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Autore: _Ellie_    19/03/2009    1 recensioni
"Provenza era il sapore aspro del limone sulle labbra, mentre il sole brillava dolorosamente su tetti dalle tegole rosse e vigneti in filari ordinati. Provenza era il vino rosso delle cantine di famiglia, i pizzicotti di Tante Didou, le lezioni di calligrafia dal nonno con in sottofondo Gershwin e le corse a perdifiato per le strade del paese con gli altri ragazzi, sù fino al castello. La Provenza non era il grigio ristagnare dello smog di Lione, i miei tredici anni non sono i miei attuali venti. E forse questo discorso vale anche per lui, anche se non lo ammetterà mai."
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~ Like a Swing



Se c’è una cosa che mi ricordo, delle mie estati in Provenza, è di quell’atmosfera fuori dal tempo in cui ogni cosa sembrava immersa all’ora del tramonto. I raggi caldi di un sole fino a qualche ora prima torrido – di cui rimaneva il ricordo nell’aria calda ed aromatica, carica dell’odore di campagna e di bottiglie di vino stappate prima di mettersi a tavola – accarezzavano distrattamente boschetti d’ulivo e pendici di monti, villaggi turistici arroccati su collinette ed antiche piantagioni di vino.

Solo allora – quando il legno vecchio diveniva oro – le ombre si facevano color seppia ed il verde si scuriva, mentre un vento che sapeva di mare faceva volteggiare le ciocche di capelli ancora umidi dalla doccia serale, facendo venire una lieve pelle d’oca evidenziata da un’abbronzatura distratta e un abito di cotone bianco che dire semplice era riduttivo.

Quando incrociavo le braccia per cercare di nascondere quei piccoli ossi di pesca che era il mio seno di allora, sollevavo gli occhi dal prato antistante la vecchia villa del nonno e mi lasciavo distrarre da quel cielo color indaco che era calato in fretta con la scomparsa del sole, mentre i miei capelli intavolavano una conversazione distratta con le raffiche di vento ed i rami dei noci del viale d’ingresso.

Rabbrividendo, indossavo il mio vecchio maglioncino blu – ormai stinto e corto sulle maniche – sempre tenuto pulitissimo dalle mani solerti e rugose della Tante Didou. Ed ora mi sembra buffo, incredibilmente ingenuo, ma allora credevo di aver trovato la formula della felicità nel vento della sera, carico dell’odore di terra, mentre la notta calava e mia zia accendeva le torcie all’essenza di geraneo. Credevo che la felicità fosse il lanciare la bicicletta oltre il cancello del cortiletto degli attrezzi e, ancora sporca di terra per aver pedalato e giocato in polverosi campi di viti, andavo in cucina dalla zia a fregare un pomodoro all’origano prima di cena. Sentirne il sapore dolce sulle labbra, i grani dell’origano che pizzicavano la lingua, mentre la maglietta già precedentemente sporca, sudata e strappata si macchiava anche di succo di pomodoro. Ed allora ridevo, perchè mi beccavo uno scapellotto dalla burbera Tante Didou, ed ancora stavo ridendo mentre salivo le scale a tre a tre, correndo verso il bagno che ancora andava avanti a cisterna. Poi c’erano i brividi dell’acqua calda sulla pelle sudata, mentre i miei corti capelli crespi si imbevevano d’acqua, alghe marromcine intonate ad una pelle abbronzata dal sole, il sapone di marsiglia che ogni volta mi finiva in bocca per sbaglio facendomi sputazzare con smorfie di disgusto, l’asciugamano che mi strofinavo distrattamente sulla testa mentre mi dirigevo correndo nella mia camera. Lo specchio dell’armadio era grande e con i bordi macchiati di vecchio, e rifletteva tutti i miei smilzi e dubbiosi tredici anni. Bastava tirare la maniglia consunta dal troppo lucidare ed alzarsi sulle punti dei piedi per afferrare un abitino bianco, bianco calce, bianco accecante, bianco sole. Come tutto qui in Provenza, del resto.

Felicità era il fresco delle lenzuola mentre ti sedevi per indossare i sandali eleganti che tanto piacevano al nonno, felicità era scendere per delle scale buie guidata solo dal vocio che veniva dalla terrazza, felicità era sentirti scompigliare il caschetto e vederti offerto un bicchiere di vino rosso dal quale tua zia ti avrebbe permesso di bere solo un sorso, alla faccia delle proteste del nonno.

Alla fine, durante la cene, di sorso se ne beveva sempre più di uno, lasciandosi cullare dal retrogusto ruvido, di fiori, terra e del legno, quello aromatico della botte.

Perchè se c’è una cosa che mi ricordo della Provenza, è di come quando mi addormentavo tra le braccia della statua del Fauno in terrazza – un po’ brilla e un po’ più felice del dovuto – mentre il nonno parlava, parlava, parlava, lui e quel suo chiusissimo accento del sud della francia.

Felice, felice come se non avessi bisogno d’altro per vivere.


.-.-.-.-.

Altro sprazzo di follia in questi giorni strani senza nè capo nè coda. E così, da brava irresponsabile, decido di festeggiare l’inizio della primavera e la mia totale mancanza d’idee per la tesina con questa (futura) short-fic (in tutti i sensi, visto che le pagine saranno poche-pocherrime), che spero vi abbia comunicato almeno la metà di quello che ho provato io.

Sì, lo so che voi lettori tendete ad avere le ditine rachitiche e raramente vi disturbate a lasciare un segno del vostro passaggio, ma questa volta ci tengo ad un vostro commento: ho bisogno di sapere se qualcosa vi arriva e, possibilmente, come vi arriva.

Nella speranza di vedere esaudite le mie vaghe illusioni, vi lascio fino al prossimo capitolo. Baciusses, paople! <3
   
 
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