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Autore: ZoeLoveRock    27/01/2016    0 recensioni
Fatico a guardarli negli occhi perché vedo delle ombre, la sofferenza inaudita che hanno vissuto, la stessa che hai passato anche tu. Non so se saremmo riuscite a ricostruire i brandelli di un’amicizia, anche solo quella, dopo tutto quello che posso solo immaginare che tu abbia provato. Impazzisco all’idea che quello che ti è successo fosse vissuta come la placida normalità, che non scalfisse minimamente le persone con cui passavi le tue giornate. Lì sopravvivevi con l’idea che il giorno potesse essere l’ultimo per te o per una persona cara? Come sei riuscita a resistere tanto? Un tanto che oggi mi sembra poco, una minuscola parte di tutto quello che saremmo potute essere.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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AVVISO: “Shomer ma mi lailah” in ebraico significa “quanta notte mi rimane?” ed è un verso della Bibbia… nonostante questo ci tengo a precisare che ho conosciuto questo passaggio grazie ad una canzone di Guccini.

17 marzo 1947
Cara Christabel, Non senti più quello che ci circonda? Davvero ogni tuo senso si è volatilizzato con la tua scomparsa? Magari quella parte di te che conservo nei miei ricordi percepisce tutto, quello che provo io, quello che accade attorno a noi. Tu però non trasmetti nulla, posso solo immaginare cosa pensi di tutto quello che sta accadendo, delle cose che sono cambiate in questi due anni. Ci sono moltissime cose da dire, sulla situazione politica, sulle persecuzioni, sui campi, su tutte quelle cose che una ragazza non dovrebbe sapere. Però nella mia famiglia si parla molto facilmente: papà a tavola racconta sempre qualcosa, e con tutto il viavai di gente che c’è spesso da me non è difficile origliare e… beh, fare due più due. E diciamocelo, ci sono cose che non hanno bisogno di essere spiegate. Ogni volta che vengo qui, quindi quasi ogni notte, mi arrabbio moltissimo. La vita è talmente ingiusta! Il blocco di marmo che contiene quel che rimane del tuo corpo non si scompone sotto i miei colpi infuriati, né sotto le mie lacrime. So che cosa faresti ora: socchiuderesti le palpebre e scuoteresti la testa, facendo ciondolare la tua treccia infinita. È la stessa che porti nella foto davanti a me, anche se in bianco e nero. Me la ricordo perfettamente: di un rosso acceso, talmente intenso da sembrare innaturale, come la Lanterna Cinese che coltivavi sul davanzale della tua stanza, come ondeggiava nelle corse a perdifiato, o quando la scioglievi e i capelli rimanevano mossi. Sono io quella riflessiva, ricordi? Andavo bene a scuola, amavo scrivere, leggere. Nelle sere d’inverno ci rannicchiavamo tra la finestra ed il camino, guardando la neve. Spesso ti raccontavo le storie dei miei libri, tu ne rimanevi tremendamente affascinata. Tu eri la cocciuta, impulsiva. Il mio rendimento scolastico era migliore del tuo, ma so benissimo chi era il genio della situazione: spesso ti balzavano in mente idee incredibili, volevi realizzarle tutte. Hanno ritrovato il tuo corpo integro, sembravi addormentata. Ti sei lasciata andare nella brandina che usavi come letto, rimanevi ferma mentre attorno a te si scatenava il finimondo: i russi hanno liberato Aushwitz poche ore dopo la tua morte, alcune persone che conoscevi ora posseggono una bancarella al mercato, hanno aperto una bottega… nonostante ciò che sono ora il loro passato è visibile. Fatico a guardarli negli occhi perché vedo delle ombre, la sofferenza inaudita che hanno vissuto, la stessa che hai passato anche tu. Non so se saremmo riuscite a ricostruire i brandelli di un’amicizia, anche solo quella, dopo tutto quello che posso solo immaginare che tu abbia provato. Impazzisco all’idea che quello che ti è successo fosse vissuta come la placida normalità, che non scalfisse minimamente le persone con cui passavi le tue giornate. Lì sopravvivevi con l’idea che il giorno potesse essere l’ultimo per te o per una persona cara? Come sei riuscita a resistere tanto? Un tanto che oggi mi sembra poco, una minuscola parte di tutto quello che saremmo potute essere. Mi spaventa immensamente pensare al fatto che anche tu un mattino ti sei svegliata ed hai trovato Sophie morta. Vedo i vostri genitori, gli sorrido, ma non c’è più quel legame confidenziale che ci univa, anzi. Sono forti, lo so, anche se nonostante questo ogni quando mi rendo conto delle loro sofferenze mi sento terribilmente colpevole e poco solidale nei loro confronti. Comunque, non riuscirò mai a trattarli come se nulla fosse successo: tua madre ha sempre delle occhiaie profonde, violacee. Vedo come tira le labbra quando sorride a qualcuno, come se tentasse di trarre a sé un pezzo del cuore che ha lasciato con te e tua sorella, in Polonia. È lì che si trovano i vostri corpi, anche se continuo a sperare che i pensieri, le anime, i ricordi siano qui, a Bonn; tra le case in legno e le estati in Francia. Mi sono giunte notizie di tutto quello che succedeva ad Auschwitz: devono averti cucito sulla veste un triangolo nero, significava asocialità. Tu non eri asociale, anzi! Rimanevi per ore a chiacchierare con le altre ragazze di talmente tante cose… non sapevo da dove riuscissi a tirar fuori quella molteciplità di argomenti, dal gatto della fruttivendola alla bravura dell’organista in chiesa. Non parlavi male alle spalle delle persone, eri sempre stata una persona schietta, dicevi ciò che pensavi, ma le cattiverie non avevano mai fatto per te. Preferivi trovare i pregi delle persone che ti stavano a cuore che i difetti di quelle che detestavi. Nonostante agissi istintivamente, erano rare le volte in cui ti lasciavi totalmente andare: in quei casi sgranavi gli occhi azzurri e cominciavi a disfarti la treccia, scompigliandoti i capelli e borbottando frasi sconnesse. Spero che il dolore del campo non abbia cancellato le cose belle del passato, come la sfuriata di quando eravamo ragazzine. Dio, quattro anni! Sembrano molti di più, non posso pensare che in un lasso di tempo così breve siano successe tante cose. Avevi scalciato i tuoi stivaletti di pelo accanto alla porta e ti eri rifugiata nella biblioteca di casa tua, senza nemmeno salutare. Ero talmente concentrata su di te che non mi accorsi nemmeno degli ospiti di tua madre, con cui mi scusai solo parecchie ore dopo. Una volta sole facesti sbattere la porta con una violenza inaudita e mi guardasti con un sopracciglio alzato. “Edith!” sbuffai al tuo richiamo, sapevo che non avresti voluto rimanere sola, era il tuo modo per dirmi che eri veramente arrabbiata; dopo anni di conoscenza ho imparato a interpretare quello che lasciavi sottinteso, come se spettasse all’altra persona capire le parole non dette, ma che in qualche modo esprimevi. Cominciasti ad afferrare libri dagli scaffali, impilandoli con rabbia sul tavolo. Non mi avevi detto cos’avresti fatto, ma in un certo senso sapevo che te ne saresti andata, cercando di portare con te dei testi che ti tenessero compagnia, così per ogni volume che prendevi io ne rimettevo un altro a posto. Inizialmente non te ne accorgesti e continuasti imperterrita il tuo lavoro. Mi divertii molto vedendo la tua espressione perplessa quando ti voltasti convinta di aver racimolato molti testi e vedesti il tavolo vuoto. Imprecasti a voce piuttosto alta, per poi avvicinarti a me a passo di marcia. Dopo aver preso un respiro profondo cominciasti a sfogarti, in quel poco tempo potei i tuoi occhi più vividi che in qualunque altro momento. Dovevo stare incollata al muro per contrastare ogni muscolo del mio corpo che mi proiettava verso di te. Avrei voluto abbracciarti, sentire i tuoi capelli che mi solleticavano il collo, il tuo profumo di pulito, il peso familiare dell’orecchino d’oro sulla mia guancia. Osservai la fiamma che si consumava nelle tue iridi, sempre più infervorate, finché non ti accorgesti del mio sguardo rapito. Il tuo volto esprimeva una perplessità calma, curiosa, come se cercassi di capire lo scontro che in quel momento si stava svolgendo nella mia mente e che, irradiandosi in tutto il corpo, mi faceva sentire confusa ed annebbiata. Il tuo cambiamento d’umore non mi sorprese particolarmente, concentrata com’ero sulle mie emozioni così incontrollabili che mi costrinsero a socchiudere appena gli occhi, per riprendere un fiato che non avevo mai perso. Ti avvicinasti a me con una certa calma, finché i nostri visi non furono più vicini di quanto non lo fossero mai stati. Il tuo sospiro tremulo mentre continuavi a fissarmi negli occhi, con un sorriso che faticavo a decifrare: immensamente dolce ma allo stesso tempo notavo una certa ansia e… malizia, anche se me ne accorgo soltanto ora, che sono cresciuta e che so come sono andate le cose. Ricordo benissimo di essermi morsa il labbro dall’agitazione, tanto forte da farmi avvertire il sapore del sangue. Ho perso un battito quando ho visto che mi osservavi in quel modo, sai? Ho paura di descrivere quello che è successo dopo, mi emoziono ancora al ricordo del brivido che mi ha percorso la schiena quando ci siamo avvicinate tanto da sfiorarci delicatamente, al ricordo della sensazione di argento fuso che sentivo nella mia testa, come se si fosse liquefatta all’istante, al ricordo della felicità che ho provato, al ricordo della sensazione di essere estraniata dal mondo, con te. Ti hanno presa perché hanno trovato le mie lettere, anche se non sapevano che fossi io la mittente. Avevamo litigato qualche ora prima ed avevo buttato nel fuoco le tue parole, i tuoi sentimenti, guardandoli diventare cenere. Ed è anche la fine che farà anche questa, ora che ho finito di scriverla, sperando che i piccoli granuli neri in cui si trasformerà ti raggiungeranno dove sei ora, nel posto in cui si trovano gli angeli custodi. Hai spiegato le tue ali e hai preso il volo verso il cielo, tra tutte le sofferenze che hai potuto sopportare.

Edith piegò in quattro il foglio, nascondendolo nella tasca della gonna scura. Mentre si sistemava meglio il cappotto sentì dei rumori vicino a lei. Tesa, si voltò aguzzando gli occhi, facendo attenzione a non fare il minimo rumore. Vide un uomo anziano seduto qualche tomba più in là che la fissava terrorizzato, come un cervo abbagliato dai fari di un’ automobile. Dopo la paura del momento però, i due sentirono una specie di legame che li univa, creato dal dolore condiviso per la perdita di qualcuno importante quanto la loro vita. La giovane gettò un’occhiata veloce al cielo scuro, ma, non riuscendo a capire l’ora, sorrise all’uomo poco lontano. “Shomer ma mi lailah?” chiese flebilmente, riuscì ad individuare l’espressione più distesa dell’altro sotto i raggi della luna.
   
 
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