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Autore: Sorella_Erba    15/03/2009    9 recensioni
« Dov’è finita la nostra aquila? », aveva detto. Non poteva sapere cosa rappresentasse, quell’aquila.
Non poteva capire che era
lui.

[ Efestione centric ].
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alessandro il Grande, Efestione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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So far away

( 1.188 parole, one-shot).

« Desidero che mai questi giorni possano finire », mi aveva detto sorridendomi.

Eppure – ricordo – il suo tono era consapevole.

Gli ultimi giorni che avremmo dovuto trascorrere a Mieza passavano veloci; per conseguenza i rumori della guerra si facevano sempre più incombenti, vicini.

La bella estate di ogni fanciullo non dura mai abbastanza da lasciare un ricordo vivo, nell’esistenza.

Un giorno dimenticherò quel periodo, me lo lascerò alle spalle per vivere ciò che mi viene offerto dagli dèi; ma scordare il suo viso – all’epoca giovane, e bello, e privo degli sfregi del tempo e della guerra - mi è inconcepibile.

Alle volte mi pare di scorgere, nei suoi occhi, quel luccichio che li animava tempo addietro. Era semplicità, l’accontentarsi di cose ordinarie, mediocri forse, come quando il maestro sorrideva annuendo per confermare una risposta, ed io sentivo crescere in lui un senso di appagamento celato dalla modestia del suo portamento.

Svanisce subito, tuttavia, demolito dalla pesantezza delle palpebre calcate dal torpore, offuscato dall’aria greve di incensi e vapori.

« Ho timore ».

Le sue fattezze – rammento – avevano un che di puro, incorrotto: mi guardava, e tutto quel che scorgevo nella profondità delle sue iridi eterocrome era genuinità. Il suo essere così naturale e spontaneo rilassava pertanto anche me. Era al suo fianco che trovavo il mio effettivo posto nel creato, sentendomi al contempo completo e, ciò nonostante, manchevole. Già al tempo, sin dalla giovinezza, la forza d’animo che la figura di Alessandro emanava, sembrava essere troppo. Troppo.

Troppo persino per coloro che l’amavano e godevano della sua presenza, troppo persino per me.

La sensazione che, per quanto fossi riuscito a fare, per tutto ciò che avrei potuto sacrificare, la mia ombra non era destinata a raggiungere la sua stessa immensità – compensandola, affiancandola – mi opprimeva e mi rabbuiava. Lui, allora, quasi intuendo le mie emozioni, mi posava una mano sul viso e mi scrutava, e sentivo ogni difesa crollare e disfarsi, nella stessa maniera in cui abbiamo visto crollare le fortezze assalite negli anni delle campagne di conquista.

« Efestione? ».

« Sì? ».

« Tu… non hai timore? ».

Lo avevo guardato, senza far trapelare emozione alcuna, tentando di imitare la sua elegante naturalezza. « Cos’è che ti turba? ».

« Il vuoto, Efestione, il vuoto », mi aveva spiegato, ma non riuscii a comprendere. Il contegno della sua figura non lasciava che nulla si rivelasse, nulla di quel che disturbava il suo animo. Eppure, io lo vedevo: erano le impercettibili rughe che increspavano gli angoli della sua bella bocca, il taglio degli occhi aguzzato, la mandibola serrata. Era una serpe che gli annodava lo stomaco e gli troncava il respiro, scivolando viscida nel suo corpo.

« Sento… non sento niente. Percepisco il nulla, e provo una grande impressione di mancanza. Ti sei mai sentito così, tu? Hai mai provato una sensazione simile, come uno squarcio, enorme, troppo grande per essere riempito, in mezzo al petto? ».

Soltanto adesso capisco, e vedo, lo vedo chiaramente.

« Aristotele lo definirebbe un male passeggero, tipico della nostra fanciullezza ».

« Non lo è, non per me. Sin da quando ne ho memoria, è qui ». Posò un dito sullo sterno. « E cresce, Efestione, ogni anno, ogni minuto, secondo che passa, lo sento crescere. Temo che un giorno mi inghiottirà », disse e mi guardò, gli occhi offuscati da un sottile velo di tristezza.

Ricordo che non seppi come replicare alla sua ultima affermazione. Indugiai, teso, a bocca schiusa, a rimirare i suoi occhi che poi si distaccarono posandosi sulle rive del fiume.

« Alle volte credo che sia stata la volontà di mia madre », continuò; la sua voce era fievole. « Non so se per rivalsa nei confronti di mio padre o… per motivi che mi sono oscuri ».

« Tua madre ti ama », gli avevo risposto.

« Troppo. Mi ama troppo, Efestione, ed arrivo spesso a stimare il suo amore come morboso, ossessivo. Non è l’amore di una semplice madre ».

Rimase a lungo in silenzio, i lineamenti rilassati; ma capivo che, sotto quell’apparente serenità, la sua mente pensava e valutava ogni singola ipotesi.

« Cosa mediti? ».

« Mi idolatra. Mi ha detto – l’ha sempre fatto – che non sono frutto dell’unione sua e di Filippo. Mi considera figlio di Zeus Ammone. Mi sussurrava, la notte, preghiere in una lingua che non conosco, e prima di spegnere i ceri mi baciava la bocca, sparendo oltre i veli del mio giaciglio. Lei, con la sua dedizione, contribuisce ad allargare il mio vuoto ».

« Vorrei lenire il tuo dolore, Alessandro », gli avevo confessato in un sussurro, per poi legargli le braccia attorno alle spalle e spingerlo contro di me.

Non avevo la forza necessaria, non avevo la sua forza. Era già allora lontano; persino nella vicinanza dell’abbraccio, in quel contatto così intimo, lo sentivo distante. Le sue confessioni mi incutevano timore, chiudevo gli occhi e udivo dei sibili leggeri ed ostili risuonare nella mente. Che fosse il dio? Che Alessandro avesse in sé parte del divino sin dalla nascita?

Il tempo della conquista d’Egitto è lontano; gli odori di Babilonia me lo suggeriscono.

Sento ancora riecheggiare, nelle orecchie, le parole del sacerdote di Amon mentre dichiarava in un inchino Alessandro – il re dei Macedoni, il condottiero di Grecia – figlio di Zeus. Si era lasciato alle spalle tutto, dopo la morte di suo padre: la madre, il regno, e forse anche me; nel tentativo di eludere ciò che era il volere supremo, abbandonando ogni certezza per rincorrere l’ignoto, ignaro, s’è gettato fra le braccia del fato.

Ed adesso la sua anima è stata repressa dalla presenza della divinità. Gli ha ingoiato le interiora e l’ha tramutato in una creatura ultraterrena, intrappolata in un misero involucro di pelle umana. E, insoddisfatta, continua ad incitarlo ad andare avanti. Quasi lo odo, l’essere dentro di lui, quasi percepisco i suoi sussurri. « Va’ avanti, figlio del dio, va’ ». E lui l’asseconda, dimentico della realtà, dimentico delle fatiche umane.

L’ho visto, solo, aprire le ali e spiccare il volo, perdendosi nel rovente sole dell’Est. Il desiderio di seguirlo mi ha attanagliato il cuore e l’ha appesantito fino a ferirlo. L’essere dentro Alessandro – lo sentivo, lo sento, lo sento – rideva. « Non ti è concesso », sibilava. « Ricettacolo… Zeus… Amun… vita e morte, bellezza ed angoscia… ». Era un misto di parole insensate e gemiti, pianto.

Ho udito Alessandro piangere.

« Dov’è finita la nostra aquila? [1] », aveva detto.

Non poteva sapere cosa rappresentasse, quell’aquila. Non poteva capire che era lui.

S’è smarrito fra luccichii dorati ed accecanti, ori dell’Oriente, le ali che si confondevano col bagliore che lo attorniava.

E gli occhi… gli occhi erano ormai ciechi.

I suoi occhi inviolati non vedevano, sporchi di sangue di bue, di incenso e polvere. Avanzava nel buio, squarciandolo da parte a parte in migliaia di frazioni d’arcobaleno, i cui contorni sapeva poi far collimare. Ma io l’ho notato: splendeva, splendeva come un astro, e riusciva a muoversi senza esitazioni.

Ma temo che in quell’infinità, fatta di etere ed essenze divine, sia morto.

E, ancora, scordare il suo viso – la sua beltà, la sua essenza – mi è inconcepibile.

[1]. Sicuramente ricorderete (per chi ha visto il film di Stone) questa frase. Alessandro si rivolge a Tolomeo, però, non ad Efestione, durante il tentativo di valicare il cosiddetto “tetto del mondo”. Concedetemi questa sorta di licenza <3

   
 
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