Libri > Percy Jackson
Ricorda la storia  |      
Autore: PandorasBox    03/02/2016    2 recensioni
«Ami ancora Luke?» è la domanda che vorrebbe farle, che ronza nella sua testa da settimane, da quando Annabeth è tornata taciturna e distante. «Vuoi che ti lasci dormire?» sono invece le uniche parole che riescono ad abbandonare le sue labbra, accompagnate da una carezza gentile, e ricevono come risposta solo un cenno di diniego.
«Luke si sposa domani.» sono le parole che Annabeth vorrebbe dire, vorrebbe urlarle con tutta la voce che crede di aver perso, con tutta la rabbia che ha seppellito sotto alle mattonelle orribili di quel salotto troppo piccolo, che ha soffocato nelle attenzioni di Percy, che ha bruciato insieme a quello stupido invito.
Lei non ama Luke, non più, forse non lo ha mai fatto.
Non ha più nulla a che vedere con quel ragazzo, non è più la piccola Annie che giocava a scappare di casa, ma non riesce a spegnere quella delusione che sente dentro, una delusione che non capisce.
Genere: Angst, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Annabeth Chase, Frank/Hazel, Jason Grace, Nico di Angelo, Percy Jackson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
 
I see the hope in your heart(s)








You stripped your love down to the wire
Fire shy and cold alone outside
You stripped it right down to the wire
But I see you behind those tired eyes.
Now as you wade through shadows that live in your heart
You'll find the light that leads home
Cause I see you for you and your beautiful scars
So take my hand, don't let go.
 
 
 
Gli occhi di Annabeth corrono veloci sulle pagine del libro di architettura che tiene poggiato sulle ginocchia, rannicchiata sul loro vecchio divano coperto da quel telo a fiori che odiano entrambi ma che devono tenere per forza ─perché sprecare soldi che non hanno per simili sciocchezze non è possibile, non è concepibile.
I suoi occhi, ancora grigi come il cielo in tempesta e belli come la prima volta in cui li ha incrociati, sono stanchi, arrossati dietro le lenti di quegli occhiali che sono comparsi sul suo naso solo da pochi mesi. Sposta una ciocca di capelli dietro le orecchie, questa sfugge di nuovo e lei la lascia lì dov’è, con un sonoro sbuffo. Dal computer davanti a lei arriva una canzone, la vede sillabare un paio di parole picchiettando con la matita sul foglio. «Ascoltare musica americana mi ricorda che casa mia è anche dall’altra parte del mondo.» gli aveva detto lei, lasciandogli un bacio leggero sulle labbra, qualche sera prima, in uno di quei rari momenti in cui la malinconia torna e non riesci a farla andar via neanche pensando che è la tua vita che stai inseguendo, quando hai bisogno che qualcuno accanto a te ti dica che tutto andrà nel verso giusto.
 
Quando, qualche anno prima, avevano deciso di intraprendere quella strada insieme nessuno dei due si sarebbe aspettato che sarebbe stata tanto dura. Avevano fatto le valigie finito il liceo, erano partiti senza dire ai loro genitori dov’erano diretti, avevano fatto di testa loro e con le loro esigue possibilità.
«Scriverò una volta al mese, chiamerò una volta a settimana.» erano le parole che lui aveva usato per tranquillizzare sua madre: poi non aveva avuto modo di chiamare o scrivere più di due volte in un anno tra  la lingua sconosciuta che aveva dovuto imparare e i lavori sempre più saltuari, sempre più assurdi, le giornate sempre più brevi e stancanti.
 
Erano scappati, alla fine, ma per quale motivo?
 
«Per ritrovare noi stessi» aveva detto Annabeth che scappava dalla consapevolezza di aver amato per una vita il ragazzo sbagliato, sbagliato in ogni sua azione, miticizzato dalla sua mente di adolescente. Un ragazzo che non aveva visto in lei niente più di quella bambina che aveva salvato dalla strada, quella sorellina che non avrebbe mai avuto ma che desiderava, di cui aveva bisogno. Scappava da un amore che non era arrivato nella forma che avrebbe voluto.
 
«Perché è il modo migliore per lasciar dietro i miei errori» era quello che si era detto lui, dopo una vita passata a trincerarsi dietro un’allegria ed una spensieratezza che tanto avevano di fittizio e molto mancavano di contenuti. Per scrollarsi di dosso una colpa che non aveva per una cosa che non aveva fatto ma che continuava a tormentarlo.
«Per riuscire a non amare più quella ragazza con l’aria da donna che mi ha chiesto, in un giorno qualunque, di scappare insieme a lei» diceva, però solo a sé stesso, ogni volta che i suoi occhi incrociavano la figura dell’altra.
Non stava funzionando molto bene, almeno per quel che lo riguardava: Annabeth era sempre davanti ai suoi occhi, le ultime parole di Bianca continuavano a far rumore in un angolo dei suoi ricordi. Era scappato per nulla.
 
Erano partiti come perfetti sconosciuti, quel che li accomunava era la sola voglia di scappare e mettere quanti più chilometri possibili tra le loro vecchie vite e quella dei due giovani che condividono quella casa piccola ma soleggiata, troppo calda in estate e troppo fredda in inverno.
Nella confusione di un’Europa che nessuno dei due riusciva a conoscere e capire, però, avevano iniziato a conoscersi e capirsi.
A piccoli passi si erano avvicinati senza domandarsi se avrebbe funzionato o meno.
A piccoli passi avevano trasformato due amici in due amanti.
A piccoli passi, ora, lui si stava avvicinando al divano su cui Annabeth stava ricavando un po’ di posto per farlo sedere spostando i suoi libri, quegli occhi stanchi che finalmente incrociano i suoi, le labbra che si schiudono in un sorriso.
«Non ti ho sentito.» mormora, mentre la pendola scandisce dodici colpi ed Annabeth sospira chiudendo i suoi libri, lontano spettro di un sogno che ha ormai abbandonato, che non sente più suo nonostante abbia attraversato l’Oceano per inseguirlo.
In momenti come quelli, momenti sempre più frequenti, entrambi si chiedono se ne sia valsa la pena o meno, se ne varrà la pena in futuro.
 
La mano di Annabeth gli sistema i capelli, toglie un po’ di sabbia rimasta sulla maglietta arancione che indossa e si stringe a lui, un silenzio scomodo grava sulla stanza, pesante di tutte le cose mai dette.
 
 
«Ami ancora Luke?» è la domanda che vorrebbe farle, che ronza nella sua testa da settimane, da quando Annabeth è tornata taciturna e distante. «Vuoi che ti lasci dormire?» sono invece le uniche parole che riescono ad abbandonare le sue labbra, accompagnate da una carezza gentile, e ricevono come risposta solo un cenno di diniego.
 
 
«Luke si sposa domani.» sono le parole che Annabeth vorrebbe dire, vorrebbe urlarle con tutta la voce che crede di aver perso, con tutta la rabbia che ha seppellito sotto alle mattonelle orribili di quel salotto troppo piccolo, che ha soffocato nelle attenzioni di Percy, che ha bruciato insieme a quello stupido invito.
Lei non ama Luke, non più, forse non lo ha mai fatto.
Non ha più nulla a che vedere con quel ragazzo, non è più la piccola Annie che giocava a scappare di casa, ma non riesce a spegnere quella delusione che sente dentro, una delusione che non capisce.
 
Si perde ad osservare gli occhi di Percy che sono così diversi da quelli del ragazzo che è partito dall’America con un carico di delusione e senso di colpa appena condito da un pizzico di adrenalina.
Sono gli occhi stanchi di un ragazzo che è quasi stanco di sentirsi tale, hanno perso quella scintilla un po’ infantile che li faceva brillare, ma sono ancora di quel verde che l’ha rapita anni prima: verde come il mare che si vede fuori dalla loro finestra, che lei si ritrova ad osservare tanto spesso. Un mare che ha perso le sue onde, che ora è tranquillo, su cui si potrebbe navigare per ore.
Lei deve solo trovare il coraggio di salpare, si dice, mentre accoglie le labbra del ragazzo sulle sue.
 
 
Mancano ancora le parole, in quella stanza, e con loro manca l’aria che il caldo di quei giorni rende rovente. Il silenzio -ancora pesante, ancora gravido di quelle domande- è rotto solo dai sospiri di quei due corpi che si uniscono su un piccolo divano coperto da un orribile telo a fiori, bocche che si incontrano e mani che esplorano.
È già successo tutto quello, succederà di nuovo, ma c’è qualcosa di diverso e solenne in quell’intreccio di corpi, questa volta.
 
C’è Percy che le ha detto di amarla, baciando ogni centimetro della sua pelle, accarezzando ogni sua curva ed ogni sua cicatrice, guardandola negli occhi con quegli occhi stanchi tornati per un attimo a brillare. C’è quella sensazione di calore che non ha a che fare con quel che l’altro sta facendo, di qualcosa che torna a posto, un piacere che va oltre il piacere stesso.
C’è la consapevolezza di aver chiuso fuori troppe cose per troppo tempo, di dover ritrovare la chiave che le permetterà di aprire qualche porta, di dare una svolta alla sua vita, di avere qualcuno che vuole accompagnarla anche in questa impresa, quel qualcuno che le è sempre stato accanto.
 
C’è Annabeth che non risponde subito alle sue parole ─e dopotutto neanche se lo aspetta, lui non cerca una risposta, in un attimo di prepotente egoismo voleva essere sincero con lei e poter finalmente esprimere quel che inizia a pesargli sul cuore- ed ora è tra le sue braccia, un po’ spettinata, un po’ sudata, che gioca con la collanina che tiene al collo e che hanno comprato insieme il primo giorno della loro nuova vita («Una perlina per ogni anno, per ricordarci quanto siamo arrivati lontano.» aveva detto).
Lei cerca i suoi occhi, e lui di nuovo resta incantato da quelle pozze grigie in cui sembra di poter leggere i segreti del mondo, in cui potrebbe andare alla deriva. Quel «Ti amo.» che Annabeth mormora contro il suo petto è il suo salvagente a cui si aggrappa con tutte le sue forze, che mette tra parentesi ogni cosa per una frazione di secondo che sembra durare ore.
 
Forse, alla fine, sono scappati per questo: per ritrovarsi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Cause it's not too late, it's not too late
I, I see the hope in your heart
And sometimes you lose and sometimes you're shooting
Broken arrows in the dark
But I, I see the hope in your heart.
 




 
Otto anni, nove mesi e cinquantasei giorni, tanto è il tempo passato insieme a Frank, tante sono le ore che scorrono nella sua testa alle porte del gate, mentre abbraccia suo fratello, zaino sulle spalle e biglietto alla mano.
Otto anni, nove mesi e cinquantasei giorni che rischiavano di andare in fumo e dodici ore per sapere se sarebbe riuscita a rimediare.
 
Aveva rischiato di perderlo tante volte, in passato, ma erano ragazzini e, si sa, certe cose da ragazzini succedono, se l’erano sempre cavata, ne erano usciti mano nella mano.
Succede che il tuo ragazzo diventi improvvisamente geloso del tuo migliore amico ─ e Leo era per lei davvero solo un amico, ma questo Leo non lo aveva capito finché non aveva visto l’anello che Frank le aveva regalato.
Succede che si viva in parti diverse del paese –succede anche in due paesi diversi, due continenti diversi, dipende dai periodi dell’anno- ed i chilometri diventino troppi e le estati senza vedersi siano troppo lunghe.
Succede che il tuo ragazzo sia più grande di te e che per lui il college arrivi quando tu sei solo all’inizio del liceo, succede che ci si possa vedere davvero poco.
Succede che sua nonna, che è tutta la sua famiglia, sia una mezza (ma anche intera) strega e non ti sopporti molto perché la tua pelle non è quella bella e bianca delle donne cinesi. Succede che tu sia più strega di lei e che tu riesca a metterla in riga prima del previsto
Succedono tante cose e, com’è giusto che sia, si superano.
Ma succede che qualcosa si stia per rompere e lei lo sa, lo sente, perché Frank è strano e non avrebbe il coraggio di dirglielo perché è troppo educato. Hazel ha paura che la loro storia stia per arrivare all’ultimo capitolo prima del tempo e lei odia gli ultimi capitoli.
Succede che Hazel lasci tutto, metta tutto tra parentesi, e decida di partire. Al diavolo la gioielleria in cui era stata assunta, al diavolo il college che deve ancora finire, al diavolo la caldaia di casa sua che deve ancora far riparare e, mentre tenta di impacchettare la sua vita in meno di cinque giorni e dieci scatoloni, non avrà mai tempo di avvertire Nico della cosa.
Succede che vorresti portartelo dietro, tuo fratello, succede che lui ti dica che la vita ti sta dando una seconda possibilità e non devi sprecarla. Deve imparare a convivere con i suoi fantasmi, le dice, ed iniziare a vivere davvero.
Succede che Hazel sappia perfettamente che lui resta a New York solo per quel Jason Grace ma che tenti di non pensarci: perché Jason non le piace, non le piace che giri intorno a Nico, non le piacciono troppe cose ma ecco che fa il solito errore, quello in cui di nuovo pensa più alla vita altrui che alla propria.
«A tuo fratello non serve una madre, Hazel, lascialo respirare!» le diceva Frank quando i loro pochi giorni insieme diventavano sempre meno loro ed Hazel non riusciva a cambiare la cosa.
Qualcosa, o forse qualcuno ─ suo fratello, Leo, persino Piper su Skype- le dice che deve ingranare la quinta e correre verso la meta perché presto potrebbe essere troppo tardi e lei potrebbe pentirsene per il resto della sua vita.
Non è troppo tardi.”, si ripete come un mantra nei giorni immediatamente precedenti alla partenza, mentre cerca un posto in cui dormire, cerca annunci di lavoro: perché forse Frank non la vorrà con lui, quando arriverà, e lei non ha intenzione di dirgli che sta arrivando fin quando non sarà salita sull’aereo. L’ultimo messaggio prima di spegnere il telefono sarà per lui, avrà la risposta al suo atterraggio.
Non è troppo tardi.” si dice, mentre sale su quell’aereo e tenta di capire se davvero riuscirà a fare quel che deve fare, se davvero riuscirà ad accettare quel che Frank potrebbe dirle.
 
 
“Non è troppo tardi.”
 
 
Otto anni nove mesi e cinquantasei giorni, ecco da quanto tempo Frank si sente una persona, ecco da quanto tempo sente di valere qualcosa, ecco da quanto tempo ama Hazel.
Otto anni nove mesi e cinquantasei giorni che rischiano di andare in fumo per la sua impossibilità di parlare.
 
Perché, nonostante non sia una persona che pensa troppo a questa cose -preferisce viverle senza sporcarle delle sue ansie e paure-, Frank sa che qualcosa si sta spezzando, solo non sa se sia colpa sua o meno. Perché basterebbe poco per ricucire lo strappo prima che si allarghi troppo, ma lui ha paura di fare il passo più lungo della gamba e tentenna da mesi.
È tornato in Canada dopo la morte di sua madre, sua nonna non riusciva a restare sola, e succede che si prendano decisioni sbagliate al momento sbagliato, solo vorrebbe sapere se è davvero così.
Succede che a volte ci si debba allontanare – allontanare più del solito- per poter vedere come stanno le cose, per poter avere un quadro generale.
Succede che si prendano decisioni importanti al momento sbagliato e succede che lui lo faccia perché sono quelli i momenti in cui più si agisce per istinto e lui si fida del suo istinto più che delle sue decisioni prese ragionando.
Succede che Hazel sia ancora pazza come il giorno in cui l’ha conosciuta e lo avverta con solo dodici ore di anticipo del suo arrivo in Canada.
Succedono tante cose e si chiede quanto coraggio abbia avuto, da ragazzino, per imbarcarsi in quella storia che lo mette in difficoltà anche ora che è legalmente adulto.
Succede che lui osservi l’anello che porta nella tasca del cappotto da settimane, ormai, cercando il coraggio di prenotare quel dannato volo per l’America, di correre a riprendersela, chiederle di rimanere con lui.
Hazel lo ha anticipato e lo ha aiutato, come al solito: dopotutto non era stata lei a dichiararsi? Non era stata lei ad invitarlo ad uscire la prima volta, quando lui era ancora un ragazzone con la faccia da bambino e lei aveva quella voce acuta che non è poi cambiata troppo?
Hazel era sempre un passo avanti Hazel sarebbe sempre stata un passo avanti.
 
 
Non è troppo tardi.
 
 
Quando Hazel arriva, quando atterra, sente che potrebbe morire – ed è una sensazione che gli è già capitato di provare più di una volta, eppure ora si sente anche peggio.
Nel lungo corridoio che porta all’uscita del gate sente la morsa alla bocca dello stomaco aumentare ad ogni passo, quando le porte scorrevoli si aprono si accorge di aver chiuso gli occhi per una frazione di secondo: ha paura che Frank non ci sia.
Ma Frank c’è, quando li riapre, Frank con le mani nelle tasche del suo cappotto verde, Frank con le sue scarpe da ginnastica, Frank e le sue spalle che sembrano diventate, se possibile, ancora più larghe.
Frank che alza timidamente una mano per farsi notare, come se fosse possibile non notare quel ragazzone cinese alto quasi due metri, e che aspetta solo che sa avvicini per passarle un braccio intorno alle spalle e lasciarle un bacio tra i capelli, come ogni volta in cui arriva, come ogni volta in cui vuole dirle che le è mancata ma non ha il coraggio di esprimerlo a parole.
 
 
Non è troppo tardi, si dice Frank
Lo ripete per tutto il viaggio verso il loro caffè, quello del loro primo appuntamento canadese, perché ha sentito lo stomaco di Hazel protestare sonoramente e solo ora si accorge che lui non ha toccato cibo per tutta la giornata dall’agitazione ─ e poi quello gli sembra il “loro posto” più di casa sua, più delle quattro mura che condivide con sua nonna, è una tappa fissa e quasi obbligata. Dopotutto fanno i pancakes ed il gelato senza lattosio, lì vendono alcuni dei pochi dolci che Frank può mangiare.
Ignora i commenti di Hazel sul fatto che non abbia ancora sistemato il suo pick-up (non ha alcun interessa a far ridipingere la portiera grigia che fa a cazzotti con il suo resto della carrozzeria rossiccia) e tenta solo di godersi quegli attimi con lei, cerca di leggere le espressioni sul suo viso nascosto malamente in quella sciarpa gialla che, non importa la temperatura, non abbandonerà il suo collo fino a fine inverno.
 
«Non è troppo tardi» mormora, sovrappensiero, ed Hazel gli rivolge un’occhiata un po’ spaesata e perplessa, la vede sussultare a quelle parole, ma è solo un lampo prima che gli occhi dorati della ragazza tornino sul menù ─ed è inutile guardarlo, lo conoscono a memoria, quando Hazel torna in America finisce sempre a spulciare il loro sito per scoprire le novità del menù e commentarle con Frank.
«Quando ci sposeremo diventeremo due grassi gatti pigri.» usava dire ad Hazel e lei era solita storcere il naso nel modo più plateale che conosce e rispondere «Chi ti dice che ti sposerò, Frank Zhang?».
 
Già, chi glielo dice?
 
Se lo chiede di nuovo mentre osserva Hazel che tenta di affogare i suoi pancakes nello sciroppo d’acero («Non è assolutamente così buono quello che compro in America, non ci si avvicina nemmeno!» gli risponde, prima ancora che lui possa aprir bocca) e decide che non ha una risposta a quella domanda, quindi non deve far altro che buttarsi di testa sperando di esser diventato più bravo con i tuffi, nel corso degli anni.
 
 
Quando Hazel vede quell’anello, alzando lo sguardo dal suo piatto di pancakes a cui sta dedicando tutta la sua attenzione, ci mette un po’ a realizzare che quell’anello in nulla somiglia alla semplice fedina d’argento che indossa all’anulare da anni, ed il suo cervello va in cortocircuito.
L’unica cosa che riesce a fare, a dire, è «Grassi gatti pigri…?» e l’espressione di Frank a quelle parole è forse più assurda di tutta la situazione, il sorriso che stira le labbra sottili del ragazzo è teso ma gli illumina il volto.
«Grassi gatti pigri.» conferma lui, ed Hazel vorrebbe urlare perché no, non è assolutamente troppo tardi e si ritrova a mormorare un “sì” prima ancora che l’altro possa cimentarsi in qualsiasi discorso che finirebbe in un balbettio imbarazzato.
Si ritrova ad avere le mani sudate mentre l’altro gli infila l’anello al dito, si scusa e l’altro gli rivolge un’occhiata divertita che si merita per ogni volta in cui l’ha preso in giro per la sua mania di scusarsi di continuo.
«Sei in Canada da poche ore e stai già diventando canadese?» le chiede e lei ride, assestandogli una gomitata e mostrandogli la mano su cui brilla l’anello.
«Mi sto allenando, a quanto pare dovrò viverci per un bel po’.»
 
 
No, non è troppo tardi.
 
 
 
 
 
 
 
 


 
I've seen the darkness in the light
The kind of blue that leaves you lost and blind
The only thing that's black and white
Is that you don't have to walk alone this time

We have to tear down walls that live in your heart
To find someone you call home
Now you see me for me and my beautiful scars
So take my hand, don't let go




 

Vede gli occhi scuri del ragazzo che indugiano sui contorni dei palazzi che vanno via via aumentando tornando verso la città, la testa dondola appena al ritmo di quella canzone che la radio passa ma che non ascolta davvero.
Jason lo sa che la sua testa non è lì, poggiata contro il vetro appannato del finestrino, è altrove.
Jason sa che deve stare attento per non rischiare di doverlo ripescare nelle sabbie mobili dei suoi stessi pensieri: è successo così tante volte, eppure ogni volta sembra diventare più difficile riuscire a rimanere a galla, portare luce dove non c’è.
 
Svolta a destra al primo incrocio e deve quasi inchiodare quando una macchina gli taglia la strada. Il ragazzo accanto al lui, dal canto suo, non sembra reagire: di solito farebbe un paio di commenti sul lavoro poco ortodosso della madre del conducente dell’altra auto, questa volta non alza nemmeno lo sguardo e continua a giocare con le sue mani. Jason sa che quel silenzio non fa bene a nessuno dei due, ad ogni minuto passato si allontana la voglia di provare a parlare, la possibilità di riuscire a farlo.
Anche durante il viaggio verso l’aeroporto, dopotutto, non avevano parlato poi troppo, né lo avevano fatto nei giorni immediatamente precedenti. Poche parole, che sembravano quasi regalate, per trincerarsi dietro ad una normalità che sa di un benessere che non c’è.
L’altro si era chiuso in un ostinato mutismo da ore, ormai, da quando l’aereo era decollato e lui l’aveva faticosamente trascinato fuori dall’aeroporto. Non era servito neanche portarlo al cinema facendogli passare il pomeriggio altrove.
 
«Il Canada non è Giove, Nico…» prova a dirgli, senza staccare gli occhi dalla strada. I lampioni cominciano ad accendersi alle prime luci del tramonto, un paio di gocce di pioggia vanno ad infrangersi sul parabrezza e Jason spera di riuscire a tornare a casa prima che l’imminente temporale li colga nell’ora di punta, bloccandoli magari in una zona che non conoscono davvero.
«Se il Canada fosse Giove mi metterei il cuore in pace, infatti.» era stata la risposta dell’altro, la voce un po’ roca di chi non la usa da parecchio o di chi vuole mascherare delle lacrime che non devono uscire.
 
Per quanto lui ed Hazel non fossero mai andati molto d’accordo – famosa fu la scenata nel negozio di Persefone, in cui gli chiese “gentilmente” di lasciar perdere suo fratello minacciandolo con un bouquet di rose-, Jason non riusciva a condannare la scelta della ragazza: Frank lavorava in Canada ormai da anni, la loro relazione stava diventando pesante e lei non voleva perderlo, partire era stata la decisione giusta e lo sapeva anche Nico. Accettarlo, se ne rendeva conto, è tutta un’altra cosa: dopotutto lui stesso ha faticato ad accettare il fatto che Talia se ne sia andata di casa nonostante la fede al dito.
Fa per parlare di nuovo ma Nico gli scocca un’occhiata stanca e si sporge appena per alzare il volume della radio per poi tornare a sprofondare nel sedile della macchina, Jason coglie il messaggio: per ora non si parla, ma non crede sarà altrettanto magnanimo a casa.
Insulta, purtroppo ad alta voce, il cretino che non ha messo la freccia prima di girare e si chiede quando, e come, è diventato tanto animoso, alla guida ─ ma forse una mezza idea ce l’ha, si dice, vedendo Nico arricciare le labbra dal sedile accanto.
 
 
 
La pioggia, alla fine, li ha presi in pieno negli ultimi due chilometri ma, grazie al cielo, sono riusciti ad arrivare a casa sani e salvi. Riuscire a scendere dalla macchina ed entrare, quello certo, era stato più difficile e si erano ritrovati zuppi a sgocciolare sul pavimento della cucina ma è abbastanza di cattivo umore da riuscire a non pensarci.
Aveva sfilato la felpa e l’aveva inutilmente poggiata sul termosifone gelido del bagno: la caldaia è di nuovo rotta o, molto più probabilmente, non è mai stata aggiustata dall’ultima volta in cui ha deciso di entrare in sciopero, non se lo ricorda, non è mai stato lui ad occuparsi di certe cose ed è abbastanza abituato ad adattarsi anche alle docce calde che finiscono per diventare gelide. A volte vorrebbe avere un amico tuttofare come Jason –perché Valdez è quanto di più vicino conosca al fastidio di una gengiva infiammata, ma ha effettivamente delle mani d’oro per quanto la frase possa suonare ambigua- così da sapere a chi chiedere aiuto quando si è costretti a vivere con i pinguini. Ma forse Hazel già chiamava lui per aggiustare quel maledetto rottame, non lo sa, sa solo che una volta quasi l’ha quasi fatta andare a fuoco tentando di ripararla.
Ha chiuso con quella robaccia quel giorno.
 
Quello con cui non ha chiuso, purtroppo, è la voglia di parlare di Jason.
 
 
«Ti deciderai mai a chiamare Leo per questa benedetta caldaia?» la voce dell’altro lo raggiunge mentre esce dal bagno, dove è entrato sperando di schiarirsi le idee con un po’ di acqua gelida, dopo una delle chiacchierate più noiose ma necessarie della sua vita.
Parlare poteva essere stato un buon modo per scaricarsi – e gli sarebbe davvero piaciuto se Jason avesse cambiato quella solita solfa che gli ripete da dieci lunghi anni: perché certe ferite ormai si sono ricucite, il problema sono le cicatrici che hanno lasciato ma questo nessuno pare capirlo- ma gli aveva lasciato un mal di testa lancinante ed un vago senso di nausea.
Perché sa come funziona, sa che è –citando Silente- solo una questione di accendere la luce nei periodi più bui, glielo ripetono da quando ha dieci anni e sua madre se n’è andata.
Glielo avevano ripetuto quando Bianca se n’era andata.
Se lo è sentito ripetere anche ora che Hazel ha solo preso un aereo per il Canada ma lo ha, di fatto, piantato lì.
Perché, per quanto possa contare su suo padre – e può farlo? Può contare su di lui?- di fatto ora è solo e quella casa gli sembra troppo grande anche se è a malapena abitabile.
La luce l’ha accesa anni fa, ma forse dovrebbe accenderne una più grande perché gli sembra ancora più buio del dovuto.

 
Mentre il suo telefono vibra, un messaggio di sua sorella gli mostra una foto di lei e Frank sorridenti, seduti al tavolo di un caffè, al dito di sua sorella brilla quell'anello con cui Frank lo ha tormentato per mesi. Nico sospira di fronte a quella foto, un sorriso leggero ad increspargli le labbra ed osserva la scena che gli si para davanti ed una foto vorrebbe farla lui ma si trattiene.
Jason armeggia intorno all’angolo cottura con i capelli ancora un po’ umidi e gli occhiali appannati, la maglietta verde che indossa è una di quelle che Jason dimentica a casa sua e che Nico, più per negligenza che per altro, non gli ha ancora restituito.

«Preferisco una doccia fredda ogni mattina piuttosto che chiamare Valdez.» risponde semplicemente, stringendosi nelle spalle, avvicinandosi per prendere la tazza che l’altro gli porge: al tè ha aggiunto il limone, per fortuna ormai ha imparato e gli ha risparmiato quella schifezza che tutti sembrano bere con tanta tranquillità.

«Poi è amico tuo, puoi sempre chiamarlo tu.» conclude, accomodandosi su uno degli sgabelli della cucina, osservando la scena che gli si para davanti, la naturalezza dell’altro nel muoversi in un ambiente in cui neanche lui riesce a sentirsi così tanto a suo agio gli procura una strana sensazione, come farfalle nello stomaco. A venti anni suonati sperava di aver smesso con certe stronzate, a dir la verità.

Poi Jason aveva semplicemente poggiato i gomiti sul bancone del cucina e, se con una mano regge la sua amata tazza di Superman dalla quale sorseggia il suo tè, allunga l’altra per lasciargli un buffetto sulla guancia.
Quando e come la tazza che Jason ha in mano sia arrivata a casa sua, però, Nico non lo sa: cerca di far mente locale ma potrebbe essere stato qualsiasi momento negli ultimi tre anni, da quando Hazel aveva iniziato a prendere quella casa per un albergo e passava sempre più tempo a seguire Frank.
Era arrivato il giorno in cui dal bagno erano spariti gli ombretti ed i fermagli di sua sorella ed aveva trovato lo spazzolino dell’altro nel bicchiere e la soluzione fisiologica per le sue lenti a contatto nel mobile sopra il lavandino: si era voluto bene ed aveva evitato di farsi domande o di pensarci troppo.
 
 
«I miei amici non sono sempre stati anche i tuoi?» gli chiede Jason, sorridendo, e sporgendosi ancora un po’ sul bancone per poter osservare la foto che Nico gli sta mostrando sul display del telefono. L’altro si limita a sbuffare e a fare notare che, per lui, Percy non ha mai avuto l’opzione amico ─ come se Jason non lo ricordasse e non ricordasse ciò che tutta quella storia si era trascinata dietro.
Jason, però, lo capisce: con Piper è finita da anni, ormai, ed è stata lei a decidere che avrebbero tagliato i ponti e lui aveva accettato l’idea. Dopo essersi trasferita in Francia per studiare lei solo sa cosa, aveva cominciato a frequentare un artista francese: un vattelappesca dai vestiti eccentrici con una visione del mondo che ben somigliava a quella di Piper e lui aveva incassato il colpo con più filosofia di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Semplicemente con Piper non c’era l’opzione amica, non era poi così tremendo, nulla gli avrebbe tolto quel che avevano avuto e nulla gli avrebbe vietato di poter avere qualcos’altro.

Nico e Percy gli avevano ripetuto fino allo sfinimento di andare a bere insieme, per metabolizzare la cosa, perché lo vedevano giù di morale, ma lui stava effettivamente bene e di certo non avrebbe abbandonato i suoi principi da perfetto astemio salutista per una cosa del genere: Piper lo aveva lasciato, e allora? Il fatto che avesse sentito la sua mancanza due ore al giorno per i primi sei mesi non gli sembrava un buon motivo per cominciare a rovinarsi la vita più di quanto non lo facesse già da solo con domande inutili ed a tratti pesanti.

Perché a volte ci pensa - è idiota a pensarci, lo sa da solo- e pensa a come si sono avvicinati, un passo alla volta, aveva dato una mano all’altro ragazzo in uno dei momenti più bui della sua vita e Nico aveva fatto altrettanto pochi anni prima, quando aveva deciso di mollare suo padre, i problemi di sua madre,  e San Francisco e tornare con sua sorella in quella New York che aveva lasciato controvoglia qualche anno prima.
Perché a volte ci pensa e si chiede se, in effetti, il motivo per cui lo ha fatto non abbia un nome, un cognome, due occhi scuri che lo fissano con aria interrogativa ed un adorabile accento che viene fuori quando è tranquillo tra le quattro mura di casa sua.
Perché a volte ci pensa, ci pensa troppo spesso - ci pensa anche ora che ha stretto la mano che l’altro ha abbandonato sul bancone, ecco il perché dello sguardo perplesso, ma lo ha fatto senza riflettere- e si chiede quale sia davvero il confine tra un’amicizia e qualsiasi cosa loro due abbiano.
Percy ci scherzava su spesso, prima di partire, ci scherza tutt’ora quando gli chiede se deve comprare un biglietto aereo e qualcosa di elegante per il loro matrimonio, e solo ultimamente Jason ha capito che aveva visto più lontano di quanto lui e Nico avrebbero mai potuto fare.
Le parole, quindi, gli escono prima che lui possa riuscire a trattenerle – ed è la prima volta che succede perché lui le pesa almeno dieci volte prima di dirle, neanche la sua decennale amicizia con Leo è riuscita a cambiare questa cosa.
 
«Voglio portarti a cena fuori.» dice solo, e la risata di Nico lo sorprende più del necessario: sa che è colpa dell’espressione buffa che fa sempre quando sovrappensiero, Nico non fa che ripetergli quanto la cosa lo faccia ridere.

«È un appuntamento, Jason?» gli chiede e lui non può che rispondere alzando le spalle perché non lo sa neanche lui, l’altro può leggerci quel che vuole
.
E Nico ride, di nuovo, a volte Jason si chiede cosa faccia ancora in quella palestra ad allenare marmocchi quando ha un futuro come comico, ma la realtà è che si ritrova ad imbarazzarsi stupidamente ogni volta che l’ascolta.

Poi succede qualcosa che non aveva messo in programma – perché figurarsi se lo avrebbe immaginato- e l’altro si sporge fino ad essergli a tanto così dal viso, potrebbe baciarlo come potrebbe tirargli una testata (e non sarebbe la prima volta), e invece si limita a guardarlo con aria divertita.

Non avrebbe mai immaginato, solo poche prima, di poterlo vedere così ma, dopotutto, pochi anni prima non avrebbe immaginato neanche di potersi avvicinare tanto all’altro quindi va bene così, davvero, va benissimo.

«Hai così tanta paura di Hazel da chiedermelo solo ora che è partita?» stavolta tocca a lui ridere ed annuisce, grave.
«Immagina quanto si arrabbierà quando verrà a sapere che Jason Grace mi ha portato a cena in quel fantastico ristorante in cui Frank non ha mai voluto accompagnarla.»
 
Jason fa per replicare ma poi ci ripensa e lo bacia in barba a domande, risposte o future decapitazioni da parte di piccole afroamericane incazzate.
 
 
 
 
 
 
It's not too late, it's not too late
I see the hope in your heart
Sometimes you're losing, sometimes shooting
Broken arrows in the dark 
 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: PandorasBox