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Autore: Amantide    18/01/2016    5 recensioni
Una FF in cui vedremo i sette semidei nella loro quotidianità alle prese con una convivenza forzata e un satiro dal carattere difficile. Vi siete mai immaginati Jason ai fornelli o Percy versione lavapiatti? Beh, io ci ho provato e il risultato è piuttosto divertente. Ovviamente non mancheranno i colpi di scena, gli imprevisti e le storie d'amore.
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I sette della Profezia, Jason/Piper, Percy/Annabeth
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Angolo dell'autrice: Ragazzi ho aggiornato per davvero, non è un'allucinazione! Non vi farò perdere tempo leggendo le mille motivazioni che mi hanno portato ad aggiornare così tardi perchè capisco che dopo tutto questo tempo non ve ne importi niente e vogliate solo sapere come va avanti la storia. Sappiate che sono immensamente felice di sapere che avete pazientato così a lungo perchè vuol dire che vi siete appassionati alla storia e siete disposti ad aspettare mesi pur di sapere come proseguono le vicende dei nostri amici a bordo della Argo II e questo non può che rallegrarmi. Ovviamente ciò non vuol dire che tarderò sempre ad aggiornare, anzi, mi riprometto di essere più puntuale e spero vivamente di riuscirci. Vi avviso, questo capitolo non mi convince molto... è terribilmente corto e dal punto di vista della trama è un po' di passaggio, boh, non so... ho deciso di pubblicarlo comunque per non farvi aspettare ancora... spero solo che non lo troviate un disastro totale. Se avete voglia fatemelo sapere tramite commento. Grazie mille a tutti davvero. :-)






Destinazione Venezia

 
 
Leo era chiuso in sala macchine da quando era successo il disastro. Dopo essere stato aggredito da Frank era sceso al ponte più basso della nave e aveva cominciato ad oleare i motori e a stringere bulloni a caso pur di non pensare a quanto era accaduto. Tenere le mani impegnate era l’unico modo che conosceva per allontanare i cattivi pensieri e le preoccupazioni. Non sapeva nemmeno con precisione da quanto tempo fosse chiuso lì dentro, poteva ipotizzare che fossero passate delle ore ma non poteva dire con certezza quante, l’unica cosa di cui era sicuro era che si era dato così tanto da fare per evitare di pensare che adesso aveva le braccia a pezzi e le mani ricoperte di vesciche.
“Dannazione!” Sbraitò lanciando con forza una chiave inglese dall’altra parte della sala. Quella roteò a mezz’aria per poi finire la sua corsa andando a conficcarsi in un grosso tubo che s’incrinò lasciando fuoriuscire una colonna di fitto fumo bianco. Leo imprecò rimirando il nuovo guaio che era riuscito a combinare.
Tossicchiando, si avvicinò al tubo danneggiato riparandosi la faccia con le mani, afferrò la chiave inglese con entrambe le mani e tirando con forza riuscì ad estrarre l’arnese solo dopo aver imprecato contro tutti gli dei dell’Olimpo, suo padre compreso. Evocò il fuoco, l’unica cosa che al momento non aveva mai sbagliato a fare, giocherellò per qualche istante con una fiammella bluastra, poi con le mani incandescenti fuse il metallo del tubo saldandolo nuovamente. Adesso che lo aveva riparato, il tubo mostrava una superficie così lucida e levigata da riflettere distintamente la sua immagine e Leo si soffermò un momento a specchiarcisi.
“Ehi” disse una voce calda proveniente dall’altra parte della sala. Leo sollevò il capo e, nel fumo che andava diradandosi, intravide la sagoma di Jason. Stava camminando verso lui e appena gli fu più vicino gli mise un braccio intorno alle spalle e lo strinse a sé. Leo lo lasciò fare ma cercò di non incrociare il suo sguardo, al suo cospetto si sentiva sempre il numero due, e la cosa iniziava a pesargli parecchio. Anche adesso che, in assenza di Percy, Jason avrebbe potuto avere bisogno di aiuto, lui non riusciva a fare altro che combinare guai.
“Come va?” domandò il figlio di Giove senza allentare la presa sulle sue spalle.
Leo sospirò abbacchiato.
“Uno schifo! Come vuoi che vada?” esalò giocherellando con la chiave inglese. “Non sarei mai dovuto partire per quest’impresa, non è alla mia portata, è ora che io me ne faccia una ragione!” Sbottò liberandosi dalla presa dell’amico.
“Leo, smettila di sminuirti!” Lo redarguì Jason con tono fermo. “Sai bene che non è così!”
Leo si strinse nelle spalle ma non disse nulla.
“Hai veramente bisogno che io ti ricordi che hai costruito tu questa nave, e sei tu l’unico in grado di manovrarla? Il tuo aiuto in questa missione è fondamentale, non dubitarne mai.”
Per un attimo le parole di Jason sembrarono rincuorarlo poi però il viso adirato di Frank e quello affranto di Hazel gli comparvero davanti agli occhi e lui sprofondò nuovamente nello sconforto più totale.
“Leo!” Esclamò Jason afferrandolo per le spalle e scuotendolo affinché tornasse in sé. “Guardami.” Gli ordinò stringendolo più forte.
“Tu non vali meno di noi, ognuno fa la sua parte perché è così che le Parche hanno stabilito, che ci piaccia o no, e se in questo momento hai bisogno di fare qualcosa per sentirti utile ai fini di questa missione vai al ponte di comando e fai rotta verso Venezia.”
“Venezia?” fece Leo convinto di aver capito male. “Non starai pensando di portare la tua fidanzata nella città più romantica del mondo nel bel mezzo di un’impresa suicida, vero?”
Jason non riuscì a trattenere un ghigno; ecco il Leo di sempre.
“No” disse cercando di non ridere sonoramente, “ma è lì che dobbiamo andare, Hazel è entrata in contatto con Ecate, o meglio, Ecate è entrata in contatto con lei.” Tentò di spiegare notando il cipiglio perplesso dell’amico, “beh, sta di fatto che secondo lei è lì che dobbiamo andare, quindi ora basta con le domande, abbiamo temporeggiato anche troppo, è ora di rimettersi in viaggio!”
Leo corse di sopra come se stesse aspettando quell’ordine da una vita e Jason si guardò bene dall’aggiungere qualsiasi cosa avrebbe potuto interrompere la sua corsa. Si chinò per raccogliere la chiave inglese che nella foga il suo amico aveva abbandonato per terra e quando si rialzò si trovò faccia a faccia con Piper. Sussultò per lo spavento, alle volte sapeva essere veramente silenziosa.
“E così stiamo veramente facendo rotta verso Venezia?” domandò Piper fintamente sorpresa.
“Già” confermò lui mentre la salivazione gli si azzerava. Aveva appena notato che il primo bottone della camicetta di Piper era saltato concedendogli un’ottima visuale sul suo seno prosperoso. Piper doveva aver notato che il suo sguardo aveva indugiato più del previsto sulla sua scollatura perché si schiarì la voce per attirare la sua attenzione. Jason trasalì distogliendo lo sguardo e dovette concentrarsi parecchio per fissarla negli occhi e non altrove.
“Certo che la vita è proprio crudele!” Esclamò lei incrociando le braccia al petto a scanso di equivoci. “Siamo diretti a Venezia e già so che non avremo nemmeno un momento per noi!”
“Sono inconvenienti che capitano quando sei un mezzosangue” si giustificò Jason sospirando.
“Ma io sono figlia di Afrodite, e Venezia è la città dell’amore per eccellenza!” Protestò Piper picchiando un piede per terra come sono solite fare le bambine capricciose. “Non pensi che potremmo riuscire a ritagliarci un momento per goderci la città come due ragazzi normali?” Domandò lei sgranando i suoi occhioni ammalianti.
“Non posso saperlo…” Jason scosse improvvisamente il capo con forza e aggiunse con voce ferma, “Piper! Smettila di usare la lingua ammaliatrice a tradimento!”
Piper sbuffò, il suo trucco non aveva funzionato, Jason la conosceva talmente bene che incantarlo con i suoi poteri cominciava a diventare veramente difficile. Il figlio di Giove fece per andarsene ma Piper gli guizzò davanti e si piazzò sulla porta giusto in tempo per sbarrargli il passaggio. Stava giocando con una ciocca di capelli che aveva precedentemente intrecciato con maestria e le sue movenze si erano fatte più lente e sinuose.
“E adesso cosa c’è?” domandò lui allargando le braccia, esasperato.
“Niente” sorrise lei innocentemente, “è solo che mi sono appena ricordata di avere altri mezzi a disposizione per convincerti a fare un romantico tour di Venezia oltre alla lingua ammaliatrice.”
Jason deglutì sforzandosi di non darlo a vedere. Se ormai poteva affermare con certezza di essere diventato bravo a difendersi dalla lingua ammaliatrice, lo stesso non si poteva dire di tutto il resto. Il problema infatti, era che Piper aveva più di un mezzo per convincerlo a fare ciò che voleva e lui lo sapeva più che bene, d'altronde, fino a quel momento, c’era sempre riuscita. In preda a quella riflessione la vide chiudere la porta della sala macchine portandosi un dito alla bocca intimandogli di fare silenzio, poi prese a sbottonare il resto della camicetta mentre gli si avvicinava.
“Così però non vale” guaì Jason mentre lei si stringeva al suo petto cominciando a baciarlo delicatamente. Stava per cedere, lo sapeva, il fatto era che Piper aveva deciso di godersi la sua vittoria lentamente e adesso quell’attesa lo stava facendo impazzire. Lo spinse in fondo alla stanza, dove una quantità enorme di tubi si dipartivano dal motore della nave, e gli si gettò addosso di peso.
“Sei cosciente del fatto che la porta non è chiusa a chiave, vero?” domandò Jason un po’ in affanno.
“Pensavo che i figli di Giove fossero più audaci.” Commentò Piper ricomponendosi delusa.
“Infatti lo siamo!” Esclamò Jason circondando la vita della sua ragazza con un braccio.
“Allora dimostramelo” sussurrò lei ad un millimetro dalle sue labbra.
 
Annabeth non sapeva con precisione da quanto tempo lei e Percy stessero vagando nel Tartaro. Vagando, sì, era decisamente la parola più appropriata che le venisse in mente. In quell’inferno avevano perso la cognizione del tempo quasi subito, e, come se non bastasse, Annabeth si sentiva tremendamente confusa. La caduta era stata interminabile, e una volta toccato il fondo (nel vero senso della parola) aveva dovuto confessare a Percy la verità sulle sue condizioni. Come se quella rivelazione non fosse stata già di per sé abbastanza sconvolgente, il Tartaro aveva pensato bene di metterli alla prova presentandogli qualcuno dei suoi abitanti più terrificanti. C’erano state le Empuse, di questo Annabeth era abbastanza sicura perché oltre ad avere un aspetto talmente raccapricciante da non riuscire  a dimenticarle facilmente, Percy aveva anche detto qualcosa di stupido circa il fatto che una di loro fosse nelle cheerleader della sua scuola. Annabeth non aveva avuto il tempo d’indagare perché lui l’aveva presa per mano e insieme avevano cominciato a correre senza sapere bene dove stessero andando. Da allora avevano fatto una serie d’incontri poco piacevoli e Percy era rimasto gravemente ferito. Annabeth sollevò il capo riprendendosi solo in quel momento dallo stato di torpore in cui era piombata senza nemmeno accorgersene. Stava camminando per inerzia dietro un gigante di nome Bob, o meglio quello era il nome che Percy gli aveva appioppato in passato per salvarsi la pelle. Anche in questo caso non aveva potuto approfondire la faccenda perché Percy non era in condizione di fornire spiegazioni. Lo scontro gli aveva procurato delle ferite gravissime al torace e all’addome e aveva perso così tanto sangue da non essere nemmeno in grado di reggersi in piedi da solo. Fortunatamente Bob si era gentilmente offerto di portarlo in braccio fino ad un luogo sicuro e Annabeth non se l’era sentita di contraddirlo. Nonostante dubitasse fortemente che nelle profondità del Tartaro ci fosse un luogo realmente sicuro, si era fidata di Bob e ora gli camminava alle spalle fissando Percy che era ricurvo sulla spalla del gigante con le braccia a penzoloni lungo la sua schiena e la testa che oscillava ad ogni passo. Aveva gli occhi chiusi ed era terribilmente pallido a causa di tutto il sangue che aveva perso e Annabeth dubitava seriamente che fosse ancora cosciente.
“Percy” lo chiamò dolcemente per accertarsi delle sue condizioni. Lui grugnì qualcosa d’incomprensibile e Annabeth si sentì subito meglio; in un modo o nell’altro era ancora cosciente e aveva fatto del suo meglio per farglielo capire.
 
Quando Percy aprì gli occhi si guardò intorno spaesato. Si trovava in un luogo sconosciuto e i suoi ricordi erano offuscati. Era in un luogo che gli ricordava una sorta di capanna, c’era poca luce e chiunque fosse il proprietario non doveva essere un tipo troppo ordinato. Fece per alzarsi dal letto su cui si trovava ma il solo sollevamento del capo gli sembrò uno sforzo disumano così tornò ad appoggiare la testa sul cuscino e fissò intensamente il soffitto in cerca di qualche ricordo utile. Aveva dolori ovunque, come se qualcuno si fosse divertito a rompergli tutte le ossa del corpo una ad una, così, giusto per il gusto di farlo. Una serie d’immagini sconnesse e raccapriccianti gli vorticavano nella mente alimentando il suo mal di testa, già di per sé abbastanza fastidioso. C’erano creature mostruose, suoni inquietanti e Annabeth col volto rigato dalle lacrime. Cos’era successo? Possibile che non riuscisse a ricordare minimamente gli avvenimenti in cui dovevano essere rimasti coinvolti?
Ruotò leggermente il capo alla sua destra con un gemito sommesso e per un attimo pensò di avere le allucinazioni. Annabeth era seduta ad un vecchio tavolo in legno con quello che sembrava a tutti gli effetti essere un gigante. Istintivamente cercò di alzarsi per correrle in soccorso e fu solo allora che si rese conto di essere messo veramente male. Il corpo sembrava intenzionato a non rispondere ai suoi comandi e la cosa lo spaventò a morte. Iperattivo com’era non riusciva nemmeno ad immaginare di rimanere fermo, incapace di muoversi. In quel momento Annabeth si voltò verso di lui e si affrettò a raggiungere il suo capezzale.  Nonostante fosse sempre bellissima, aveva un aspetto orribile. Il suo viso era pallido e sciupato e mostrava ecchimosi e ferite di ogni genere e i suoi splendidi capelli biondi erano spenti e arruffati.
“Percy!” Esclamò con un lieve sorriso. “Fermo, fermo, stai giù.” Aggiunse quando lo vide tentare di alzarsi con una smorfia.
“Non riesco quasi a muovermi” lamentò lui provando a piegare le gambe. “Cosa diavolo è successo?”
“Sei rimasto ferito per difendermi e…” le s’incrinò la voce e le ci volle un attimo per riprendersi.
Il gigante si alzò per raggiungerli e fu solo allora che Percy ricordò tutto. Erano nel Tartaro, ne era sicuro.
“Credo che abbiate bisogno di rimanere un po’ da soli.” Gli disse in tono comprensivo, quasi paterno. Poi prese la porta ed uscì con passo pesante.
“Come stai?” Si domandarono a vicenda non appena furono soli.
Annabeth si sforzò di sorridere. “Grazie a te bene.”
Percy ricambiò il sorriso e abbassò lo sguardo sul suo ventre senza però dire niente. Ricordava perfettamente la loro conversazione a riguardo, Annabeth era stata chiara: non doveva affezionarsi al bambino, ma la tentazione di chiedere era troppo grande.
“È tutto ok?” chiese sollevando lo sguardo sperando che Annabeth capisse a cosa si stava riferendo nonostante non fosse stato esplicito.
Lei abbassò gli occhi e si studiò le mani, era in imbarazzo e forse stava trattenendo le lacrime.
“Io non lo so…” ammise tornando a guardarlo negli occhi.
  
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