadri insieme al Re e talvolta anche ai suoi fratellastri.

Ma la fanciulla non sembrava minimamente impressionata dal trovarsi di fronte a un rampollo della famiglia reale, il suo sguardo continuava a essere diretto, quasi sfrontato, e le sue parole altrettanto: – Prova a innalzare progressivamente la temperatura del forno durante la cottura la prossima volta, otterrai un miglior mescolamento dei due colori.

E prima che Curufinwë potesse dirle che non aveva alcun bisogno dei suoi inutili consigli (tanto più che aveva già sperimentato quel metodo il primo anno in cui aveva lavorato col padre), lei appoggiò un piede sulla balaustra e alzò l'orlo del vestito fin quasi al ginocchio.

– Che mi dici di questo? – chiese.

Curufinwë, senza far caso alla disinvoltura con cui la ragazza si scopriva, né degnando di uno sguardo il suo piccolo piede elegante o la pelle liscia del suo polpaccio affusolato, rivolse la sua attenzione unicamente al gioiello che le ornava la caviglia: un bracciale modellato a forma di serpente le cui spire si avviluppavano attorno alla gamba. Era formato da mille piccolissime scaglie d'argento, singolarmente decorate con smalto di colore leggermente diverso le une dalle altre. Nel complesso dava l'idea di una sfumatura continua dallo smeraldo acceso della testa al turchese della coda. La catena era così flessibile e allo stesso tempo così compatta da sembrare quasi un serpente vivo.

Davanti a questo, Curufinwë non riuscì a negare la verità: – Sei davvero molto capace. – Probabilmente era la prima volta che pronunciava quelle parole in tutta la sua vita (se si escludevano quelle davanti allo specchio). – Dove hai imparato? – le domandò.

La ragazza rimise il piede a terra e si lisciò il vestito con aria pratica. – Mio padre. Al quinto tentativo si è stancato di aspettare un maschio… o forse sarebbe meglio dire che mia madre gli ha definitivamente chiuso la porta in faccia… e ha insegnato a me. Grazie a Eru.

Curufinwë voleva chiedergli chi era suo padre, e dove lavorava, e quali opere di prestigio aveva prodotto, invece si sentì pronunciare la più inutile delle domande: – Sei la quinta figlia?

– Di cinque femmine. È un inferno. Ma adesso è finita! Anche mia madre si convincerà a lasciarmi fare di testa mia dopo l'ultimo infruttuoso soggiorno ad Alqualondë.

– Non sei riuscita ad imparare la musica? – chiese lui. E si sorprese di non provare soddisfazione nell'apprendere che, almeno su un aspetto, le sue deduzioni erano state corrette.

Ma la fanciulla rispose, con un lampo nello sguardo: – Diciamo che ce l'ho messa tutta, per non riuscirci. Normalmente non mi riesce difficile imparare.

Curufinwë represse un sorriso che minacciava di sorgere spontaneo sulle sue labbra: – Niente musica e niente caccia, dunque. Cosa vuoi fare della tua vita?

– Fossi libera di fare quello che voglio? Viaggiare. Vorrei andare alla scoperta di nuovi materiali, nuove pietre, nuovi metalli. Poi, una volta tornata, mi troverei un posto isolato, lontano dalla città, da tutti questi stupidi, inutili, frivoli impegni… e mi dedicherei al mio lavoro in pace.

– Perché non dovresti essere libera di farlo? – le chiese, curioso.

– Perché, tu sei libero di fare quello che vuoi? – domandò lei, inarcando un sopracciglio.

– Ovvio – rispose Curufinwë, e in quel preciso istante la voce di Nelyo giunse da dietro le sue spalle.

– Curvo, papà se ne sta andando.

Era il segnale. Fëanáro arrivava e se ne andava con tutto il suo branco: sua moglie e i suoi figli. Compatti. Nessuno poteva precedere e nessuno veniva lasciato indietro.

– Ovvio – ripeté lei, sarcastica. E dopo un attimo aggiunse: – Allora addio – e si voltò.

Curufinwë rimase spiazzato. E improvvisamente si ricordò lo scopo principale di quella serata. Il suo cervello ricominciò a lavorare a pieno regime, elaborando i dati a disposizione. 

Primo, si era trovato bene a parlare con lei, e lui sapeva quanto era difficile trovare qualcuno la cui conversazione fosse stimolante (fatta eccezione, chiaramente, per suo padre). Secondo, il pensare di rivederla non gli procurava ansia o fastidio, piuttosto… curiosità.  Era così diversa da tutte le fanciulle con cui aveva avuto a che fare (non che fossero molte, in realtà, più che altro conquiste sentimentali di Káno e di Turko).

Ultimo, ma non meno importante, la fanciulla sembrava del tutto immune al fascino emanato dal fratello perfetto. Tutte le ragazze, alla vista di Nelyafinwë, assumevano una patetica aria di adorazione davanti alla sua "straordinaria bellezza". Ma lei non aveva dedicato al Ben Fatto che un'occhiata distratta.

Se poi si aggiungeva che non ballava e che sembrava dotata di un discreto senso artistico…

Bastavano come requisiti per una moglie?

Dannazione, avrebbe dovuto chiederlo al padre, durante le loro conversazioni serali. Forse avrebbe potuto chiederlo adesso a Turko… se non che adesso Turko era probabilmente riverso in qualche angolo del Palazzo in attesa di qualcuno che lo trascinasse a casa. Non gli restava che Nelyo, così, seppure a malincuore, si costrinse a girarsi verso il fratello… solo per scoprire che se n'era già andato.

Curufinwë non sopportava gli indecisi, e ancor meno li sopportava quando l'indeciso era lui. Cosa sei, un bambino, che non puoi prendere da solo le tue decisioni?

Si morse il labbro inferiore e strinse inconsciamente i pugni. Poi rilassò i muscoli e quando parlò lo fece con voce ferma, scevra da ogni emozione.

– Perdonami.

La fanciulla si voltò. Nei suoi occhi la fierezza aveva lasciato il posto a qualcosa di indecifrabile. – Sì?

– Sono stato scortese a non presentarmi… sono Curufinwë, quinto figlio del Principe Fëanáro. Mi piacerebbe… 

Una carrellata di ipotesi passò in un istante nella mente di Curufinwë: parlare ancora con te? Troppo banale. Mostrarti dove si può trovare la sabbia più adatta per la produzione degli smalti? Troppo stupido. Che tu diventassi mia moglie? Troppo diretto.

– … conoscere il tuo nome – disse, infine.

L'ombra di un sorriso apparve sul volto di lei, ma il suo sguardo restò un enigma che lui non riuscì a interpretare. Che stesse facendo anche lei un elenco degli aspetti favorevoli e di quelli contrari?

Curufinwë attese, e gli sembrò l'attesa più estenuante che avesse mai vissuto, anche se durò solo pochi attimi.

Poi, colei che presto sarebbe diventata sua moglie, gli disse il suo nome.

 

 

_______________



 

NOTE

01
Innanzitutto, grazie per aver letto. E se sarete così gentili da lasciare un commento… siate impietosi nei giudizi!! Tenn'Ambar-metta è stato a lungo meditato, questo invece è venuto giù di getto e non so, obiettivamente, che resa abbia avuto.

02
È il punto di vista di Curufin, motivo per cui ho usato i nomi scelti dal padre per i ragazzi e non quelli scelti dalla madre, che loro stessi preferiscono.

03
Un paio di considerazioni personali...
- Se lo scopo di Celegorm (nel riempire il bicchiere di Curufin) era liberare per qualche ora il fratellino da quella assurda gabbia in cui si è rinchiuso e permettergli di sopravvivere alla serata (e magari fargli portare a casa il risultato)… allora direi che ha colpito nel segno!
- Curufin rimprovera a Maedhros di non essere sé stesso davanti al genitore, non rendendosi conto che (per altri aspetti) è esattamente quello che fa anche lui. A quanto pare, le sue incredibili capacità analitiche evita accuratamente di rivolgerle su sé stesso. Dovrà passare del tempo prima che questo accada. E probabilmente ci vorrà, ancora, lo zampino di Celegorm…

04
Alcuni aspetti del personaggio di Curufin (nel suo controllo delle emozioni e nel disagio al contatto fisico, per esempio) sono ispirati all'interpretazione che ne dà LiveOakWithMoss nella sua brillante modern-AU "Dancing With My Punchlines".

05
Curufin e sua moglie mi piace immaginarli come illustrati da alackofghost qui.

  
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Il Signore degli Anelli e altri / Vai alla pagina dell'autore: Losiliel