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Autore: nainai    18/03/2009    4 recensioni
La notte di Halloween, una festa di compleanno che è un pò una riconciliazione. Gerard Way si ritrova suo malgrado a tirare le somme della propria vita.
Genere: Generale, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bob Bryar, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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nightmare
Attenzione: la presente storia ha come protagonisti persone realmente esistenti. La storia non ha alcuna pretesa di veridicità/verosimiglianza. Non s'intende offendere nessuno. Nessun diritto legalmente tutelato s'intende leso

Nightmare Halloween Night


Il buio non fa altro
che far sembrare le nostre paure di sempre
concrete

E’ quasi mezzanotte. La notte di Halloween. Io dovrei essere ad una festa.
Dovrei esserci da tre ore.
Ovviamente non ci sono. Sono qui. Quindi non sono alla festa a cui dovrei essere.
È la notte di Halloween, il compleanno di Frank ed io dovrei essere alla sua festa.
A mezzanotte lui taglierà la torta ed avrà ventisette anni ed io non gli avrò fatto gli auguri.

-Immagino che dovrei conoscerti.- dico lento.
Sono tre ore che è seduto davanti a me. Non fa nulla, proprio come non faccio niente io. Sediamo di fronte in due poltrone speculari, lui mi sorride, io all’inizio non l’ho fatto ma adesso, tutto ad un tratto, viene da ridere anche a me. Siamo rimasti al buio, l’unica luce viene dalla finestra aperta del salotto, dalla strada che pure non è affatto illuminata, come se i lampioni si fossero spenti all’improvviso o l’oscurità si fosse fatta troppo fitta.
Invece, è solo che la strada da qui è lontana.
-La maggioranza delle persone non è così arrogante, Gee.- mi risponde lui con una sfumatura di sarcasmo cortese nel tono studiato.
Mi soffermo sulla battuta, ci rifletto seriamente perché stanotte rifletto seriamente su tutto quello che mi succede.
Penso che sia normale farlo.
Penso che non capiti molto spesso di sedere di fronte a se stessi, parlando con il proprio doppio come se si stesse parlando ad uno specchio dotato di vita propria.
No. Penso proprio che quello che mi sta succedendo non sia affatto usuale.
-Intendi dire che la maggioranza delle persone non è così arrogante da affermare di conoscere se stessa?- insisto.
Non so se ha annuito. Non riesco a percepire tutti i suoi movimenti e lui spesso si limita a questo, a muoversi, così io perdo il senso dei suoi cenni.
-Cosa credi che sia?- mi domanda a bruciapelo, ma non sembra interessarlo davvero il mio parere.
Sono tre ore che me lo chiedo. Ma sono anche arrivato alla conclusione di non saperlo, quindi ho smesso di farmi domande ritenendo di doverlo, semplicemente, sapere. Evidentemente non è così. È ammesso che io non sappia cosa mi siede davanti.
-E’ indispensabile che risponda?- ritorco.
Tre ore fa lo era. Io mi stavo preparando ad uscire, sono sceso dalle scale per raggiungere il pianterreno della villa, ho preso le chiavi dal mobile all’ingresso, ho preso il giubbotto dall’attaccapanni, ho spento le luci in cucina e nel soggiorno. Mi sono voltato, mentre pensavo di allungare una mano e girare il pomello della porta, ed il salotto era occupato. Una figura nera ritta nella penombra dei lampioni e della strada.
Allora, per un po’, è stato importante sapere cosa fosse.
-C’è un modo in cui posso chiamarti?- sospiro mentre cerco le sigarette in tasca.
Lui ride. Proprio come me.
Parla come me.
Respira come me.
…ed io?
-Sì.- mi risponde pacato- Gerard.- aggiunge poi.
Sono io a ridere stavolta, sbuffo il fumo e con quello un sogghigno che produce rumore e da l’esatta misura degli sforzi che sto facendo per tenere sotto controllo questa situazione. Ma non si può tenere sotto controllo una situazione del genere.
-…che strana coincidenza!- mi concedo con ironia spicciola, fissando attraverso il buio i suoi occhi.
Ride ancora, ma con minore convinzione, come se ritenesse superfluo il tempo che stiamo sprecando in questi convenevoli. Sono tre ore che ci scambiamo convenevoli in un silenzio rotto solo da pochi gesti, pochissime domande, qualche sospiro di troppo – ma solo da parte mia.
Nessuna risposta reale.
-Perché sono seduto qui?- mi decido ad indagare, sorridendo nel buio per ricambiare il suo sorriso cattivo. È il mio sorriso, ma io non sorrido quasi mai a quel modo. Ho difficoltà a riconoscermi, ma sono io.
Solo io.
-Stavi andando alla festa di compleanno di Frankie e non ci sei andato.- mi risponde come se fosse ovvio.
Beh, lo è.
Sono qui. Quindi non sono alla festa a cui dovrei essere.
Scrollo la cenere della sigaretta nel posacenere sul tavolino accanto a noi. Lindsay mi ucciderà quando tornerà e si accorgerà che ho fumato in casa. Mi caccia sul balcone o in giardino con una sistematicità studiata; penserà che sia meglio che muoia di bronchite che di cancro ai polmoni.
-Fai le domande giuste, Gerard.- mi richiama lui, sollevando le braccia con una lentezza esasperante ed incrociando le mani sulla pancia, in un gesto di quieta aspettativa.
Non mi stacca gli occhi di dosso, io ogni tanto devo farlo per forza perché altrimenti ho la sensazione che impazzirei.
-E quali sarebbero?
-Non posso dirtelo io.- mi obietta con semplicità.
Ci penso. Intanto fumo, che Linz mi uccida pure.
-…c’è un copione da qualche parte? qualcosa che dovrei sapere e che mi è sfuggito? Si tratta di uno scherzo ben architettato dei ragazzi…?- elenco d’un fiato ma senza nessuna inflessione.
Non sono stupito della sua reazione, quando si lascia andare nuovamente ad una risata liberatoria, sincera, che mi fa scorrere brividi lungo la schiena, e si agita un po’ nella poltrona, rompendo per un attimo la posa costruita con cui si è accomodato lì. Non me lo fa sembrare più umano. Il fatto stesso che sia io e che sia fuori da me mi impedisce di percepirlo come umano.
Ed al tempo stesso lo è. È naturale. Fuori luogo, fuori tempo, fuori posto, ma naturale come può esserlo chiunque altro. Come posso esserlo io.
È per questo che non so davvero cosa sia.
-Non sei nessuna di queste cose.- dico piano, osservandolo scuotere il capo. So che dovrei sentirmi disperato nel realizzarlo, nel realizzare che non è niente di riconducibile al campo del possibile. Non mi sento disperato ed anche lo sconcerto che ho provato appena l’ho visto è passato da un pezzo ormai.- Non sei uno scherzo di Frankie e degli altri.- ribadisco a voce bassa portando la sigaretta alle labbra.
-No.- mi risponde lui visto che sono tornato a voltare la testa e non posso vederlo negare.-Nessuno scherzo, Gerard.
-Allora sono diventato pazzo.- concludo atono schiacciando il mozzicone nel posacenere ed allungando le sopracciglia sulla fronte.
Stavolta è lui a restare in silenzio come se riflettesse sulla mia affermazione, quando mi giro mi accorgo che, in effetti, ha un’espressione concentrata e fissa un punto imprecisato sul muro, accanto alla finestra aperta che ci offre la sua illuminazione scarna.
-Se fossi frutto della tua immaginazione, immagino che potrebbe dirsi che sì, sei impazzito.- conviene alla fine, stringendosi nelle spalle e continuando a non guardarmi.- Ma non sono nemmeno questo.
Respiro a fondo ed allargo le braccia, lui si gira ed intercetta quel movimento fissandomi interrogativo.
-Beh,- esordisco in una resa evidente.- ci rinuncio. Cosa vuoi da me?
Sorride.
I denti balenano quando la penombra ci batte sopra per scivolare via. Un lampo bianco ed improvviso che torna ad essere assorbito dai tratti familiari e nascosti dal buio.
-Questa è una delle domande giuste.- annuncia
***
Ci sono due ragazzi.
Più correttamente uno dei due è un ragazzo e l’altro un bambino. O quasi un bambino. Il più piccolo ha gli occhiali tondi, l’aria sciupata su un muso allungato, da topo, che il broncio infantile fa sembrare ancora più lungo. È magro e alto per la sua età, troppo magro, tanto da sembrare che stia in piedi per errore, visto che inciampa nei suoi stessi passi e si muove come a casaccio.
Il ragazzo non gli somiglia affatto. E’ grassottello, ha i capelli scuri, gli occhi verdi ed un’aria incattivita. Veste di nero ed è goffo, non nel modo di muoversi ma nel modo di essere. È come se fosse fuori posto. Come se fosse fuori posto nel mondo stesso.
Non è una bella sensazione.
E non è bello stare qui in piedi a rivedersi appena adolescenti - arrabbiati con il proprio fratello e con la vita allo stesso modo - dispensare quella rabbia in giro come se fosse indispensabile non tenersela dentro.
Allora non lo sapevo, ne potevo buttare fuori quanta volessi ma tanto sarei rimasto pieno esattamente come mi sentivo.

Non chiedetemi come ci siamo arrivati qui. Io non l’ho fatto, non gliel’ho chiesto.
Perché sì, lui è ancora qui. Accanto a me. Lo percepisco senza aver bisogno di staccare gli occhi dalle due figure al centro della scena.
Pochi istanti fa sedevo ancora sulla mia poltrona ed eravamo nel salotto di casa mia. Adesso sono qui, al centro di questa stanza, e davanti a me ci sono io e…Mikey e siamo tutti e due piccoli, stupidi ed arrabbiati.
Come tutti gli adolescenti.
Infilo le mani in tasca. Questa cosa è successa davvero, io lo so anche se non lo ricordo. O meglio, non lo ricordavo più.

-Ti ho detto un milione di volte di non toccare la mia roba!- sto gridando io. Ed il viso è talmente rosso che pare debba esplodermi da un momento all’altro. Mi verrebbe da ridere se non fosse una situazione assurda.
-Non hai la proprietà esclusiva!- mi sbuffa in faccia mio fratello, battendo un piede a terra come a fare i capricci.
Beh, li sta facendo davvero.
-Non ho la proprietà esclusiva?!- strillo più forte, sgranando gli occhi per fissarlo come se non riuscissi nemmeno a capacitarmi di quanto assurdo sia. Ho gli occhi enormi. Non ci avevo mai fatto caso ma quando li spalanco sembro un pesce…- Sono i miei disegni!- ringhio inferocito, stringendo i pugni e facendomi minacciosamente avanti.
Sono grosso all’incirca il doppio di lui. Se gli tirassi un ceffone sono quasi sicuro che lo attaccherei al muro. Mi ricordo che a volte succedeva – che ci picchiassimo, intendo – mia madre, di solito, era costretta a medicare Mikey e a prendere a sberle me.
-Sono solo degli stupidi scarabocchi!- mi insulta mio fratello, con la cattiveria gratuita dei mocciosi che si sentono esclusi senza motivo dai giochi dei grandi.- E tu sei solo uno sfigato ed un idiota!- ci aggiunge allo stesso modo.
“Uno a zero per lui, Gerard”, penso pianamente.
E poi è anche vero.
Sono sempre stato uno sfigato. E decisamente ero un idiota.
-Non sono scarabocchi, coglione!
-Gerard!- mi rimprovera la voce di mia madre dal soggiorno.
Il me quattordicenne butta un’occhiata infastidita alla porta dietro di sé ma dall’altro lato non viene nessun commento ulteriore e posso tornare a fronteggiare il topolino biondastro che mi sta davanti.
-Se li tocchi di nuovo te le suono di santa ragione, Mikey!- lo minaccio a mezza voce, spingendo la faccia avanti per sibilarglielo addosso e non farmi sentire dagli altri.
Lui mi spintona, non è spaventato però è…ferito. Ed arrabbiatissimo. Molto più di me.
-Fallo se ne hai il coraggio!- mi sfida.- Così mamma non ti permetterà nemmeno di mettere il naso fuori casa! Non che tu abbia qualcosa fare fuori di qui, sfigato!

-Questa potevamo anche risparmiarcela.
Ride. Alle mie spalle. Io mi volto e lo guardo e lui mi ricambia lo sguardo in tranquillità. Non ho tolto le mani dalle tasche, non mi sono mosso – non ancora – ma il mondo attorno a me lo ha fatto al mio posto. Non siamo più nello stesso luogo e mi chiedo, a questo punto, se siamo nello stesso tempo.
Sì, potevamo risparmiarcela…
La mia voce fa rumore? Io riesco a sentirla, la sente anche lui è ovvio, ma sono quasi certo che il ragazzino grassottello che sono stato non mi ha sentito affatto. Continua a rimanersene seduto sul ciglio dei gradini di casa, un album da disegno aperto sulle ginocchia ed i pennarelli sparsi sul foglio. Che si macchierà. Ci ho messo secoli ad imparare che bisogna tenere il piano di lavoro in ordine, altrimenti il foglio si macchia e, se si macchia di china, posso anche buttarlo via…
Sospiro.
-Sul serio, potevamo risparmiarcela.- ribadisco nella speranza di mettere fine a questa storia.
Stavolta non stacco proprio gli occhi dalla figura di quel me stesso quattordicenne e sì, lui non sembra avermi sentito.
-Credimi, Gerard, non c’è nulla che possa essere risparmiato.- mormora lui alle mie spalle. Annuisco.- Alla fine ci arrivano tutti, comunque, non temere.
Ridacchio ma non penso di assentire di nuovo.
-Sembra una di quella situazioni da “Fantasma del Natale Passato”.- affermo, voltandomi, poi, a scoccargli un’occhiata divertita da sopra la spalla. Lui mi ricambia il sorriso ma non dice nulla.- Sei qualcosa del genere?- m’informo per scrupolo di coscienza.
-Oh, no.- scuote il capo lui.- Né ho dei…colleghi…come appunto il Fantasma del Natale Passato. Sono solo io, Gerard.- mi spiega lentamente.
-Bene.- chioso abbassando di nuovo gli occhi sul ragazzetto indaffarato.
La porta alle sue spalle si apre. Ne viene fuori lo stesso topolino biondo di prima, con i suoi occhiali ed il suo passo strascicato e goffo. Sorrido di tenerezza, Mikey mi guarda – guarda il me seduto a disegnare, per la precisione – mentre io continuo a dargli le spalle fingendo di non averlo sentito arrivare. Sono sempre stato un tipo ostinato quando mi arrabbiavo. Vendicativo no. Ostinato. Mikey sbuffa, insoddisfatto. La mia tenerezza aumenta. Lui si muove in avanti per raggiungermi e si siede accanto a me sul gradino, stiamo stretti ma io continuo a fingere di non vederlo.
-…che fai?- mi chiede lui solo per costringermi a dargli retta.
-Vaffanculo.- affermo io piatto, senza sollevare gli occhi dal foglio.
-…mi dispiace.
Sospiro. Il me quattordicenne sospira. Lascia cadere il pennarello e macchia il foglio.
“Te lo avevo detto, Gerard…”
Non sembro farci granché caso, comunque. Forse non era così importante.
-…volevo solo vederli. Non li ho rovinati!- continua Mikey con le guance rosse.
“Sono un irrimediabile stronzo”, penso.
Il me quattordicenne incrocia le braccia sul petto, fissa un po’ il fratello e storce il naso.
-La prossima volta chiedi il permesso.- pretendo brusco. Ma non sono più arrabbiato e si sente.
Sia io che Mikey sorridiamo a quell’inutile stronzo.
-Dio! Certe cose fanno bene al cuore a ripensarci!- mi lascio scappare in un sospiro.
Dietro di me, lui ride.
***
Di New York l’undici settembre 2001 ricordo il rumore. C’era un rumore mostruoso e mi era arrivato addosso tutto ad un tratto. Un attimo prima la mia testa galleggiava in tanti e tali pensieri che solo cercare di percepire il mondo fuori sarebbe stato impensabile.
Il momento dopo quello stesso mondo – no, solo il suo rumore – infrangeva la mia bolla di silenzio pesante, impattandomi contro il cranio e mandando i pensieri a schiantarsi sulle ossa e fuori di lì, rimbalzando in strada, per non tornare a posto nel mio cervello.
Non sono più riuscito a riprendere il filo di quei pensieri.
Avevano a che fare con i miei disegni, il sogno di fare un fumetto e la possibilità che si realizzasse per davvero. Li ho persi irrimediabilmente, ricordo solo che non erano belli né brutti, erano pensieri, altrettanti pesi che mi gravavano sulle spalle e mi ottundevano le percezioni.
Il rumore, invece, lo ricordo benissimo.
E sì, era proprio così che me lo ricordavo.

Io ho ventiquattro anni. Sto fermo in mezzo al marciapiede mentre la gente intorno a me corre – in una direzione o in un’altra, non ha davvero importanza. Ho la bocca aperta, il naso all’insù e non importa che tutto questo non possa vederlo – perché di me vedo solo la schiena, i capelli neri già troppo lunghi e la tracolla scura che mi ricade sotto le cosce – perché lo ricordo ed il ricordo è fisico quasi quanto la mia immagine.
In alto, in quel cielo da cui non riesco a staccare gli occhi, è appesa una striscia di fumo grigia, immobile quasi quanto me mentre tutto intorno esplode il rumore ed il mondo intero continua a correre. Perfino il palazzo a specchi accanto alla striscia ondeggia.
Il me ventiquattrenne sta pensando che non dovrebbe farlo. Ed è mentre lo penso che il palazzo comincia a venire giù. I vetri tirano fuori un frastuono infernale, talmente forte da coprire anche le grida, vedo la gente bloccarsi con le mani a coprire in volto espressioni orripilate oppure buttarsi a terra. Qualcuno corre lo stesso e la direzione continua a sembrare non avere importanza.
Io mi accuccio, lo spostamento d’aria mi colpisce il viso ed è istintivo piegarsi sulle gambe e ripararsi dietro la cartelletta dei disegni che reggo tra le mani.
Chiaramente sto parlando del me ventiquattrenne. Io rimango in piedi, e sono anche stupito quando l’aria mi schiaffeggia il volto comunque. Dietro di me lui si è spostato.
Me lo ritrovo accanto nel momento in cui qualcuno, laggiù in strada, alza un dito al cielo ed indica il secondo aereo.

Quel rumore non sono più riuscito a togliermelo dalla testa.

Fa da contrappasso al silenzio della mia camera. Sono rimasto un bel po’ con un cd in mano e lo stereo aperto davanti, la tentazione di scacciare il rumore con la musica è stata forte.
Sto parlando sempre del mio ricordo. Perché l’immagine che ho davanti adesso ha già messo via il cd scegliendo il silenzio ed il ventiquattrenne che non sono più ha già riflettuto sulla possibilità di scacciare il rumore seppellendolo sotto la musica.
È chino sulla scrivania in disordine. Per una volta non disegna, anche se la posizione è la stessa: rannicchiato sul foglio come se dovesse caderci dentro, gli occhi che bruciano perché è troppo vicino e le spalle che fanno male per la posizione scorretta. La penna corre molto più veloce, ricopre gli angoli del foglio con parole confuse. I pensieri si sono mischiati nella sua testa e il me seduto è arrivato alla sua conclusione.
-Ti ricordi?- mi chiede lui, ancora al mio fianco.
Non faccio a tempo a rispondere. Nel ricordo ed in quella stanza si apre ugualmente una porta ed il viso cresciuto di mio fratello mi cerca.
-Gee?- m’interroga stupito.
Gli alzo in faccia uno sguardo che io per primo definisco folle a rivedermi adesso. Sorrido, ed è un sorriso isterico. Quando sono tornato a casa due ore fa mia madre si è messa a piangere per il sollievo, lei, nonna e Mikey avevano visto e seguito la scena alla TV decine di volte. Mia madre non aveva creduto alla possibilità che fossi vivo ed integro fino al momento in cui aveva potuto rimettermi le mani addosso, stringendo tanto da lasciarmi l’impronta delle dita sulle braccia.
-Mikey!- esclamo io con un’euforia completamente delirante nella voce. Lui mi guarda, era spaventato quanto mamma e nonna ma a differenza loro non gli è bastato vedermi per essere sicuro che fossi tutto intero. Lui lo sa che intero non lo sono affatto. – Tu ci credi che le parole possano cambiare il mondo? – domando mentre avanza nella camera con passo incerto e si siede di fronte a me sul letto.
Non risponde subito, studia il mio viso. Io quell’espressione la conosco bene – la conoscevo già allora – so che sta seriamente riflettendo. Mio fratello ha in me una fiducia incondizionata ed un’ammirazione di cui ho sempre fatto fatica a capire la ragione. Tuttavia io so che né l’uno né l’altro sentimento gli hanno mai impedito di essere una delle persone che meglio mi conoscono al mondo.
E Mikey è saggio. Silenzioso, osservatore e saggio. Che sono i motivi per cui mi fido del suo giudizio, nonché i motivi che hanno spinto il me ventiquattrenne a quella domanda.
La riposta me la ricordo ancora, fu l’esatto contrario di una “risposta memorabile”, di quelle che cambiano la storia. La guardo formarsi negli occhi di mio fratello e sulle sue labbra, dischiuse attorno a quel pensiero ed alla mia domanda.
-Non lo so, Gerard – mi dice - ma penso proprio che le parole non bastino.
Io, a distanza di sette anni, so che aveva ragione. So che le parole non cambiano mai il mondo e che tutto quello che abbiamo fatto per provare il contrario non è servito.
Ma allora non lo sapevo.
Allora sono rimasto un attimo interdetto, ma quella luce pazza nel mio sguardo non ha vacillato. Lo ha fatto solo il sorriso storto e malato che avevo in faccia, ma non la luce che ha spaventato mio fratello quel giorno.
-Beh…- ho detto alla fine, ridacchiando – Voglio fondare una band rock.
Mikey non ha detto nulla. Nel silenzio la musica aveva preso il suo posto esatto, copriva tutto il rumore, lo copriva nella mia testa. Ma lui non poteva saperlo.
-Noi lo cambieremo il mondo, Mikey!- promisi a me stesso ed a lui.
***
Le fan – che sono pazze, me ne sono convinto nel corso del tempo ed adesso come adesso nessuno mi potrebbe convincere del contrario – dicono che Frank ha gli occhi di un cerbiatto.
Questo dimostra che sono pazze.
E che non lo hanno guardato bene in faccia.
Frank ha gli occhi di un folle, non di un “cerbiatto”.
Io, la prima volta che l’ho visto, ho preso mio fratello per un braccio, l’ho portato in un angolo con un “puoi scusarci un momento? Mikey, devo parlarti urgentemente” e gli ho chiesto a bruciapelo “dove cazzo lo avesse preso quello!”. Credetemi se vi dico che volevo essere offensivo esattamente quanto suono.
E adesso, che lo sto guardando di nuovo – ed ha solo vent’anni, accidenti! Dio…eravamo così fottutamente giovani ed idioti – e che lui sta letteralmente stordendo di chiacchiere un me sfinito e scocciato che lo fissa di sottecchi senza forza per replicare né per interromperlo, penso che del folle non aveva solo lo sguardo.
-Capisci, Gee?!- Vorrei dire che no, non capisco affatto ma va bene così perché sono le quattro del mattino ed io ho sonno e voglio dormire e…
Frank riprende senza aspettare che esterni quegli stessi pensieri. Io sospiro, sollevo la tazza di caffè, alla quale sono attaccato da mezz’ora come un naufrago alla scialuppa che dovrebbe trarlo in salvo, e bevo lentamente.
Ovviamente il me di allora lo fa. Io mi limito a sorridere pensando che Frank a venti…venticinque o ventisette anni non è mai cambiato.
E nemmeno io l’ho fatto. Facciamo ancora le quattro del mattino, io ho ancora sonno e sono ancora stanco e non lo faccio smettere di parlare lo stesso. E non perché è fisiologico e non posso farlo smettere – dovrei ucciderlo e basta – ma perché in fondo mi piace tirare tardi con lui. Anche se non c’è un motivo vero. Anche se non lo ascolto per davvero.

-È sempre stato la persona con la quale mi trovavo meglio.- sussurro piano. Lui annuisce dietro di me, lo intuisco e quando mi volto mi fa piacere trovare la sua espressione seria a testimonianza dell’importanza di quello che ho appena detto. Mi chiedo se condividiamo anche i pensieri oltre al corpo.- Solo Mikey riesce a capirmi altrettanto bene.
-Sì, lo so.- ammette lui, e mi fa un cenno per indicarmi di continuare a guardare.
Il me seduto al tavolino della cucina si sta addormentando. Lo vedo socchiudere gli occhi mentre il capo appoggiato alla mano oscilla pesantemente. Sogghigno, adesso ricordo anche questo episodio…
Frank lì per lì non si accorge di niente, è troppo preso dal suo monologo, sta arrotolato sulla sedia, le gambe incrociate sotto il sedere, gesticola e si agita e modula la voce in picchi altissimi, che quasi quasi mi viene voglia di invidiargli anche un po’. Io mi trattengo dal ridere per miracolo, anche perché non ho motivo di non farlo e ricordo a me stesso che nessuno dei due – né il me addormentato né il Frank ventenne – possono sentirmi.
Poi però Frankie si anima anche troppo. Si sporge in avanti preso dall’euforia del discorso, cercando di coinvolgere anche me nella sua agitazione senza senso. Mi posa una mano sulla spalla con l’intento di scuotermi ed insieme strilla gioioso al mio orecchio.
-Eh?! Che ne pensi, Gee?!
Il risultato è che io non penso affatto.
Precipito giù dalla sedia perché le manate di Frank sono più o meno come un uragano che t’investa in pieno. Lui non si limita a schiaffarti un bel cinque doloroso su un braccio, lui ci si butta a peso morto, sulla tua spalla, e tu te lo ritrovi addosso che ti sbalza via e devi essere pronto a reggere l’impatto e fare da muro umano prima che roviniate a terra in due.
Cosa che non puoi fare quando stai dormendo.
Per cui io non argino proprio nulla e cadiamo a terra entrambi. Io picchiando dolorosamente il fondoschiena e Frank sbilanciandosi con un urlo e rovinando per metà addosso a me e per metà sulla stessa sedia che occupavo io prima, gambe all’aria ed espressione idiota sulla faccia.
-Eccheccazzo!- è la prima parola di senso semi-compiuto che mi esce di bocca, prima ancora di riuscire ad aprire gli occhi e mettere a fuoco quello che è successo.
Frank boccheggia. Il me a terra non lo vede, perché sta ancora cercando di convincersi dell’opportunità di svegliarsi e dare retta a quella fitta fastidiosa che sta risalendo dal suo sedere fino alla base della schiena. Per sicurezza comincia con il portarci una mano e massaggiarsela.
Io però lo vedo e penso che è buffo come mai.
-…stavi dormendo?- realizza lentamente Frank, continuando a rimanermi per metà addosso e per l’altra metà agitando in aria le gambe.
Ci penso su un attimo prima di rispondere. So che finirà a schifio…
-Non esattamente.- borbotto, grattandomi la testa ed aprendo finalmente gli occhi.
Frank assottiglia i suoi squadrandomi con odio ed io mi sposto istintivamente indietro.
-Stavi dormendo, Gerard Arthur Way?!- ripete sottolineando ogni singola parola, nome, secondo nome e cognome compresi.
-…è una domanda retorica, vero?- ritorco io.
Il resto è un pugno che mi colpisce in piena faccia e che mi oscura per un momento la vista.
Stringo gli occhi vedendo la scena, il me seduto a terra incassa perplesso e poi prova anche a voltarsi a chiedere spiegazioni ma non ha il tempo di comportarsi civilmente, perché Frank è riuscito - non so come - a strisciare giù dalla sedia e gli si è già arrampicato addosso per finire la propria opera.
-Io ti parlo per ore e tu dormi!- strilla sconvolto mentre prova a strozzarmi.
-Vaffanculo, Frank!- ritorco io tentando invano di scansarmelo di dosso, possibilmente senza farmi usare come punch-ball.- Sono ore che parli, appunto! Ho sonno!
-Ti stavo dicendo che sono innamorato, coglione!- strepita lui.
-Non me ne fotte un cazzo, Frank! Voglio dormire! Puoi dirmelo domani mattina!
-No, che non posso, stronzo!
-Vaffanculo, Frank!
-Lo hai già detto, deficiente!
-Ma che cazzo…?!
Mikey ci guarda dalla porta della cucina. Noi ricambiamo il suo sguardo, ma poi ci voltiamo di nuovo l’uno verso l’altro: siamo ancora arrotolati tra di noi, con Frank sulle mie ginocchia che tenta invano di raggiungere la mia gola ed io che cerco di tenerlo fermo.
-O.k. Non voglio saperlo.- afferma Mikey alzando una mano per salutarci e tornando ad uscire dalla stessa porta.
-Ehi, aspetta!- sbotto io indignato.
-Non è come pensi, Mikey, volevo solo ammazzarlo!- strilla Frank.

Rido. Rido come non ricordo di aver fatto da un mucchio di tempo a questa parte.
I casini con il gruppo all’indomani del Project Revolution, le litigate con Frank negli ultimi mesi, la stanchezza di un tour e di un album che ci hanno prosciugato e lasciati con un senso di insoddisfazione sul palato…sembra che tutto questo sia un ricordo.
Non quello che ho davanti: quei due ragazzini sul pavimento a prendersi ad insulti e botte alle quattro del mattino, mentre mia madre irrompe in cucina come mio fratello ma molto più saggiamente ci urla di piantarla subito e ci caccia in strada al freddo. No, quello è vero.
Il ricordo è l’incubo: la mia vita di adesso, il freddo molto più pesante di una casa troppo grande, che sembra vuota, di una distanza che colmiamo solo a volte, quasi per caso, o per una ricorrenza come il compleanno a cui sono mancato stanotte.
Rido. Ma poi il “ricordo” è pesante e la mia risata si spegne piano.
Respiro a fondo e mi volto a guardarlo.
-Andiamo?- gli chiedo.
***
La Black Parade è un’idea. Come la musica dentro il rumore dell’11 Settembre 2001.
La Black Parade è la stessa cosa, è la musica dentro il silenzio della morte. È il rumore che riempie il vuoto.
Il vuoto a me ha sempre fatto paura.
Ci ho provato a dirmi che era normale, che potevo farcela e resistere. Ci ho provato in mille modi ed in altrettanti ho fallito. I miei fallimenti li conoscono tutti, non li ho mai nascosti – ma solo perché non sono davvero capace di nascondermi, anche se ci provo disperatamente. Credetemi quando vi dico che non avrei voluto sbandierare in giro quanto fosse meschino e penoso Gerard Way – quello che non conoscono sono i miei successi.
Sì. Anche io ho dei successi.
Sono quattro. Rispondono ai nomi di Mikey Way, Frank Iero, Ray Toro e Bob Bryar.
Sono i miei successi perché tutto quello che di buono ho fatto e continuo a fare dipende da loro. Quando ero a terra mi hanno aiutato a risollevarmi. Quando ho avuto bisogno di credere che il mondo potesse essere salvato, loro hanno creduto che potessi farlo davvero. Quando io per primo non mi sarei mai dato fiducia, loro ne hanno avuta anche per me.
Tutto questo fa sì che loro – la mia famiglia, i miei amici – siano il primo dei miei successi.
Io non so se possono dire lo stesso di me, se possono orgogliosamente indicarmi come il loro leader; so che mi piacerebbe che lo facessero ma non gli ho mai chiesto di farlo, so che voglio essere in grado di assumermi la responsabilità della strada che ho indicato per tutti noi e che continuo a tracciare. Per quel che li riguarda, mi seguono. I motivi veri non me li dicono, preferiscono battermi sulla schiena quando mi volto per assicurarmi che ci siano ancora e sorridermi senza dire nulla.
Va bene così.
Lo so io e lo sanno anche loro.
Quindi la Black Parade è una mia idea.
Ed è la musica dentro la morte ed il vuoto.

Ma poi finisce che il vuoto ti raggiunge lo stesso, perché le cose che ci fanno paura sono vere – sono dentro di noi – e non possiamo sfuggire a noi stessi in eterno.
Il vuoto ha raggiunto i My Chemical Romance nel momento in cui lo faceva il successo, quello vero, quello che ti fa dire “cazzo, ce l’abbiamo fatta”. Perché noi non avevamo fatto quello che volevamo, avevamo fatto tanto ma non quello che volevamo.
È per questo che so che mio fratello quel pomeriggio dell’undici settembre 2001 aveva ragione. Ed io torto.
So che la musica non salva nessuno.

-Questo che senso ha?- gli domando.
Lui non risponde. Si stringe nelle spalle quando io, come tutte le volte precedenti, mi volto a cercarlo ed a cercare la sua risposta. Mi fa ancora cenno di guardare.
Guardare è l’unica cosa che mi si richiede, mi sembra evidente ormai. Guardare e ricordare.
Questo, di ricordo, è anche troppo fresco però. Fa ancora male, per dire, anche se a telecamere accese sembrerà tutto perfetto. A telecamere accese sembreremo tutti felici.
Prima e dopo, però, non è così.
È Ray a venirmi a cercare mentre sono fuori e fumo l’ennesima sigaretta della giornata. Rabbrividisco, perché mi sono già cambiato e ci fa un freddo fottuto in quella dannata giacchetta.
Solo che in realtà non fa neppure così freddo ed io so – anche se lo nego – che i miei brividi nervosi non sono affatto dovuti a quello. Ray mi guarda, io penso che il fatto sia uscito lui significa che Mikey e Frank sono ancora incazzati.
O.k.
Ci sta che lo siano.
Trattengo un sospiro infantile, di quelli che vanno palesemente in cerca del sostegno altrui. Ray non me ne darebbe, a ragione peraltro, ed io non voglio essere più patetico di quanto mi sia mostrato mentre arrivavamo lì dall’albergo.
-Gee, ci sei?- mi domanda stringato, osservandomi attentamente per accorgersi della palla che gli sto per rifilare.
-Sì, certo.- arriva, infatti, invariabilmente.
Non ci sono per un miliardo di motivi diversi, lui lo sa e lo so anche io. Non ci sono con la testa, non ci sono con lo spirito, non ho voglia e non ho forza e fra meno di mezz’ora sarò su un fottutissimo palco a fingere di divertirmi da matti.
Se ripenso che il motivo del litigio, stavolta, era il fatto che “io e Frank continuiamo a litigare!”, mi viene di nuovo da ridere. Ma invece di farlo mi ero ritrovato a singhiozzare come un cretino e, quindi, avevo detto di aver bisogno di fumare ed ero scappato fuori prima di scoppiare a piangere davanti a tutti. Mi fanno già abbastanza male i loro sguardi di rimprovero, non ho bisogno di una compassione scioccata.
-Gee?- ripete Ray.
Butto la sigaretta a terra.
-Arrivo!- ringhio senza guardarlo.
Lui sospira, il suo è fastidio misto a preoccupazione, rientra con un gesto vago della mano e mi lascia fuori a finire di distruggere il mozzicone sotto la scarpa.
Mi osservo mentre fisso la macchia nera di cenere, tabacco e paglia che ho lasciato sul cemento armato del parcheggio. Chissà che diavolo di risposte ci andavo cercando, dentro! È passato poco più di un anno ma, stranamente, ho più difficoltà a ricordare questo che qualsiasi altra cosa…
-Come sono diventato così insulso?- mormoro al me stesso del ricordo.
Ovviamente la figura bruna non mi sente e non mi risponde. Alza il viso e lascia ricadere le braccia – strettamente serrate attorno al petto – lungo i fianchi. Butta uno sguardo alle forme indistinte che sullo sfondo del cielo si muovono a casaccio e schiamazzano: lui se ne sta rintanato al buio e loro non sembrano averlo visto, sono un gruppo di ragazzine e stanno chiassosamente commentando una delle locandine del concerto.
So di aver pensato di odiarle. Ora le riguardo da qui - dalla distanza di un anno e più di lontananza e tempo per riflettere - e mi dico che l’ho fatto ingiustamente.
Loro ridono e corrono via, verso l’ingresso del forum, io osservo me stesso voltare le spalle e passarmi di fianco, scivolando attraverso la stessa porta che Ray ha lasciato aperta poco fa.

-Sua maestà ci degna!- commenta Frank acidamente.
“Sua maestà è stato fuori a rodersi il fegato, Frankie, ed a cercare di capire da che parte cominciare per dirti mi dispiace”.
Ovviamente non lo dico. In quel momento non lo penso neppure, entro nel camerino e lo fulmino con lo sguardo. Mio fratello ci fissa tutti e due, prima uno e poi l’altro, con lo stesso rimprovero silenzioso in faccia.
Andava tutto bene quella mattina.
-Dobbiamo iniziare le registrazioni, Gerard?- chiede uno dei tecnici.
Io mi volto, lo metto a fuoco con difficoltà perché torno sempre a fissare Frank, rigidamente barricato dietro un muro di insofferenza.
Andava tutto bene fino a quando, in macchina mentre venivamo qui, non gli ho detto che adesso doveva essere solo contento e piantarla di dire cazzate come che voleva lasciare la band. Lui ha ritorto che non aveva mai detto di voler lasciare la band, ma solo di voler staccare un po’. Io ho ribattuto che era la stessa cosa. Lui mi ha detto che sono un cretino e come sempre non capisco un cazzo. Io gli ho risposto che il cretino era lui e che, quanto a capire, per quel che lo riguardava avevo smesso da tempo pure di provarci. Mikey ci aveva detto di piantarla subito, tutti e due. Noi lo avevamo preso per un insulto personale e ci eravamo letteralmente scannati.
-Sì, certo. Dammi due minuti, John.
-Sì, daglieli i suoi fottuti due minuti al principino di ‘sto…
-Frank!- urla Mikey inferocito.
-E piantala, cazzo!- ci aggiunge Bob allo stesso modo.
Era colpa mia. Perché avrei dovuto dirgli la verità, avrei dovuto dirgli che la Black Parade era morta per lui, per causa sua, perché se dovevo scegliere allora preferivo scegliere di restare assieme, tutti e cinque, e riprovarci dall’inizio.
Se avessi detto questo invece che “piantala di essere inevitabilmente stronzo, Frank! E vedrai che non avrò motivo di mandarti a ‘fanculo ogni due per tre!”, lui mi avrebbe capito.
-No, Bob, lascialo dire.- lo affronto, esasperato da quel clima.
John si dilegua. Frank salta su dal divano su cui sta appallottolato nel suo rancore e nella sua rabbia. Mikey si alza anche lui, ma per avvicinarsi e prepararsi a mettersi in mezzo.
-Andiamo!- prova ad intromettersi Ray in tono conciliante.
-“Andiamo” il cazzo, Ray!- affermo glaciale, osservando lui ma solo per riportare immediatamente gli occhi in quelli di Frank.- Non andiamo proprio da nessuna parte. Non a questo modo, non così!
-Infatti!- ringhia lui annuendo.
-E quindi?- ritorco io- Che facciamo? Vuoi prendermi a pugni, Frank? Vuoi mandarmi al diavolo, vuoi lasciare la band? Vuoi che vi molli io?
Lui non risponde. Vedo qualcosa che non capisco in fondo ai suoi occhi – adesso che la rivedo so anche cos’è: paura – prende un respiro e poi un altro. Li prende con lentezza sempre maggiore, tira indietro le spalle, ricadono piano, le dita si distendono.
-Allora, Frank?- domando a bassa voce.

Lo sto pregando.
Lì per lì non me rendevo conto, lì per lì non sapevo cosa stessi facendo.
Adesso mi ascolto. Sento il tono della mia voce, riconosco la disperazione che lo vena.
La riconosce anche lui.
-…andiamo ad uccidere questa cosa.- sussurra senza aggiungere altro.
Sorrido stanco.
-Sì.- dico abbassando gli occhi.
Frank mi pressa la mano sulla spalla. Fa un po’ male perché stringe forte ma non ci rinuncerei per niente al mondo. Come non rinuncerei alla pacca poderosa di Bob sulla schiena, a Ray che mi scompiglia i capelli più di quanto non abbia già fatto la parrucchiera poco fa, a Mikey che mi abbraccia appena e mi scivola accanto uscendo a chiamare John ed il regista.
Facciamo questa cosa ed andiamo a casa.

A casa vorrei tornarci davvero, peraltro…
***
Giocherello con il pacchetto di sigarette. Non ricordavo di avercelo ancora in mano, l’accendino che ci sta dentro scivola fuori quando, rigirandomelo tra le dita, si apre. Scivola sul palmo aperto ed io lo afferro appena prima che cada e lo rimetto al suo posto.
Lui mi osserva in silenzio, mi lascia il mio tempo così che me lo prendo tutto.
Poi lo guardo.
-Non hai risposto alla mia domanda, però.- faccio notare pacato.
-Lo farò tra un istante.- mi dice lui, quasi con dolcezza.- Prima dimmi, Gerard, sei soddisfatto?
Sto per rispondergli, quando capisco il senso di quello che vuole dire.
Allora mi fermo, chiudo gli occhi e mando giù la saliva.
Mi fermo perché devo metabolizzare e resistere. E non è facile.
Mi fermo. Poi quando apro di nuovo lo sguardo su di lui mi assicuro di avere la voce per dirlo.
-Ho…fatto moltissimi errori.- ammetto lentamente.- Se tornassi indietro oggi rifarei un mucchio di cose.- confesso con più sicurezza.- Ma ce ne sono tante altre, così perfette da ripagare ampiamente quelle sbagliate.
Lui annuisce.
-Quindi lo sei?- insiste comunque.
-Ha importanza?- domando io con un sorriso spento.
Sono quasi certo di no. Che non cambierebbe nulla, che quello che è successo qui, stanotte, resterebbe identico a se stesso qualsiasi cosa io gli rispondessi adesso.
Lui annuisce, ed io mi chiedo ancora se possa leggere la mia mente.
-Ovviamente no.- mi conferma.- Però per te ne ha, non è vero?
Sbuffo un sorriso nuovo, rassegnato stavolta.
…questa cosa è diversa da come me l’ero immaginata.
-Allora è vero che si rivede tutta la propria vita.- ironizzo.
Lui mi ricambia la stessa ironia alzandosi, posa le mani sui braccioli della poltrona e fa leva per tirarsi su con gesti calmi e misurati.
-Sì.- dice - Andiamo?- m’invita quindi, gentilmente.
Annuisco anche io, mentre già mi metto in piedi.
-Certo.- dico, ancora.
Devo convincermi che sta succedendo davvero e che io sto facendo anche in modo che accada.
Mi domando oziosamente se un mio rifiuto di seguirlo potrebbe, ancora una volta, cambiare le cose. Ma poi mi limito a lasciare le sigarette sul tavolino, di fianco al posacenere sporco dell’unica che ho fumato stanotte. Le sistemo anche, mi assicuro che il pacchetto sia esattamente dove voglio.
Sorrido di me stesso, di quei gesti inutili.
-Paura?- mi chiede lui mentre cammino nel buio per andargli incontro.
Si è fermato ad aspettarmi ed io lo intravedo più avanti nella penombra pesante del salotto e gli sono grato per quella cortesia accorta con cui mi gestisce.
-No. Non quanta pensavo che ne avrei avuta, almeno.- rispondo con sincerità.
***
Frank cammina sul selciato facendo un baccano infernale.
Sia con i passi pesanti sotto le suole di gomma delle scarpe, sia bestemmiando a gran voce ed imprecando in ogni lingua conosciuta – Ray si dice che almeno un paio, comunque, non sono lingue vere, ne è sicuro – mentre avanza macinando metri e rancore.
-Stavolta lo ammazzo!- giura e spergiura. In realtà quel concetto lo ha ripetuto invariato per tutta la strada da casa propria a lì. E non è che le due abitazioni siano esattamente vicine.- Stavolta gli stacco la testa e la butto in fondo ad un fiume! E poi sciolgo il cadavere nell’acido! E quando ho finito, giuro che lo pesto!
-Sicuro, Frank?- ridacchia Bob.-Proprio in quest’ordine?
È l’unico tra loro tre ad aver preso quella cosa a ridere. Ray e Mikey gli rivolgono entrambi un’occhiata di disapprovazione a quella domanda idiota, ma nessuno dei due dice nulla, anche perché qualsiasi loro affermazione da casa di Frank a lì si è persa invariabilmente nella rabbia del chitarrista. Che infatti ignora anche Bob e continua ad avanzare imperterrito nel giardino enorme.
-Oh! Se crede che gli perdoni una simile bastardata…?! Quell’arrogante, stronzo, figlio di…!
-Frank, è anche mia madre, grazie!- sibila Mikey riportando un barlume di ragione nell’altro, che annuisce a testa bassa e continua a caricare verso la villa.
-Mikey, vagli ad aprire se non vuoi che sfondi la porta di tuo fratello. Linz non apprezzerebbe.- suggerisce Ray con un sospiro rassegnato.
Il bassista annuisce esasperato e si fa rapidamente avanti, superando il passo marziale dell’amico e balzando in due falcate in cima alla verandina, le chiavi che gli ha dato la moglie di suo fratello già in mano.
Frank è obbligato a fermarsi quando gli arriva alle spalle pochi istanti dopo, più che altro perché, anche se volesse davvero buttare giù la porta a spallate – e sì, ci ha fatto un pensierino mentre afferrava il giubbotto ed usciva da casa propria, giusto un momento prima che Lindsay, leggendogli sulla faccia quell’intenzione, rifilasse a Mikey le chiavi – dovrebbe necessariamente travolgere anche l’altro. Non è sicuro di voler estinguere tutta la dinastia Way in una notte sola.
-Muoviti, Mikey!- ringhia comunque, agitandosi insoddisfatto da un piede all’altro, mentre si rende conto di avere – oltretutto – un freddo fottuto lì fuori.
-Guarda che non ho idea di quali siano le chiavi!- afferma intanto il bassista, scoccandogli un’occhiata infastidita mentre armeggia inutilmente con la serratura.- E poi, cazzo, Frank! Piantala! Avrà avuto i suoi motivi per non presentarsi alla festa!
-Non ci sono motivi per non presentarsi alla mia festa! Soprattutto senza dire un cazzo di niente!- ruggisce lui sempre più arrabbiato.
-Ragazzi.- li richiama Bob in tono preoccupato.
Frank si volta, Mikey sospira e tenta comunque di trovare la chiave. Il batterista sta in fondo agli scalini e li guarda, indica qualcosa e Frank torna indietro per capire cosa sia.
-La casa è completamente buia.- spiega intanto Bob.
In effetti è strano, pensano gli altri tre, fermandosi tutti e scrutando con sguardo nuovo l’abitazione silenziosa. Mikey si sporge ed appiccica il viso al vetro. Dentro non riesce a vedere nulla. Bob si muove facendo rumore sul selciato esattamente come Frank e gira attorno alla villa per spiare dalle finestre del salotto.
-C’è qualcuno dentro!- urla dopo essere scomparso dietro l’angolo.- Qui in salotto!- spiega.
Frank scatta in avanti. Mikey si volta e lo guarda senza capire, la sua faccia è cambiata completamente, la rabbia scomparsa del tutto, sembra impazzito…
-Frank, cosa…?- inizia perplesso.
-Mikey, apri questa fottutissima porta!- ordina con un tono terrorizzato che ci mette poco per mandare in agitazione anche l’altro.
-O.k.- biascica Mikey, afferrando la chiave giusta ed inserendola nella toppa.
Bob è tornato di corsa, Ray ha fatto i quattro gradini a due a due ed adesso sta dietro ai più giovani, spingendoli in avanti mentre la porta si apre. Frank afferra Mikey per una spalla e lo scosta quasi di peso per farsi spazio ed entrare. Va direttamente in salotto, accende la luce a memoria – senza neppure stupirsi di ricordarsi ancora dov’è…sono secoli che non torna in quella casa – gli altri tre gli corrono dietro.
Ma non se ne accorge subito.
-Gerard…ma che cazzo…?!- sbotta mentre sente l’aria invadergli i polmoni con la forza di un pugno. Non si è manco accorto di aver smesso di respirare finché non ricomincia a farlo.
Si porta una mano alla faccia e se la passa sugli occhi. Dietro di lui c’è un silenzio che non capisce.
Così sposta la mano. Guarda meglio.
C’è qualcosa di strano…
-Gerard…?- ripete piano, con molta meno convinzione.
Il primo ad arrivarci è Mikey.
Poi c’è Ray, che lo afferra per le spalle prima che si lanci verso la poltrona e lo trascina via, di nuovo nell’ingresso, dove non possa vedere. Bob resta lì, ma solo perché anche Frank resta fermo e tenta ancora di capire. E Bob sa che quando capirà sarà bene non sia solo. Dall’ingresso arrivano le grida soffocate di Mikey, le parole di Ray…Frank non riesce a distinguerle.
-Gerard…?-continua a chiamare, avanzando.
Ha gli occhi aperti e li sta guardando. Ma non sono i suoi occhi, cazzo!...I suoi occhi non sono così spenti…
-Frank…- sussurra Bob, deglutendo a fatica ed allungando una mano.
Prima che possa afferrarlo lui gli è già scivolato da sotto le dita ed è sempre più vicino.
Non ci arriva.
Si ferma prima, si volta di scatto, si accuccia a terra e preme la mano sulla bocca perché gli viene da vomitare.
Bob sospira.
Sa che dovrebbe fare qualcosa, sa che dovrebbe tirarlo su, stringerselo addosso e portarlo via proprio come Mikey. Poi però guarda verso la poltrona quegli occhi spalancati che li stavano aspettando, e guarda a terra, Frank che continua a tenere le dita contro la bocca ed un braccio attorno allo stomaco come se le budella dovessero rivoltarglisi all’improvviso sul pavimento.
Raggiunge la poltrona nel rumore dei singhiozzi di Mikey all’ingresso e delle parole di Ray che non si distinguono – perché sta piangendo anche lui, porca puttana… - preme la mano sul viso già freddo e chiude quel verde spento.
-…che figlio di puttana.- sente arrivare dalle proprie spalle- Alla fine c’è riuscito a rovinarmi questo cazzo di compleanno…
Nightmare Halloween Night”
MEM 2008

Nota di fine storia della Nai:
C'è una cosa di cui il fandom dei My Chemical Romance non aveva alcun bisogno: un'altra death fic.
Credetemi, le death fic sono in generale una delle manifestazioni del male, ma in questo fandom sono talmente abusate che diventano il Male con la M maiuscola.
Quindi sento l'esigenza di scusarmi con i lettori, con il mio computer, con Gerard Arthur "Porcello" Way e pure con me stessa per aver scritto e pubblicato 'sta roba.

Due note tecniche doverose. La storia è stata scritta per l'Halloween Party '08 di Fidelity
E' stata premiata per il "miglior utilizzo del prompt" (nello specifico, il prompt era "vita")

Ringrazio tutti coloro che sono passati di qui, che hanno letto e leggeranno e coloro che dovessero commentare questa storia. Alla prossima ^_^
MEM
  
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