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Autore: Ghevurah    20/01/2016    7 recensioni
Fëanáro s'irrigidisce, puntando il proprio sguardo nel suo. Ed è un po’ come specchiarsi nell’acqua di una fonte: la superficie ondeggiante confonde i contorni, alterandoli appena, ma è comunque possibile identificarsi nel riflesso.
Due quasi-fratelli, un incontro (quasi) fortuito.
Genere: Fluff, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Fëanor, Fingolfin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Mí sercë, mí fëa - Nel sangue, nell'anima'
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Questa storia è stata scritta senza scopo di lucro; personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne abbia acquisito o ne eserciti i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
 

Nomi Quenya con loro corrispondenza in lingua Sindarin:
Fëanáro Curufinwë - Fëanor
Ñolofinwë - Fingolfin










 
 
 
 
Lo vede lì, seduto. Il capo coronato da grottesche color indaco, sulla pelle il bacio di Laurelin.
Lo vede e serra i pugni lungo i fianchi, ricacciando nel profondo dell’animo quel guizzo iroso che sente pervaderlo.
Pensa ai percorsi labirintici che ha seguito per evitare di incontrarlo. I tragitti più lunghi e intricati, su e giù per le scalinate, attraverso logge dimenticate. Tutte accortezze inutili.
Muove un passo all’indietro, silenzioso, sperando di non essere stato notato.
Ma è già troppo tardi.
Il bambino solleva lo sguardo e si ritrovano così: occhi negli occhi, riflesso dello stesso cielo cinereo.
 





 
 
I omentielva - Il nostro incontro
 
 
 



                                               
Dalle pareti del loggiato sorgono intrecci di figure iridescenti, corpi abbozzati che sfociano in un turbinio di colori. Le forme si confondono fra loro e con il fondale, al cui centro un globo luminoso sembra attirarle a sé. È l’Ainulindalë di Rúmil Lambeñgolmo1.
Lui si sofferma spesso a osservare l’affresco, non tanto per il suo significato quanto per la sua potenza visiva. Le onde di colori che crescono in un impeto armonico, le auree opalescenti che si amalgamano alla luce o che dalla luce trovano la propria indipendenza.
E sono quelle figure amorfe e ineffabili a racchiudere la vera essenza dei Valar, non i corpi menzogneri che essi sfoggiano in Aman.
Pensa questo, riempiendosi gli occhi di pennellate sferzanti, di un carosello di forme e toni. Non ha mai abbassato lo sguardo verso le decorazioni che racchiudono la scena: cornici di grottesche e arabeschi a cui difficilmente presterebbe attenzione.
Ma proprio sotto di esse si trova il bambino.
Seduto sul pavimento, la tunica arricciata attorno le gambe, i piedi scalzi. Lo sguardo chino sulle pagine  di un libro appoggiato alle ginocchia.
Poi, come calamitato da una forza invisibile, solleva il capo. Un lampo di sorpresa balena nei suoi occhi, ma subito viene mitigato da una sfumatura più fredda. Non si muove né parla.
Fëanáro rimane qualche istante di troppo fermo sul posto e infine recupera la propria decisione: avanza lungo il loggiato, sfilando sotto le figure che sembrano emergere dalla parete.
All’orizzonte la luce di Laurelin matura nel riverbero argenteo di Telperion, ma il tempo, lì, è scandito dal ritocco dei suoi passi sul lastricato marmoreo. Un suono deciso che echeggia fra le arcate, azzittendo il cinguettare degli uccelli nel giardino.
Il bambino è ancora seduto a terra, il libro dimenticato sulle ginocchia, mentre lo guarda avanzare verso di sé.
Fëanáro si chiede cosa stia facendo: potrebbe fingere di tornare a leggere o magari alzarsi e liberargli il passaggio. Invece no. Il figlio di Indis lo guarda con occhi rubati, i suoi stessi occhi, e rimane immobile.
Quando supera il fulcro dell’affresco, il globo luminoso attorno al quale le figure volteggiano, il bambino solleva il capo per poterlo osservare meglio. L’ombra di una curiosità sfacciata a incupirne le iridi.
Fëanáro s’irrigidisce, puntando il proprio sguardo nel suo. Ed è un po’ come specchiarsi nell’acqua di una fonte: la superficie ondeggiante confonde i contorni, alterandoli appena, ma è comunque possibile identificarsi nel riflesso. Una consapevolezza, questa, che gli toglie il respiro.
Un germe di rabbia invade i suoi pensieri, rabbia per quella nís2 coronata d’oro, insinuatasi come una fastidiosa lingua di luce nella vita di suo padre; rabbia per quel bambino che lo guarda, ancora e ancora, nessun rifratto dorato sul capo ma capelli d’ali corvine e occhi grigi e orgogliosi. Rabbia per se stesso, perché riconoscersi in quei tratti è il più grande tradimento al ricordo di sua madre.
Quando la prima figlia di Indis era nata si era detto che semmai ne fosse seguiti altri avrebbero avuto i suoi colori, l’impronta dei Vanyar nel cuore e il placido bagliore di Laurelin nello sguardo. Ma si sbagliava.
L’ultimo passo lo porta a sfiorare la tunica del bambino con la punta degli stivali. Abbassa il capo e l’osserva dall’alto, il viso contratto dalla tempesta che sente gonfiarsi nell’animo.
Nessuno dei due parla, entrambi accomunati da un’ostinazione puerile che avvicina il giovane al bambino e ne confonde i ruoli.
Fëanáro pensa che il figlio di Indis lo stia provocando: le gambe ancora distese a intralciare il passaggio per lo stretto camminamento della loggia, il volto sollevato, gli occhi ancorati a lui, quasi voglia sottolineare che sì, è ben cosciente di ostacolare la sua avanzata e proprio per questo non smetterà di farlo.
Ma Fëanáro non è intenzionato a regalargli più attenzione di quanta non sia già stato costretto a riservargli.
Alza il piede e lo scavalca, attento a non toccarlo neppure per sbaglio. Muove un passo nello spazio fra le gambe dischiuse del bambino e questi sussulta, forse allarmato all’idea di essere calpestato, eppure non si scosta. Trattiene il fiato, fissando Fëanáro da sotto in su: gli occhi sgranati, il capo reclinato all’indietro.
Lui sente quello sguardo bruciargli la pelle, ma decide di ignorarlo, concentrandosi solo sul proprio avanzare. Ancora un passo e si lascia il figlio di Indis alle spalle.
Quando vede solo archi e colonne, un sospiro di sollievo gli sguscia dalle labbra: ora può tornare a relegare la presenza del bambino ad un remoto anfratto della propria mente e concentrarsi su altro.
Curufinwë.
Il richiamo si espande nell’aria come increspature d’acqua e lo raggiunge, tanto chiaro quanto imprevedibile. A pronunciarlo è stata una voce fresca e infantile e lui si volta istintivamente perché quel nome, il suo nome, ha un suono curioso scandito da una simile voce. Un suono morbido e ballerino.
Il figlio di Indis è in piedi dinnanzi a lui: i capelli ancora più arruffati, la tunica ancora più spiegazzata e il libro stretto contro di sé, quasi possa fungere da estrema difesa.
Curufinwë, ripete ancora, e lui avverte quell’esitazione che incrina le sillabe trasformarsi in un’autorità infantile.
Solo allora si rende conto di non avere ancora risposto, di stare fissando il bambino con troppo stupore. Così si schiarisce la gola, inarcando un sopracciglio per chiarificare tutto il proprio disappunto.
Cosa vuoi? Chiede con tono sferzante, senza l’ombra di alcuna gentilezza.
Le spalle minute del figlio di Indis sussultano alla sua domanda, quasi fosse stato colpito da una presenza invisibile. Abbassagli occhi, gli stessi occhi che prima gli puntava addosso con tanta ostinazione, e se Fëanáro pensa si sia arreso dinnanzi al suo atteggiamento scostante, è costretto a ricredersi quando lo vede tornare a sollevare il capo. Nel suo sguardo, ora, sembrano bruciare quelle stesse fiamme che lui sa abitare il proprio.
C’è un Vala in più, mormora il bambino e Fëanáro cede nuovamente alla sorpresa.
Come?
Nel dipinto. Sono state rappresentate quindici figure.
Fëanáro sbatte le palpebre, sollevando lo sguardo verso l’affresco.
Sulla destra, continua il figlio di Indis, indicando un punto nel margine più estremo della raffigurazione, dove la sagoma di una quindicesima figura fa capolino nell’intreccio di corpi e colori.
Fëanáro l'osserva per qualche istante. Non l’aveva mai notata preso com’era dall’insieme, dalla perfetta totalità della scena, e questa consapevolezza si tramuta in un fastidio sottile.
Poi però allarga il proprio sguardo, abbracciando l’intero affresco. Muove un passo all’indietro, socchiude un occhio e solleva una mano, così da avere l’illusione di coprire la quindicesima figura.
Sente l’attenzione del bambino su di sé, calamitata dai suoi gesti. Intuisce lo sforzo che sta compiendo per cercare di trovare una chiave di lettura e scorgere ciò che lui sta vedendo. Allora increspa le labbra in un sorriso. Abbassa la mano, tornando a guardare l’affresco con entrambi gli occhi.
Quella figura in più, dice, non toglie nulla alla perfezione della scena.
Il bambino trasale, la sua voce trema appena, come quando lo ha chiamato per nome: Ma si tratta di un errore grossolano!
Non è stato un errore; lo contraddice Fëanáro, assaporando la perentorietà del proprio tono. Si tratta di un’aggiunta meditata, per bilanciare la composizione.
Vede il figlio di Indis osservarlo con la stessa bruciante attenzione che gli ha riservato all’inizio, quasi voglia imprimersi nella mente ogni particolare di lui. Infine lo vede voltarsi verso l’affresco.
Non è una scelta corretta, allora.
Fëanáro schiocca la lingua: in quelle parole striscia un’arroganza che gli è famigliare.
E tu sei in grado di stabilire cosa sia corretto e cosa no?
Il bambino irrigidisce le spalle, lo sguardo che indugiava sulla raffigurazione si abbassa, inabissandosi tra le venature del pavimento marmoreo. Stringe le mani attorno al tomo, condensando il proprio nervoso in quella presa. Ma proprio quando Fëanáro crede che ormai non parlerà più, lo sorprende di nuovo.
I Valar sono quattordici, lo scrive anche Rúmil Lambeñgolmo.
Lui torna a inarcare un sopracciglio, e con un gesto infastidito scaccia quell'ultima osservazione.
Non è questo il punto; dice, poi la sua attenzione viene catturata dal libro che il figlio di Indis esibisce come uno scudo.
Stai leggendo gli scritti di Rúmil?
Il bambino sbatte le palpebre, colto alla sprovvista. La tensione sul suo viso si scioglie in un’espressione titubante.
Sì, ci sto provando. Le Sarati3 sono abbastanza complesse e…
Þarati, sibila Fëanáro, impietoso.
Il bambino sobbalza, travolto da una mareggiata improvvisa, dalla violenza che scroscia in una semplice parola, in una lettera; tuttavia emerge dai marosi abbastanza in fretta: corruga la fronte e dischiude la bocca, pronto a ribattere. Ma qualcosa s’incrina nei recessi del suo sguardo, qualcosa che lo induce a mordersi le labbra per rimanere zitto e immobile.
Uno spettro di recriminazioni fluttua tra loro, ammiccante, ma il figlio di Indis non lo coglie: lascia che scivoli via come acqua.
E Fëanáro si scopre seccato da una simile scelta.
Pensa che potrebbe sfruttare quel momento per andarsene definitivamente, eppure finisce ancora con il rivolgere la propria attenzione al bambino. A quell’espressione che è mutata, velandosi di dispiacere.
Per la prima volta si accorge di quanto sia piccolo: il viso permeato d'una morbidezza infantile, le dita sottili aggrappate al libro. Un piccolo naufrago che sfida una tempesta.
Così incrocia le braccia al petto e si lascia sfuggire un sospiro.
Comunque sia è vero, ammette sentendosi tradito persino da sé stesso. Le Þarati sono per certi versi troppo variegate, un sistema poco intuitivo.
È allora che il figlio di Indis solleva il capo di scatto. I suoi occhi sono immensi e liquidi e con una punta di fastidio lui pensa che così sembri ancora più piccolo.
Lo credi davvero? Chiede, un'impazienza malcelata a guizzare tra le parole.
Fëanáro inarca un sopracciglio.
Ovviamente. Io dico solo ciò che penso.
E non sa se sia l’amalgamarsi di luci, il riverbero aureo e corposo di Laurelin che sfuma nel nitore dell’argento, ma il viso del bambino sembra splendere mentre continua a rivolgergli il proprio sguardo. Uno sguardo ammirato che ricorda pericolosamente quello di un fratello.
 
 


 
 
Quando Ñolofinwë compare sulla soglia, i bagliori di Telperion sono sfavilli di stelle nei suoi occhi e tra le mani stringe ancora il grosso tomo di Rúmil.
Finwë abbraccia la figura di suo figlio con lo sguardo, pensando a quanto gli ricordi Fëanáro bambino. A quanto sia naturale riconoscerli come i fratelli che sono.
Scosta le carte che sta sfogliando e copre la distanza fra loro.
Allora, com’è andata?
Ñolofinwë trattiene un sorriso, ma la sua voce tradisce l’entusiasmo che cerca di controllare: L’ho incontrato proprio nel loggiato dell’affresco, dove tu mi avevi detto.
E dunque?
Il bambino abbassa lo sguardo sulle proprie mani, quasi fosse imbarazzato dell’entusiasmo appena dimostrato. Un’ombra di rossore gli imporpora le guance, e Finwë si trattiene per non abbracciarlo subito.
Lo guarda sollevare il capo: le labbra resistono ostinatamente alla piega del sorriso, ma esso si svela nella luce dei suoi occhi.
Abbiamo parlato, confessa infine, la voce colorata da un’emozione tenera e calda.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Note:
1 - (Quenya) Singolare non attestato di Lambengolmor o Lambeñgolmor, potrebbe essere tradotto come “sapiente/studioso delle lingue”. I Lambengolmor erano Loremasters fra gli Elfi, una “classe” di eruditi che si occupava di lingua e storiografia.
2 - (Q) Lett. “donna”
3 - (Q) Lett. “lettere”, sistema di scrittura inventato da Rúmil di Tirion, funse da base per le Teñgwar di Fëanor.
 
Il termine omentië, che compone il titolo, non indica un “semplice” incontro, ma “l’incontro/la congiunzione delle direzioni di due persone” e personalmente l’ho trovato adattissimo (anche se mi ero ripromessa di astenermi da titoli in Quenya almeno per un po’).
 
Non ho nessuna giustificazione per questa… “cosa”, se non che passando in rassegna i vari gruppi di fratelli del legendarium, ho sempre avuto voglia di scrivere di Fëanor e Fingolfin in un momento relativamente tranquillo. La scena dell’incontro nel loggiato mi frullava in testa da quasi un anno (camminare sotto portici affrescati fa venire strane idee) e ho deciso di rischiare con il pov di un Fëanor ancora giovane. Sono cosciente del fatto che non sia un esperimento riuscitissimo, ma ho preso il coraggio a due mani e ho pubblicato la storia ugualmente, in fondo sono qui anche per leggere critiche e suggerimenti.
 
Grazie per aver letto.
 
   
 
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