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Autore: Relie Diadamat    28/01/2016    6 recensioni
Tutti sappiamo di cosa trattava l'antica profezia secondo cui Merlin, il più grande mago di tutti i tempi, avrebbe aiutato il principe Arthur a costruire Albion, aspettando poi, dopo la morte del suo Re, il suo risveglio. Ma se le cose non fossero andate proprio così? Se ci fosse stata un'altra versione della profezia?
[Dal capitolo 1]
Derek poggiò entrambe le mani sulle spalle del corvino, proprio come era solito fare al Grey Sloan Memorial tutte le volte che un paziente si ritrovava dinanzi ad un bivio, insicuro su quale strada prendere. «Sono un medico, il dottor Shepherd. Non devi fingere con me, ti assicuro che non smonterò tutta la farsa che hai messo in scena per Gwen, ma io posso aiutarla»[...]
«Sono un neurochirurgo di fama mondiale ed ho molte conoscenze. Se solo tu potessi fornirmi il nome dello psichiatra che la tiene in cura o portarmi dal capo di chirurgia, ti assicuro che farei del mio meglio per aggiustare le cose. Non dovrai più nasconderti dietro un falso e ridicolo nome estrapolato dal ciclo bretone. Io posso aiutarti».
[...] «Voi siete completamente pazzo».

[Crossover Merlin/Grey's Anatomy]
Genere: Drammatico, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù, Un po' tutti
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler! | Contesto: Seconda stagione, Contesto generale/vago
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Nda: Buon salve!
Okay, prima di ogni cosa vorrei informarvi che tra tutte le long che ho inziato, questa e Pendragon's saranno quelle sulle quali mi concentrerò di più. Ultimamente mi sono dedicata al fandom di Grey's Anatomy e... puff! Questa pazza idea ha avuto il sopravvento su di me!
Piccole premesse: 
- Se conoscete il fandom di Merlin e non quello di Grey's, godetevi la storia come un grosso what if appena dopo la prima stagione/inizio seconda, dove tutte le cose successe prenderanno una piega del tutto differente grazie a nuovi personaggi. Vi consiglio però di vedere il video che vi linkerò dopo, giusto per avere una vaga idea di ciò che ho scritto... per il resto: buona lettura!
- Se conoscete il fandom di Grey's e non quello di Merlin, leggetevi la storia come un grossissimo what if dopo la morte di Derek. (ç__ç) Posso assicurarvi che ci sarà da divertirsi!
- Nel caso conosciate entrambi i fandom... BUONA LETTURA!
Spero vivamente di ricevere i vostri pareri su questo primo capitolo, giusto per vedere che impatto ha avuto su di voi ^^
Dunque, spero di rivedervi a fine capitolo... ma mi accontenterò anche di essere letta in silenzio.
Buona, spero, lettura.


Video da cui parte la storia: click

“Derek… Derek!”
Silenzio, l’odore amaro di una lacrima che le riga la guancia destra.
“E’ tutto okay. Puoi andare… Noi staremo bene”.
Altro dolore acquoso, altri singhiozzi repressi e poi l’assenza. L’assenza di tutto: di luce, di colore, l’assenza di un battito cardiaco. E così, sarà proprio la Morte a separarlo da Meredith, ripensò. Ma non c’era più tempo per altri pensieri, non c’era più tempo per niente. Il nulla era un’ombra incombete.
Nulla. Perché non senti proprio niente una volta che la morte ti stringe fra le sue braccia e ti porta via con sé.

 
 
I. The knight in shining not remember what 
(Il cavaliere dalla scintillante non mi ricordo cosa)



Aria. Avvertiva un’impellente bisogno d’aria.
Mosse automaticamente mani e piedi, tentando di riemergere da quell’involucro liquido e gelido che lo circondava. Quando il suo capo fu risalito a galla, respirò a bocca spalancata tutto l’ossigeno di cui era capace, cercando di riprendere il controllo di sé.
Solo dopo quindici secondi passati a incanalare aria nei polmoni, diede rapide occhiate intorno provando a comprendere dove si trovasse. Le ciglia erano zuppe e pesanti e gl’infastidivano la vista, ma si accorse di essere immerso nell’acqua fredda di un lago – immenso a suo dire -, circondato da alberi alti e fitti di un verde cupo e torbido.
Cupo e torbido.
Non aveva la più pallida idea di dove fosse, né di come ci fosse finito in quel posto, ma sapeva di essere un rinomato neurochirurgo di fama mondiale e conosceva a menadito tutti i pericoli che potessero insorgere nel rimanere troppo tempo nell’acqua polare, artica, ghiacciata di quel lago.
Ma era troppo stanco per continuare a nuotare, troppo stanco per muovere un solo muscolo. La sua battaglia l’aveva già combattuta dopotutto, e ora era il suo turno di riposare.
Chiuse gli occhi, lasciandosi accogliere dalle gelide braccia del lago. Sarebbe ritornato presto il buio, si diceva, ma proprio mentre stava per scivolare verso il basso un grido allarmato gli arrivò all’orecchio, riscuotendolo dalla sua resa.
«Fate presto! Starà annegando!»
«Ma… mia signora, non sappiamo chi sia-»
«Niente ma! È un uomo, ha bisogno di aiuto: soccorretelo, subito!»
Derek pensò che quella voce dovesse appartenere ad una donna guerrigliera, una che mettesse passione in qualunque esperienza le proponesse la vita. Anche le più oscure.
Avrebbe voluto vederla in volto, associare a quella voce una figura, ma era troppo stanco. Udì qualcuno gettarsi nell’acqua e avanzare nella sua direzione, mentre il lago cominciava ad attrarlo nei suoi abissi.
«M-Meredith», bisbigliò appena, immaginandosi la donna che amava e che avrebbe sempre amato in piedi nelle acque gelide a tendergli una mano, rimproverandolo di non essere stato abbastanza attento.

**
 
Il giovane valletto reale era chino sul pavimento della stanza del principe di Camelot, strofinando energicamente una pezza sulle mattonelle in pietra.
Arthur Pendragon, buttato senza alcuna cura giù dal letto da quell’incompetente di Merlin ore prima, era appena rientrato nelle sue stanze dopo una riunione col re, calpestando disinteressato il perimetro ancora umido di suolo, facendo sì che si creassero nuove impronte fangose.
Indignato, il servo lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, restando seduto sulle propria ginocchia. «Sapete, potreste prestare più attenzione a dove mettete i vostri regali piedi».
Arthur alzò un sopracciglio, assumendo una vaga aria innocente: «Sono rientrato nelle mie stanze, Merlin. Posso farlo quando più mi aggrada».
«Io avevo appena smesso di lavare il pavimento!» protestò il corvino balzando in piedi, gli occhi azzurri furiosi sulla silhouette allenata del suo stupido padrone.
 «Vorrà dire che lo laverai di nuovo», spiegò solamente Arthur, allargando le labbra con un falso sorriso fastidioso. «D’altronde, è la pratica che rende perfetti, no?»
Merlin arricciò la bocca in una smorfia di dissenso che il principe non colse dal momento in cui gli volse le spalle, e brontolò sottovoce: «Dovete esservi allenato molto per divenire un perfetto Asino».
«Ti ho sentito, Merlin».
Il servo si lasciò scappare un sorrisino muto, scuotendo il capo, chiedendosi del perché dopo tutto quel tempo trascorso insieme al Pendragon non gli pesasse poi così tanto la sua arroganza e la sua aria da principino viziato, sentendosi ogni giorno sempre più disposto a donare la sua vita per lui.
Forse ne avevano passate così tante insieme che Merlin non riusciva più ad immaginare la sua vita senza Arthur, quel biondino testardo ed esigente che avrebbe seguito ovunque, anche in un’altra epoca, restandogli fedelmente accanto.
C’erano giorni in cui la profezia di cui gli aveva parlato Kilgharrah, il drago millenario rinchiuso nei sotterranei, diventava opprimente, quasi soffocante; poi c’erano altri giorni, momenti in cui Merlin immaginava ad occhi aperti la bellissima Albion, governata dal giusto re Arthur Pendragon che accettava persone come lui, con il suo dono.
Sapeva poco e niente di quella profezia, Merlin, ma in cuor suo sentiva il dovere di rispettarla, far sì che si compisse.
Quando la porta della stanza del principe si aprì in un lento scricchiolio, Merlin era ancora impalato con la pezza tra le mani, ascoltando le lagne di un affamato Asino reale che si lamentava di non aver ancora addentato nulla dalla prima mattina – cosa ovviamente non vera.
Una chioma di onde corvine fece capolinea nella stanza, insieme a due occhi verdi come smeraldi preziosi. Morgana restò sull’uscio, lasciando ricadere il suo sguardo sul servo.
Arthur si rigirò tra le mani la mela che aveva sgraffignato dal vassoio, sul tavolo accanto al camino, sorridendo beffardo alla sua sorellastra. «Morgana! Qual buon vento ti porta qui?»
La nobildonna ignorò il tono canzonatorio del principe, rimanendo seria, continuando invece a fissare il giovane Merlin, ancora fermo nella sua posizione. «Ho bisogno di Merlin».
Le sopracciglia dorate del Pendragon si piegarono in un’espressione incuriosita. «Perché mai?»
«Non sono tenuta a riferirti ogni cosa, Arthur», rispose seccata la corvina, avvolta nel suo costoso abito scuro che tanto le risaltava le iridi chiare.
«E’ il mio servo, Morgana», le fece nota.
Merlin rimase coscienziosamente in silenzio, ignorando il fatto che parlassero di lui come di un oggetto (in sua presenza), consapevole di quanto i due ragazzi amassero indispettirsi a vicenda senza alcuna ragione apparente.
«Che sorte crudele».
«Come quella di spazzolarti ogni giorno».
Morgana serrò gli occhi a due fessure, indispettiva, bofonchiando chissà che cosa, per poi rinchiudersi furiosa la porta alle spalle.
Arthur addentò la sua mela in parte irritato e in parte soddisfatto per la sua piccola vittoria, commentando, sicuro che il servo stesse lì ad ascoltarlo: «Crede ancora che potrà avere la meglio un giorno».
Merlin diede le spalle al principe rimettendosi al lavoro, sollevando le sopracciglia con l’aria di chi la sapeva lunga, domandandosi chi, tra quei due, sarebbe mai riuscito ad averla vinta sul serio.
 
 
**
 
 
Dormì senza sognare, lasciandosi cullare dai movimenti ammaliatori ed esperti del buio più totale, finché un tepore non gli accarezzò le pelle, le guance e le labbra disidratate. La sua schiena era annichilita e non c’era parte del corpo che non gli dolesse. Per quanto tempo aveva perso conoscenza?
Si sforzò di sollevare le palpebre, decidendo che da sveglio i danni fossero più facili da rilevare. La prima cosa che intravide fu una pentola sollevata qualche centimetro dal fuoco, percependo odore di legna bruciata.
«Vi siete svegliato».
Derek batté le ciglia un paio di volte, rendendo la sua vista man mano più nitida, riuscendo a dare un volto alla voce che lo risvegliava dalle tenebre. «Come vi sentite?», sentì dire ancora, prima di accorgersi di essere sdraiato sul pavimento fresco di quella che pareva essere una baita di montagna assai rustica.
«Per… Per quanto tempo ho perso conoscenza?»
«Non saprei, signore. Ma so che siete qui molto prima del mezzodì».
«Mezzodì?»
Derek si tirò a sedere con qualche difficoltà iniziale, volgendo poi il capo alla sua destra incontrando finalmente il viso pieno e mulatto di una ragazza, gli occhi scuri e il sorriso cordiale. «Sì», gli rispose. «Come vi sentite?»
«Bene», costatò tutto sommato Derek, accorgendosi solo in un secondo momento dell’abbigliamento insolito della ragazza al suo fianco. «Credo. Qual è il tuo nome?»
Il volto della ragazza, incorniciato da crespi ricci castani, si colorò visibilmente di un rosa più acceso. «Guinevere, ma quasi tutti tendono a chiamarmi Gwen».
Derek allargò le labbra cortese, porgendole la mano. «Piacere Gwen, io sono Derek. Sai dirmi dove mi trovo?»
Giallo tenue, proprio simile al colore dei primi raggi all’alba, era quello il colore della veste indossata da Guinevere, la sconosciuta che gli parlava con tono gentile e materno. Inizialmente, contro tutte le certezze scientifiche di cui si avvelava ogni suo ragionamento, aveva pensato di ritrovarsi faccia a faccia con un angelo dalle labbra mordicchiate e rovinate dal freddo, sicuro come mai in quel momento di ritrovarsi in un angolo sperduto del Cielo, nel tanto atteso Paradiso cristiano in cui tanto la Stevens e la Kepner credevano. Ma il dolore, il lieve giramento di testa che aveva provato precedentemente, gli suggerivano altro: non era morto. Forse l’incidente, il neurochirurgo in ritardo… forse erano stati tutto frutto della sua mente. Forse stava solo sognando.
«Scusami?», la fermò sovrappensiero Derek, accorgendosi di non averla sentita mentre gli rispondeva.
«Ho detto che vi trovate a Camelot».
«Camelot?», domandò dubbioso e alquanto smarrito il dottor Mcdreamy.
Gwen abbassò lievemente il capo, probabilmente suggestionata dallo sguardo incantevole e affascinante del neurochirurgo, spiegandogli pazientemente la situazione: «Lady Morgana, la protetta del re, vi ha scorto dimenante nelle acque del lago, proprio mentre si recava presso la tomba del padre defunto. Così ha dato ordine ai suoi uomini di soccorrervi e vi ha portato qui, a Camelot. Mi ha chiesto di badare a voi, almeno finché il medico di corte non si libererà dei suoi impegni e potrà visitarvi».
«Il medico di corte…», farfugliò sempre più confuso Derek. «Quando parli di Camelot, intendi…»
«Il regno dei Pendragon», assentì prontamente Gwen.
Derek, la bocca semiaperta in un’istintiva espressione di meraviglia, finse di starle al gioco annuendo col capo. Era sicuramente un caso di psichiatria, si convinse, ricordando di aver letto da qualche parte – forse in un libro di storia – di quel detenuto alla Bastiglia che credeva di essere Giulio Cesare. A giudicare dai vestiti e dal registro linguistico della ragazza, era ovvio che soffrisse di un qualche disturbo simile.
Che si trovasse ancora in quella specie di ospedale?
Al pensiero della craniotomia indirizzò con urgenza i suoi occhi azzurri ad esaminarsi i vestiti, accorgendosi di essere completamente nudo, coperto unicamente da una coperta ruvida e maleodorante. «I miei…»
Le gote di Guinevere si tinsero di un rosso inteso, molto simile al colore della bistecca che Meredith portava in tavola, non riuscendo mai a cuocerla come avrebbe dovuto. «I vostri abiti sono andati persi nelle acque», aggiunse imbarazzata, volgendo lo sguardo altrove.
«Oh…»
A disagio, Gwen si rimise in piedi, lisciandosi frettolosamente il vestito per l’imbarazzo, raggiungendo a grandi passi il letto assai distante da quel che pareva essere un focolare, accanto a cui Derek era disteso. «Vi ho preparato degli abiti di mio padre, sperando che vi stiano bene» disse, indicando con una mano gl’indumenti ripiegati con cura.
«Sei gentile, Gwen», fu l’unica frase che Derek riuscì ad articolare con le sopracciglia crucciate.
«Alcune donne della cittadella mi avevano consigliato di bruciarli tutti, ma io non l’ho fatto. Sono l’unico ricordo che mi resta di mio padre», iniziò a raccontare la mulatta con aria serena e a tratti nostalgica. «Spero non vi dispiaccia indossarli, perché a me non spiace se voi li indossate… non dispiace neanche a mio padre.» Gwen arricciò le labbra in una smorfia strana, ridendo per le sue sciocche parole: «Insomma, non gli sarebbe dispiaciuto, visto ch’è morto», si corresse.
«Mi dispiace».
Derek era ancora convinto che quella ragazza fosse malata, ma al ricordo della sparatoria di molti anni addietro, quando aveva visto un uomo sparare a suo padre per uno stupido orologio, provò una solidale empatia verso la mulatta.
«All’inizio è stato difficile», confessò, «ma poi ho capito che una parte di lui sarebbe per sempre rimasta con me».
Derek le sorrise, ripensando a tutte le volte che aveva rivisto il volto di suo padre in un paziente salvato. In fondo era per questo che aveva scelto medicina, era questa la ragione che lo aveva spinto a diventare qualcuno. «Sono solito pensarla allo stesso modo».
 
**

 
Merlin uscì esausto dalle stanze del principe, cosciente che tutto il lavoro non fosse finito lì: sarebbe dovuto ritornare da Gaius, il quale gli avrebbe sicuramente detto di procurargli delle erbe per curare una brava persona in pessime condizioni – questo perché le cose brutte capitano sempre alle brave persone, non di certo ad uno stregone psicopatico assetato di vendetta che medita piani arzigogolati per uccidere o il re o il principe -, quindi avrebbe dovuto obbedire consenziente, per poi ritornare a castello dove lo aspettava un Asino impaziente pronto a sovraccaricarlo di mansioni e lavoretti sfiancanti e…
«Perché ci hai messo tutto questo tempo?!»
Merlin, la bocca semiaperta, non riuscì ad articolare neanche mezza sillaba dopo aver realizzato di essere stato trascinato contro la parete, per il polso, dalla più desiderata e invidiata donna di Camelot. Non che si trattasse di amore platonico o altre faccende da romanzetti di corte, ma dopo tutto quel tempo passato a Camelot, il giovane mago non era ancora riuscito ad abituarsi alla disarmante bellezza della figlioccia di Uther Pendragon, soprattutto, non quando gli si parava davanti come per magia.
Recuperata la lucidità, distogliendo immediato gli occhi dalle clavicole in bella mostra di Lady Morgana, il servo le chiese ingenuo e un po’ titubante, non comprendendo il suo nervosismo: «S-Sarei dovuto uscire prima?»
La pupilla del re liquidò la sua domanda mollando la presa al suo polso con fare sbrigativo.
«Lascia perdere. Non abbiamo tempo».
Morgana cominciò ad incamminarsi lungo il corridoio a grandi passi. Merlin, mezzo intontito quanto spaesato, aggrottò la fronte, ancora con le spalle al muro. «Tempo?»
Comprese di aver commesso un errore madornale nel momento in cui due smeraldi indispettiti lo trafissero nell’immediato, costringendolo a mordersi la lingua, chinare il capo e a seguire la castellana senza fare obiezioni. «Sì, mia signora».
 
**
 
Derek si era fasciato la vita con la coperta, prendendo tra le mani gli abiti che la sconosciuta con quello strano problema al cervello gli aveva gentilmente prestato, riparandosi dietro al paravento, ma nell’abbassare lo sguardo sui suoi piedi per infilarsi i pantaloni, percepì un improvviso senso di vuoto; una dolorosa fitta alla testa, proprio come quella che aveva avvertito quando il camion lo aveva preso in pieno.
Continuò a fissarsi i piedi nudi mentre il mondo pareva avesse preso a girare senza sosta, non riuscendosi illogicamente a muovere dalla sua posizione. Derek era immobilizzato, incapace di muovere un singolo muscolo, lo sguardo fisso sui suoi piedi scalzi.
Le unghie delle dita sporche di fango, un paio di pantaloni da tirare su per rendersi presentabile, mentre dall’altra parte della stanza una ragazza che non conosceva attendeva in silenzio ed imbarazzo che si rivestisse per uscire dal paravento.
L’aveva già vissuta quella scena…
“Ehm… Addio…”
“Derek”.
“Derek! Giusto! Meredith”.
“Meredith?”
“Già”.
“E’ stato un piacere conoscerti!”
“Addio, Derek!”
Gli occhi azzurri di Derek cominciarono a pizzicare, e il neurochirurgo dovette sollevare il mento per evitare che le lacrime gli rigassero parte del volto. Indossò i vestiti prestatigli da Gwen: pantaloni scuri, abbastanza larghi per la vita sottile dell’uomo e una tunica chiara che Derek dovette fermare con la cinghia di cuoio, abbassandosi, infine, per infilarsi gli stivaletti.
Una volta uscito dal separé di legno, ritrovò una Guinevere poggiata al piccolo tavolo che gli sorrideva cordiale e timida allo stesso tempo, a mani intrecciate. «Vi donano» gli disse, col la luce del sole che, entrando dalla finestra, le colorava parte del viso mulatto.
Derek abbassò lo sguardo sul suo corpo, esaminando senza attenzione il suo vestiario. «Dite?»
«Possedete una rara eleganza, Sir-»
«Chiamatemi Derek. Solo Derek».
Gli angoli della bocca sottile ancora all’insù, un lieve rossore sulle guance piene lasciate scoperte dai ricci in parte raccolti sul capo, Gwen snodò le dita dapprima annodate in una morsa di nervosismo. «Possedete una rara eleganza, Derek», ripeté, stavolta più sciolta e sincera.
Stava per ringraziarla, McDreamy, che intanto si era premurato di assecondarla in quella sceneggiata medievale dandole del Voi, evitando di contorcersi a causa dell’improvviso prurito che si era esteso su ogni centimetro di pelle ricoperto da quegli abiti vecchi e inodore, quando un picchiettare di nocche contro la porta attirò l’attenzione sua e della sconosciuta.
Quest’ultima la raggiunse guardinga, chiedendo chi fosse ancora prima di aprire. Solo quando udì il nome Merlin si decise a lasciar entrare in casa un ragazzo corvino allampanato, abbigliato come Gwen con indumenti medievali.
Derek rimase a debita distanza, ragionando tra sé e sé quanto fosse grave il problema di quella povera ragazza affinché anche i familiari (o forse gl’infermieri) dovessero sottostare alle sue sciocche convinzioni, ignorando in tutto e per tutto la spiegazione che il corvino stava fornendo a Gwen circa l’assenza di una certa Morgana e la sua presenza lì.
«Sei sicuro di sapere cosa fare?», sentì bisbigliare Gwen al ragazzo, vagamente preoccupata.
«Non temere, Gwen. Ho visto Gaius farlo tante di quelle volte che… potrei quasi definirmi un esperto».
Fu solo quando il giovanotto si avvicinò gaio, con un sorrisetto beota e due fossette sulle guance, presentandosi con il nome di Merlin che Derek ebbe un lampo di genio, intuendo le intenzioni di quei due strani individui. Il neurochirurgo si astenne dallo stringergli la mano, squadrandolo invece con aria diffidente. «Sembri  fin troppo giovane anche per essere una semplice matricola».
Merlin, confuso, si fermò con le mani intente ad afferrare qualcosa dalla tracolla. «Una cosa?»
«Scommetto che non hai ancora dato neanche l’ultimo esame e già ti credi un Dio della medicina», Derek incrociò le braccia, inchiodando le sue iridi ceruli in quelle altrettanto chiare e spaesate del povero servo. «Mi dispiace, ma ho già avuto una brutta esperienza con dottori incompetenti. Non vorrei ritrovarmi cerebralmente morto una seconda volta».
«Morto. Cerebralmente…», riuscì solo a ripetere Merlin – senza coglierne però il senso logico -, socchiudendo lo sguardo dubbioso. «Certo», ne convenne, voltandosi alle sue spalle per incrociare lo sguardo di Gwen, mimandole con le labbra di chiedere urgentemente aiuto al medico di corte: quell’uomo, chiunque egli fosse, non era normale. Forse, gli venne pessimisticamente da pensare, poteva addirittura trattarsi di uno stregone.
«Mi serve dell’acqua, Gwen», finse dunque il mago, beccandosi di rimando un’ammonizione indignata da parte del neurochirurgo: «Sono stato travolto da un camion, a cosa credi che mi servirebbe dell’acqua?!»
«Presto!»
Guinevere si schiodò dal suo posto, ciabattando rapida fuori da quella piccola casetta, senza neanche portare via con sé un secchio o un vaso utile per raccogliere dell’acqua.
Derek si ritrovò così solo con quello strano ragazzino dagli zigomi sporgenti, sciogliendo dal petto le braccia che aveva precedentemente incrociato, sporgendo il viso in direzione di quello pulito di Merlin, parlandogli a bassa voce in tono quasi confidenziale, rasserenato in parte di aver trovato qualcuno che – seppur inesperto nel mondo della medicina – poteva aiutarlo: «Lei è all’addetto alle pulizie, un infermiere o un parente?»
«Io… No, sono solo un semplice servo, ma abito con il medico di corte».
Derek poggiò entrambe le mani sulle spalle del corvino, proprio come era solito fare al Grey Sloan Memorial tutte le volte che un paziente si ritrovava dinanzi ad un bivio, insicuro su quale strada prendere. «Sono un medico, il dottor Shepherd. Non devi fingere con me, ti assicuro che non smonterò tutta la farsa che hai messo in scena per Gwen, ma io posso aiutarla», Derek si leccò le labbra secche, ignorando la faccia interdetta e ibernata del ragazzo. «Sono un neurochirurgo di fama mondiale ed ho molte conoscenze. Se solo tu potessi fornirmi il nome dello psichiatra che la tiene in cura o portarmi dal capo di chirurgia, ti assicuro che farei del mio meglio per aggiustare le cose. Non dovrai più nasconderti dietro un falso e ridicolo nome estrapolato dal ciclo bretone. Io posso aiutarti».
Derek aspettò in silenzio, le mani fredde ancora sulle spalle del ragazzo, che il corvino proferisse parola o che gli desse un cenno annuendo col capo, ma lo vide rimanere impalato con la fronte corrugata, gli occhi azzurri spalancati e la bocca semiaperta. Quando Merlin decise di rispondergli, tutto ciò che riuscì a dire a discapito di quello che Derek sperava, fu solo: «Voi siete completamente pazzo».
Esasperato, Derek digrignò i denti battendosi un pugno sulla coscia destra.
Sono capitato nel reparto psichiatrico, lo sapevo!
Camminò nervosamente su e giù per la piccola stanza, passandosi nervosamente una mano negli ancora folti capelli d’ebano, domandandosi cosa ci facesse ancora lì, perché tutto non fosse diventato buio e sordo e perché, nonostante la morte cerebrale, fosse ancora in grado di respirare, parlare e camminare… E infine si domandò dove diamine fosse finito e se, da qualche parte, Meredith o sua sorella lo stessero ancora cercando.
«Muovi quelle gambe fatiscenti, infida bestia
Derek, che nel frattempo si era fermato ad un passo dalla finestra, indirizzò lo sguardo verso Merlin.  «Cosa hai detto?»
Merlin scosse la testa. «Nulla».
«Sei sordo per caso? Il tempo ti ha consumato i timpani?»
Derek e Merlin si lanciarono un’occhiata preoccupata nell’udire le urla di un anziano ansimante di dolore, affacciandosi entrambi alla finestra che dava alla strada, rimanendo inorriditi dalla scena che ebbero la disgrazia di osservare: un uomo sulla sessantina, inginocchiato sul terreno e con le mani legate dietro la schiena, veniva spintonato da cavalieri rivestiti di armature luccicanti e mantelli rosso fuoco che, due o tre volte, gli tirarono i lisci capelli grigi nel tentativo di rimetterlo in piedi.
«Cosa diamine sta succedendo lì fuori?» fu il lieve sussurro che uscì dalle labbra di Derek, atterrito dalle grida disumane che fuoriuscivano dalla bocca di quell’anziano piangente e disperato, malmenato da quegli uomini in armatura. Cosa diamine stava succedendo?
«Il re odia la magia e chiunque ne abbia qualcosa a che fare».
Il neurochirurgo si accorse solo in un secondo momento che il servo si era accostato a lui per guardare fuori dalla finestra, gli occhi azzurri velati da un’ombra buia e la mascella serrata.
Com’era possibile? Non poteva essere vero, continuava a ripetersi Derek.
Voltò nuovamente lo sguardo sulla calca di persone che si era formata attorno all’anziano, che intanto era stato spintonato più avanti, lontano dalla sua vista, mentre sentiva nascere al suo interno una strana sensazione di pesantezza e disorientamento. Doveva sapere cosa stava succedendo.
«Io non lo farei se fossi in voi», sentì dire dal servo come se gli avesse letto nel pensiero. Ma Derek rischiava di andare nel panico più totale e aveva dannatamente bisogno di risposte, per cui ignorò le parole del corvino e attraversò a grandi calcate la stanza uscendo in strada, mischiandosi alla folla sudata e ai mille aliti pesanti che si confondevano nella fiumana di persone dai capelli crespi e indumenti medievali.
Si fece spazio sgomitando, raggiungendo a fatica la seconda fila prima dei cavalieri e il prigioniero che continuava a dimenarsi, aggrappandosi al suolo terroso con le unghia, strillando e implorando.
Così bisognoso di risposte non distolse lo sguardo, Derek, neanche quando vide il vecchio scalciare, con i vestiti ormai interamente ricoperti di polvere e macchie, contro i due uomini armati di spade. In un’altra vita sarebbe intervenuto, McDreamy, forse anche con spavalderia, ma quella volta rimase muto e agghiacciato con i piedi incollati al suolo.
Non riuscì a muovere neanche un muscolo, nemmeno mentre le rughe dell’anziano venivano accarezzate da gocce di pianto e di sudore.
Dalle labbra di quell’uomo scapparono preghiere, scongiurazioni e insulti che avrebbe fatto meglio a tener a freno, stringendo i denti fino a spaccarli se necessario; quando l’offesa arrivò alle orecchie del cavaliere armato, non ci fu nessuno a fermare la lama della spada che gli trafisse la schiena, strappandogli l’ennesimo grido dalla bocca invecchiata.
Sangue. Era sangue quello che sgorgava dal corpo del vecchio e che colorava di rosso l’arma estratta dalla sua schiena. L’odore, stomachevole e pungente che Derek sentì entrare nelle narici, era quello del sangue.
Due passi indietro, mentre parte della folla gioiva ed esultava per una vita distrutta, e Derek percepì l’impellente bisogno di vomitare, ma non fece nulla se non indietreggiare di altri due, tre e quattro passi, finché non si rese conto di correre. Sentiva solo l’odore del sangue, il rumore delle sue scarpe contro il terreno e il clacson del camion che gli finiva addosso.
Non sapeva dove cavolo era finito, ma ormai era sicuro che non si trattasse di un ospedale, né tanto meno di un reparto psichiatrico. In quel momento l’unica cosa importante era correre. Scappare via.
Andare.
 
 
   
 
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