NEVERMORE!
Mai
più!
Giurai che non avrei più commesso alcun orrore di quel tipo,
mentre
correvo, scappavo senza meta da quell'ignominia appena compiuta con
le mie stesse mani, ormai più simili ad artigli. Man mano
che
riprendevo coscienza, mi rendevo sempre più conto che a
breve il
senso di colpa mi avrebbe divorato, nello stesso modo in cui io
divorai le mie povere vittime, tra cui lei, la mia dolce Lenore. Oh
Lenore! Le Erinni, persino loro, dalle chiome serpentine, gridavano
il tuo nome mentre m'inseguivano senza sosta, instancabili, brandendo
tizzoni ardenti e torce, scatenandosi terribili con le loro urla
assordati miste a sibili. La mia fuga disperata attraverso i Boschi
Proibiti continuò ancora per molto finché, ad un certo
punto, le
forze mi abbandonarono e le mie gambe crollarono a pezzi,
permettendomi giusto d'infilarmi in una casetta in legno
disabitata.
Svenni,
o almeno lo credo. Lo dico perché tempo dopo fui come
destato da un
rumore di passi e avevo totale coscienza di me. Le mie vesti lacere e
consunte e le mie grinfie erano imbevute del fluido rosso ormai
raffermo e in gola mi ribolliva ancora l'ispido gusto del sangue. Mi
lambii le labbra e potei sentire l'inebriante sapore della tua linfa
vitale che avevo prosciugato con così tanto furore e
avidità.
Cercai di non perdere nuovamente la ragione come l'ultima volta,
sebbene il peso del mio misfatto e della tua assenza si stesse
facendo sempre più pesante e doloroso, momento dopo momento.
Non
riuscivo a crederci, Lenore! Non potevo averti fatto una cosa
così
atroce, io, proprio io! Sentivo già quegli orribili demoni
danzare
nella mia testa, ridere di me e invogliarmi a lasciarmi andare
all'istinto più brutale e selvaggio che ormai dominava la
mia
persona. Non doveva succedere. Per fortuna venni ancora distratto da
quel calpestio e tesi le orecchie per capire meglio la sua origine.
Temevo fosse una belva affamata, attratta dalle esalazioni emanate
dal mio corpo. Grazie a Dio mi sbagliavo.
Era
una figura umana senz'altro, ne intravedevo la sagoma attraverso la
porticina sgangherata. Lenore, sperai. M'illudevo fino
all'ultimo che
potessi essere tu. Si presentò invece una sorta di angelo
della
morte, nero, tenebroso ma con un qualcosa di beato.
Probabilmente
aveva visto tutto, non sembrava sorpresa al mio cospetto. Era
abbastanza alta, anche grazie al cappello a punta che la
slanciava
ancor di più, indossava una maschera beige molto simile a
quelle
portate dai medici della peste durante l'epidemia del 1633,
un folto
mantello ricoperto da lucidissime penne di corvo e in una mano
brandiva due lame piccole ma affilatissime. Non mi sembrava
una
creatura di questo mondo, confuso com'ero in quell'istante. Mi stava
fissando, senza dire nulla. Non riuscivo a guardarla negli
occhi, a
decifrare il suo stato d'animo, poiché il mio sguardo si
perdeva
nelle fessure della maschera che apparivano come infinite
voragini
oscure, impenetrabili. Sì, sapeva tutto, aveva visto tutto.
Deglutii
e mi alzai in piedi.
“ Tu
che sai, funesto araldo di sventure, quando tornerò
completamente
umano?”
le chiesi, mostrandole i palmi della mie mani che ormai terminavano
in lunghi artigli e si stavano ricoprendo da una folta
peluria
crespa.
“Mai
più”
rispose con una voce femminile, solenne e grave. Non disse altro.
Quelle due parole mi stordirono ancora di più. Cosa
intendeva dire
precisamente? Non potevo restare in quello stato. “Come
sarebbe a dire mai più? Quando riavrò la mia
pelle liscia e candida
come i raggi di questa luna, senza orribili grinfie?”
“Mai
più”
disse nuovamente.
Non
capivo. Con cautela mi avvicinai a lei, non ero certo che fosse una
figura reale, poteva essere frutto della mia immaginazione
contaminata, così provai a sfiorarla e mi resi conto che era
di
carne ed ossa. Trasalii dalla
sorpresa.
“ E
i miei canini e le mie iridi, essi quando torneranno umani?”
-“Mai
più”.
Le
sue risposte iniziavano ad inquietarmi, pronunciate sempre con lo
stesso impassibile timbro vocale.
“I
miei appetiti? Almeno quelli, quando cesseranno di essere bestiali?
Quando riprenderò la retta via della ragione? Quando la
smetterò di
nutrirmi di sangue di altri cacciatori?”
-“Mai
più”.
“Non
ho speranza, dunque”
sospirai, ormai in completa sintonia con il mio interlocutore.
Iniziai a girarle attorno ed uscimmo finalmente dalla casa,
sistemandoci nei pressi di un grosso albero lì
vicino. Non staccava
lo sguardo da me.
Questa risposta mi fece rabbrividire. Non potevo, non volevo crederci. Solo, soltanto in quel momento mi resi conto di averla persa, per sempre, a causa mia. Era davvero troppo. “Dimmi ancora, te ne prego. Lei dov'è adesso? Potrò ancora ricongiungermi a lei?” -“Mai più” disse per l'ennesima volta, ma con un tono più deciso e aggressivo.
La vidi avvicinarsi e aprì con un rapido gesto l'arma che si sdoppiò in due lame luminosissime come mezzelune. Provai un lugubre senso di pace a quella visione.
Mi misi volontariamente in ginocchio, con le mani dietro la schiena, fissando intensamente quell'ingannevole lume astrale che riluceva di bianco, e lei si appostò proprio dietro di me, sfregando tra loro le due piccole falci per affilarle, le quali sprigionarono una polverina brillantissima. “Capisco perfettamente. Questo mondo non fa più per me. Senza Lenore nulla ha senso, non voglio morire da bestia, braccato e ucciso dalle mie stesse prede. Concedimi una morte dignitosa, fa' che venga ricordato come un essere umano, non pretendo nient'altro”.
Sentii il suo respiro e le gelide lame incrociate sulla mia gola. “Un'ultima cosa”- proruppi con voce ormai tremante- “soffrirò ancora?” -“Mai più” disse con un tono leggermente più addolcito.