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Autore: ShioriKitsune    05/02/2016    8 recensioni
[ TaeKook ]
«Mi ami, Jeongguk?».
Jeongguk aprì gli occhi, un sorriso appena accennato ad incurvargli gli angoli delle labbra.
«Solo un folle si innamorerebbe di te, Tae».
E Taehyung sorrise.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Se qualcuno mi avesse chiesto se avrei mai immaginato che sarebbe finita in questo modo, la mia risposta sarebbe stata un secco sì.

Tu amavi guardare le stelle, non è vero? È per questo che la tua vita è stata proprio come quella di una stella, così luminosa da accecare chiunque posasse lo sguardo su di essa. Ma quando la stella è esplosa ha lasciato solo residui di energia dietro di sé, condannandoli a gravitare intorno ad un buco nero che, prima o poi, li avrebbe risucchiati.

Avresti potuto fare grandi cose, dare tanto altro, se solo avessi voluto. Se solo ti fossi aggrappato a quel briciolo di qualcosa che piano piano hai lasciato andare. Perché il problema era proprio che non avevi più voglia di aggrapparti a nulla.

Volevi soltanto essere libero.

Sai, forse avevi ragione quando dicevi che non tutti sono adatti alla vita.”

 

 

 

 

 

Come una farfalla

(the most beautiful moment in life)

 

I. intro: what am i to you?

-

 

S'incontrarono così, Jeongguk e Taehyung. Una sera come le altre di una settimana come le altre di una vita sempre uguale.

Non era programmato, e questo lo rese ancor più significativo per entrambi. Non era programmato, ma si sa che al destino piace fare scherzi di ogni sorta. Jeongguk neanche ci credeva nel destino in realtà, e forse era proprio lì la beffa.

Nessuno può decidere della mia vita se non me stesso”, ripeteva sempre.

Col senno di poi, forse, l'avrebbe pensata in modo diverso.

S'incontrarono così, Jeongguk e Taehyung. Una sera durante la quale il silenzio a casa di Jeongguk era diventato troppo opprimente, tanto da fargli avvertire il bisogno fisico di aria fresca.

Ma era freddo quella sera, forse più del normale, e Jeongguk si pentì di essere uscito nell'esatto momento in cui l'aria gelida gli schiaffeggiò il viso.

Non tornò indietro però. Tirò il cappuccio della felpa fin sugli occhi e infilò le mani nelle tasche.

Era una di quelle sere, in fondo, e Jeongguk era solo un adolescente come tanti altri: insoddisfatto e con una vena di ribellione pronta ad esplodere.

Ma lui, a differenza dei suoi coetanei, non si preoccupava di trovare una soluzione ai suoi problemi, una distrazione, e il motivo era che preferiva di gran lunga crogiolarsi nell'autocommiserazione, rimanendo in quella perenne situazione d'impasse. Tutto ciò aveva un che di masochistico, ma forse era proprio quello il punto. Gli andava bene così, e così andava bene anche a coloro che lo circondavano, troppo impegnati con le loro vite per accorgersi del mondo di Jeongguk che, lentamente, cadeva a pezzi.

S'incontrarono così, Jeongguk e Taehyung. Quando un passo nella direzione opposta, una parola e un secondo in più avrebbero potuto fare la differenza tra la vita e la morte, perché a Taehyung piaceva sfidare la sorte e a Jeongguk piaceva farsi i fatti suoi.

Ma quella sera erano altri i piani per le loro vite, e ne avrebbero pagato le conseguenze entrambi.

 

Jeongguk non aveva con sé che qualche spicciolo, il lettore mp3 e le chiavi di casa. Ma si pentì amaramente di non aver portato il cellulare quando, in lontananza, vide una figura avanzare traballante sul bordo arrugginito di quel vecchio ponte di metallo, quello che collegava i due lati della città e che di sera era pressoché deserto. Sotto di loro, ciò che restava del letto di un fiume: non sarebbe stata una caduta piacevole.

Jeongguk entrò nel panico: urlare al ragazzo (o ragazza, non riusciva a distinguere bene a quella distanza) di stare attento e scendere subito da lì, avrebbe potuto spaventarlo e produrre l'effetto contrario; ma se si fosse avvicinato senza farsi notare, probabilmente non avrebbe fatto in tempo e il ragazzo si sarebbe buttato di sotto; a quel punto, sarebbe diventato spettatore di un suicidio e, anche se di solito gli fregava assolutamente nulla del mondo intero, era piuttosto certo che in questo caso il senso di colpa per non essere intervenuto lo avrebbe logorato a vita.

Che cosa devo fare?

A passo svelto iniziò a camminare verso l'aspirante suicida, fin quando non fu abbastanza vicino da poter affermare con certezza che si trattava di un ragazzo. Di un ragazzo probabilmente ubriaco. Ancora indeciso su come comportarsi, si bloccò quando qualcosa di inaspettato successe.

«Tu! Ehi, sì, tu con la felpa!».

Jeongguk si guardò intorno, gli occhi sbarrati, ma non c'era anima viva lì a parte loro. Il ragazzo ghignò e il suo sorriso sembrò illuminare la notte. «Non essere spaventato, non voglio suicidarmi». Traballò, perché aveva messo il piede nel modo sbagliato. Lanciò un'occhiata verso il basso e tornò a sorridere. «Beh, non intenzionalmente almeno».

«Che diavolo ci fai lì? Scendi subito, è pericoloso!». Jeongguk stesso si domandò da dove fosse uscita la sua voce, perché non ricordava di aver elaborato qualcosa da dire. I suoi arti si mossero da soli, avanzando e afferrando per le gambe il ragazzo – che, sotto la fioca luce dell'unico lampione funzionante, si rivelò essere di una bellezza sconvolgente – per non fargli perdere l'equilibrio. Solo più avanti avrebbe dato un nome a quell'impulso che prima lo aveva paralizzato dalla paura e poi lo aveva fatto andare a fuoco, come se il suo intero corpo fosse ricoperto di tizzoni ardenti: adrenalina.

L'altro lo guardò, sorpreso, e gli rivolse un altro sorriso. «Qual è il tuo nome, oh mio cavalier servente?».

Il diretto interessato sollevò un sopracciglio. «Jeongguk»

«Piacere mio, Jeongguk. Io sono Taehyung!».

E il suo nome aveva il suono dolce della condanna.

 

La seconda volta che s'incontrarono non fu meno casuale della prima.

Era notte fonda – l'orologio segnava le 2:17 – e Jeongguk era appena entrato nel conbini all'angolo di casa sua, quando si sentì chiamare.

Voltò il capo e Taehyung era lì, davanti a lui, più sobrio della prima volta che lo aveva incontrato.

«Taehyung...cosa ci fai qui?».

«È hyung, per te!», sorrise, poi fece spallucce. «Ero in giro da queste parti e ti ho visto entrare. Tu piuttosto, che ci fai in giro a quest'ora?».

«Avevo fame».

Rimasero in silenzio, fissandosi, per un po'.

«Ora che ci penso, ho fame anche io. Dividiamo?».

E Jeongguk non avrebbe potuto dire di no neanche se lo avesse voluto.

 

 

«Non ti sembra strano? Esserci incontrati due volte nel giro di due giorni, intendo».

Il minore fece spallucce, sgranocchiando una patatina.

Erano seduti su di un muretto che affacciava sul molo, osservando le onde che s'infrangevano contro la scogliera.

«I tuoi non si preoccuperanno se si svegliano e non ti trovano in casa?».

«Potrei farti la stessa domanda, hyung».

A quello, fu il turno di Taehyung di fare spallucce. «Io non ho nessuno che mi aspetta, a casa. I miei genitori sono morti entrambi. Mio padre ha ucciso mia madre, ed io ho ucciso lui».

La patatina che Jeongguk stava sgranocchiando lentamente gli andò dritta in gola.

«Non preoccuparti, è successo tanto tempo fa e sono già stato assolto dalla legge. Ero minorenne ed è stata legittima difesa. Non sono...».

Abbassò lo sguardo, puntandolo sui propri piedi dondolanti. «...non sono un assassino».

E, senza nemmeno sapere razionalmente perché, Jeongguk gli credette.

 

 

 

II. skit: soulmate

 

A Taehyung piaceva passare le sue giornate a guardare il cielo. Di notte, soprattutto, era come se fosse davvero vivo.

Quella sera erano ubriachi, uno affianco all'altro, mentre la rugiada dell'erba inumidiva i loro vestiti.

«Jeongguk?».

«Mh?».

Taehyung voltò il capo, fissando lo sguardo in quello ossidiana del minore. «Quale pensi che sia il più bel momento della vita?».

Lui e quelle domande impossibili.

«Non lo so, hyung».

Il maggiore indicò un punto nel cielo. «Ogni momento della vita dovrebbe essere il più bello», fece una pausa. «ma non tutti riescono a vederla in questo modo».

«Tu ci riesci?».

«Affatto», sorrise. «Ma io non sono adatto alla vita, Jeonggukie. Non tutti lo sono».

Jeongguk aggrottò la fronte. «Cosa intendi?».

Ma non ottenne altre risposte.

 

 

 

Ognuno di noi ha i suoi demoni, nascosti in un cassetto chiuso a chiave.

Taehyung ne aveva tanti, Jeongguk un po' meno, ma sufficienti a tenerlo sveglio la notte.

Ma da quando si erano trovati, le cose sembravano andare un po' meglio per entrambi.

Jeongguk tornava raramente a casa; preferiva passare le sue giornate – e le sue nottate – con Taehyung. E Taehyung era folle, sotto ogni aspetto ed in ogni circostanza.

«Andiamo a creare casini», diceva, prima di infilarsi la giacca di pelle e afferrare la mazza da baseball, e Jeongguk sapeva che sarebbero finiti nei guai.

Taehyung cercava risse, fuggendo con una risata quando qualcuno iniziava a rincorrerlo, Taehyung distruggeva gli specchietti delle automobili ed entrava urlando nei locali, saltando sui tavoli e rompendo ogni cosa che vi era sopra. E Jeongguk lo seguiva, si divertiva, perché infondo non facevano male a nessuno.

Ma Taehyung era anche quello che aiutava le vecchiette ad attraversare la strada, offrendosi di portar loro le buste troppo pesanti, era quello che non riusciva a passare davanti ad un cane randagio senza dargli un po' del suo pasto e che, in ogni occasione, si prendeva cura di Jeongguk, assicurandosi che fosse uscito illeso da qualsiasi idiozia avessero fatto.

Jeongguk, al contrario, era stato poco attento.

Se si fosse impegnato di più, se avesse aperto gli occhi un po' prima, si sarebbe reso conto che qualcosa non andava, in Taehyung.

Perché lui era come una bomba ad orologeria. Una stella, preferiva definirsi; come entrambe le cose, un giorno sarebbe esploso.

E forse in fondo Jeongguk lo sapeva, ma non poteva farci nulla.

 

 

Taehyung aveva una chitarra, nel posto in cui viveva, e a Jeongguk piaceva suonarla. A casa sua, non ne aveva mai avuta una.

«Come fai ad essere così bravo se nessuno ti ha mai insegnato a suonare?».

Jeongguk arrossì, strimpellando qualche accordo. «Non sono bravo, hyung».

«Lo sei! Dovresti suonarmi qualcosa. Potremmo cantare insieme!».

Taehyung si esaltava per le piccole cose, come dimostravano i suoi occhi spalancati, e Jeongguk avvertì nuovamente quella stretta allo stomaco che, da un po' di tempo a quella parte, aveva iniziato a sentire in sua presenza.

«Fissa pure, 'Ggukie, non mi metti affatto in soggezione», disse il maggiore con uno dei suoi sorrisi rettangolari.

Jeongguk sbatté le palpebre più volte, rendendosi conto che era davvero rimasto a fissarlo.

«M-mi dispiace».

Ma a quello Taehyung non rispose, e quando Jeongguk alzò il capo per capire il perché del silenzio, si ritrovò quegli occhi profondi a così poca distanza che il respiro gli si bloccò in gola.

«C'è qualcosa che vuoi dirmi?».

C'era qualcosa che voleva dirgli? Probabilmente. Avrebbe avuto il coraggio di farlo? Probabilmente no.

Ma se c'era una cosa che Taehyung gli aveva insegnato – escludendo il forzare le serrature con delle forcine per capelli – era proprio il cogliere l'attimo.

«Hyung, credo...», prese un respiro, posando la chitarra sul pavimento. «Credo che tu-».

Ma Taehyung non amava aspettare, e cingendogli il mento con le dita fece incontrare le loro labbra in un bacio casto.

E così, la loro amicizia diventò qualcosa di più. Ben presto Jeongguk si rese conto di non poter più fare a meno della sua nuova dipendenza.

Dormirono abbracciati quella notte e anche le successive.

Durante una di quelle, quando Taehyung pensava che Jeongguk stesse già dormendo, gli carezzò dolcemente una guancia. «Sei la cosa più bella che mi sia successa, 'Ggukie», sussurrò, guardandolo come se fosse la cosa più preziosa sulla faccia della Terra. «Ma non sono sicuro di meritarti».

Poi si voltò, poggiando la testa sul cuscino e tirandosi le coperte fin sopra al mento.

E Jeongguk si addormentò con un groppo in gola.

 

 

«Voglio farmi un tatuaggio».

Passeggiavano tranquilli per le vie di quella città muta, di cui però avevano imparato ad udire la voce: parlava solo con chi diceva lei, perché non aveva mai amato le maschere.

«E cosa vorresti tatuarti?».

Taehyung sorrise. «Qualcosa che mi rappresenti... una farfalla, probabilmente. Perché non ti fai un tatuaggio anche tu, 'Ggukie?».

Jeongguk ci pensò per qualche istante, poi fece spallucce. «Sì, potrei».

«Allora dovremmo andare subito!».

«Hyung... non abbiamo soldi per dei tatuaggi, adesso».

«Non preoccuparti di questo. Pensa solo a cosa vorresti tatuarti».

«Uhm, in realtà ho già un'idea...».

Gli occhi del maggiore s'illuminarono. «Davvero? Coraggio, dimmelo!».

Le guance di Jeongguk s'imporporarono mentre distoglieva lo sguardo dall'altro. «È... una frase che hai detto una volta».

Le labbra di Taehyung si modellarono a forma di O. «Quale?»

Jeongguk fece spallucce. «Lo scoprirai quando lo vedrai».

Ma non ebbero mai l'occasione di farsi quel tatuaggio insieme.

 

 

 

III. outro: love is not over

 

Taehyung aveva le dita lunghe e affusolate, come quelle di un pianista, e Jeongguk amava quando quelle dita esploravano il suo corpo, accarezzandolo, riducendolo in una massa sudata e disfatta.

E Taehyung e i suoi gemiti erano come una droga, per Jeongguk. Forse anche peggio.

Taehyung gli leccò sensualmente il labbro inferiore, chiedendogli il permesso di entrare. Permesso che il minore gli avrebbe accordato con piacere, mentre le mani si stringevano attorno alle ciocche color lavanda dell'altro.

«Mi ami, Jeongguk?».

Jeongguk aprì gli occhi, un sorriso appena accennato ad incurvargli gli angoli delle labbra.

«Solo un folle si innamorerebbe di te, Tae».

E Taehyung sorrise.

 

 

 

«Dovremmo smettere di vederci, Jeongguk».

Quelle parole, così di punto in bianco, ebbero lo stesso effetto di una doccia fredda.

«Cosa... che stai dicendo?».

«Sono stufo. Non voglio vederti più. Torna a casa, continua la tua vita come facevi prima di conoscermi».

«Hyung, hai battuto la testa? Io non-». Io non posso.

«Basta, Jeongguk. Va via'. Non ti voglio qui quando torno».

E Jeongguk non riuscì a dire nient'altro, prima che Taehyung si sbattesse la porta alle spalle.

 

 

( «Ho fatto come mi ha detto, signora».

La donna lo guardò dall'alto in basso, senza preoccuparsi di reprimere il suo disgusto.

«Ottimo. Mio figlio non dovrebbe frequentare la feccia come te. Mi sono informata, sai? Tu sei un criminale, Kim Taehyung, hai ucciso il tuo stesso padre. Sei un mostro».

Taehyung non rispose, abbassando lo sguardo.

«Per fortuna una mia conoscente mi ha riferito di aver visto Jeongguk con te. È per colpa tua che è cambiato così tanto, vero? Non permetterti mai più di avvicinarti a lui, mi hai capito? Non posso permettere che mio figlio venga influenzato da uno come te. Per fortuna non l'avevi ancora costretto a compiere nessun crimine, sono riuscita a salvarlo prima che fosse troppo tardi», e si fece il segno della croce. «Non dovresti esistere, ragazzo».

La donna si alzò, pagando per il suo caffè.

E Taehyung perse il conto delle ore in cui rimase lì, immobile, a fissare il vuoto.

Ma su una cosa si era sbagliata, la signora Jeon.

Era troppo tardi.)

 

 

Jeongguk non tornò alla vita di prima, perché non aveva nulla a cui tornare.

Le giornate passavano senza che lui potesse far niente per impedirlo, diventando settimane e poi mesi.

Taehyung non viveva più nella casa che avevano condiviso per un po'. Non viveva più da nessuna parte a quanto sembrava, perché Jeongguk non riusciva a incrociarlo neanche per caso.

«Non ti sembra strano? Esserci incontrati due volte nel giro di due giorni, intendo»

La sua voce gli risuonava ancora nelle orecchie.

Cosa ho sbagliato?

Perché non poteva che essere sua la colpa, se Taehyung si era stancato di lui.

Ma le sue domande non trovavano una risposta e non l'avrebbero trovata, se non lo avesse rivisto almeno un'ultima volta.

Ma il solito destino, a cui piace farsi beffe degli altri più di ogni altra cosa, aveva programmato anche questo.

E quindi s'incontrarono così, Taehyung e Jeongguk. Una sera come le altre di una settimana come le altre di una vita che non poteva più essere sempre uguale.

S'incontrarono così, per l'ultima volta, nello stesso posto della prima.

Quello non era cambiato, ma tutto il resto sì.

E quando Jeongguk scorse la figura di Taehyung, seduto sul bordo arrugginito del vecchio ponte di metallo, sentì il cuore iniziare a battere di nuovo.

«Buffo, non trovi?», Taehyung lo guardò, un accenno di sorriso sul volto. «Incontrarci proprio qui».

«Taehyung, scendi di lì. È pericoloso».

E il maggiore rise di una risata triste, perché trovava un'ironia nella situazione che a Jeongguk sfuggiva.

«Pensavo fossi la mia possibilità, 'Ggukie, ma ho sbagliato quella volta». Lo sguardo tornò a fissare il cielo che, così vicino all'alba, rendeva impossibile scorgere le stelle. «Non mi fermerai di nuovo».

«Non essere spaventato, non voglio suicidarmi»

Le parole gli tornarano alla mente e Jeongguk sgranò gli occhi. «Era una bugia, non è vero? Eri qui per questo».

Taehyung annuì, senza guardarlo. «Sono un mostro, Jeongguk. Non sono adatto a te».

«Non è vero! Vieni giù e parliamone, ti prego!».

Taehyung si alzò e Jeongguk diventò di pietra. «Mi dispiace».

«Taehyung!»

«Mi dispiace di averti trascinato nel mio mondo e di esserne uscito senza spiegazioni. Ma non mi dispiace di essermi innamorato di te, Jeonggukie». Sorrise ancora e stavolta, almeno in parte, la luce raggiunse gli occhi.

«Se solo potessi, resterei al tuo fianco. Ma non posso, lo capisci? Questo peso, questa cosa che ho sul cuore, mi sta schiacciando, Jeongguk!», le lacrime gli rigarono le guance, mentre stringeva i denti e si portava una mano al petto. «Voglio liberarmene e non esiste un modo al di fuori di questo per farlo».

Jeongguk non sapeva cosa dire, perché le lacrime gli avevano offuscato la vista e la mente.

«Dimmi che mi perdonerai, un giorno».

Ma non poteva dirglielo, non ancora.

«Ti amo, Tae».

L'altro sorrise tra le lacrime, chinandosi per afferrarlo e stringerlo a sé.

Le loro fronti si toccarono, le loro mani si strinsero e le loro labbra si cercarono come se fosse una naturale conseguenza.

E si baciarono, per l'ultima volta, senza distogliere lo sguardo l'uno dall'altro.

Quando il maggiore si allontanò, portò con sé il cuore di Jeongguk.

«Vai, Jeonggukie. Lasciami andare».

Jeongguk annuì e basta, non era più in grado di far uscire la voce.

«Conta fino a dieci. E ti prego, non guardarti indietro».

E così Jeongguk fece.

 

Uno

 

Due

 

Tre

 

Quattro

 

Cinque

 

Sei

 

Sette

 

Jeongguk avvertì l'impatto con l'asfalto quando le sue ginocchia cedettero, lo scontro della sua guancia contro qualcosa di ruvido e un dolore lancinante alla testa.

E poi, nulla.

 

 

 

* ° * ° *

 

 

 

Sono passati cinque anni e non smetti di mancarmi un solo istante, hyung.

Non credo che l'energia provocata dalla tua esplosione si dissolverà mai. Tu non puoi sparire.

Sai, hyung, ho finalmente fatto quel tatuaggio. Quello che dovevamo fare insieme, ma che non hai mai più avuto l'opportunità di vedere. Ho aggiunto una farfalla però; era quello che volevi tatuarti, vero?

A volte mi sveglio con la speranza di trovarti al mio fianco.

Altre, invece, vorrei non svegliarmi per ritrovarmi al tuo.

Ma andrò avanti, per te e per me. Andrò avanti e apprezzerò ogni momento di questa vita che con te è stata troppo ingiusta, solo ed esclusivamente in tuo onore.

Ti amo, Taehyung.

Lo farò sempre”

 

Jeongguk tornava sempre su quel ponte, il giorno dell'anniversario della sua morte.

Portava dei fiori e parlava al vento perché Taehyung era ancora lì, da qualche parte.

Era semplicemente libero, come sempre aveva voluto essere.

 

Come una farfalla.



 

   
 
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