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Autore: Aleena    08/02/2016    0 recensioni
Dal testo: "Sapevo che non sarei potuta rimanere li. La nave-madre doveva aver ricevuto comunicazione dell’incidente quasi immediatamente dopo che si era verificato: non avrebbero mandato navi di soccorso, perché con un disastro di tali proporzioni non ci sarebbe stato niente da recuperare.
Perfino io lo sapevo.
Ma i figli di Gaia... loro avrebbero sentito e sarebbero accorsi. E se mi avessero trovata...
Correvano voci sulla mania dei terrestri di sezionare tutto quello che arrivava dallo spazio. Io ero disarmata e sola, adesso, ma dopo essere sopravvissuta per puro miracolo non volevo finire su un tavolo operatorio, aperta ed esposta come una rana per il loro divertimento.
"
____
2a Classificata contest "Romeo e Giulietta: un amore impossibile" indetto da Aurora_Boreale_ sul forum di EFP
4a Classificata al contest "Una domanda a te e una a me." indetto da grazianaarena sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La stirpe di Agena
 
 
 
Just when I'm feelin like I'd made it through 
And still had somethin that they never knew 
The artificial is controllin me 
And I dont' recognise the thing I see 

Proprio quando mi sto sentendo come se ce l'avessi fatta
E ho ancora qualcosa di cui loro non sono mai stati a conoscenza
L'artificiale mi sta controllando
E io non riconosco le cose che vedo


(Every Day, Planet Funk)

 

 
Periferia di Saturno, 8° di Solaria,
24/10/2289

 
La nave è ferma da tre ore. A fare rifornimento, dicono, ma non accennano mai di cosa.
Minerali radioattivi, carburante, persone?
Non lo so. Non voglio saperlo, a dire la verità.
Per la prima volta da quando la nave ha lasciato Agena mi sento bene. Devono aver aggiunto qualcosa al mio pranzo, anche se avevo dato espresso ordine di non ricevere più Drez... Ma cosa potevo aspettarmi?
Sono troppo indispensabile per poter essere libera di scegliere.
Alexei lo troverebbe ironico.
Dove ero rimasta?
Ah, l’avvelenamento.
Analizzai il sangue di Alexei e poi convocai un consiglio militare e medico, che si riunì in meno di mezz’ora. Riferì loro come stavamo le cose: i fluidi che muovevano il braccio meccanico avevano infettato il sangue di Alexei, avvelenandolo lentamente. Come fosse stato possibile non potevo dirlo con certezza: la piastra si era corrosa? Un connettore si era forato? Lo sforzo eccessivo e il calore avevano danneggiato la struttura di rivestimento?
O forse, semplicemente gli esseri umani non erano compatibili con le macchine.
Quello che contava era che quei prototipi erano potenzialmente dannosi per chi li aveva. Avremmo dovuto controllare anche gli altri soldati, vedere se mostravano segni dell’avvelenamento e cominciare a lavorare su un antidoto – o pensare alla dismissione del programma.
«Dovremmo iniziare dall’autopsia del Capitano Rubjakov. Capire cosa non ha funzionato e se era un difetto dovuto al prototipo obsoleto, a un errore nel montaggio o alla macchina in sé» disse qualcuno ad un certo punto.
Sembra assurdo ma non ricordo chi fosse; solo la frase mi rimase impressa – mi colpì quasi a morte, a dire il vero.
«Avete già deciso che sia spacciato?» gridai, ritrovandomi in piedi. Avevo un polpaccio che mi bruciava, probabilmente a causa del gesto brusco e della tensione che fino a poco prima avevo ai nervi, ma non me ne curavo. Sentii qualcun altro dire che una dose letale di oppiacei sarebbe stata la soluzione più umana, a giudicare dai risultati degli esami medici. Li guardavamo in tempo reale, proiettati dal soffitto sul tavolo da riunioni, e non erano buoni.
Non erano compatibili con la vita, in effetti.
Doveva già essere morto.
La speranza è irragionevolezza. Allontanai la sedia e lasciai la riunione, certa che niente di quello che avrebbero detto da quel momento in poi avrebbe potuto interessarmi.
Nessuno mi fermò, nemmeno quando sbattei fuori le infermiere dalla piccola sala in cui era stato portato Alexei. Pensavano che fosse giusto per me avere un attimo per dirgli addio da sola.
Era un bene.
Io non avevo alcuna intenzione di lasciarlo andare: avevo una soluzione, drastica e rischiosa, ma l’avrebbe salvato se l’avesse accettata.
«Stai per morire, stupido eroe vigliacco» gli dissi all’orecchio, con dolcezza, mentre abbassavo a zero il dosaggio di antidolorifico. La sua carne, corrosa e demolita dal veleno, aveva una sfumatura violacea e cominciava a mandare un odore greve e acidulo, ma io non vedevo né sentivo nulla più che il suo respiro che continuava, intermittente ma vivo.
Alexei mi rispose con una smorfia che poteva essere un “mi dispiace” come un “che vuoi, sono fatto così” e io lo accarezzai, piano, sentendo il sudore freddo sulla pelle bollente.
«Posso salvarti.»
La sua gola ebbe un guizzo, ma non diede altro segno di aver capito. Io continuai ad accarezzarlo e ripresi a sussurrare, dolcemente, cercando di scegliere le parole con cura: frasi semplici, che il suo cervello martoriato dalla febbre e dal veleno non dovesse faticare a capire.
Ne andava della sua vita.
«Sai chi sono. Sai da dove vengo. Ma quelli come me... gli Hadar, gli alieni... noi veniamo da tanti posti. Piccole lune, planetoidi che ruotano intorno ad Agena. Il mio... la mia casa natale è un pianeta buio e velenoso. Ma noi ci viviamo, capisci? E per questo siamo immuni alla maggior parte delle sostanze che uccidono gli altri esseri viventi. Veleni, radiazioni, onde e raggi...» non sapevo perché quelle informazioni mi sembrassero tanto vitali, ma in quel momento non pensavo di star perdendo tempo. Mi rendevo conto che ogni respiro era uno in meno, sottratto ai pochi che gli rimanevano, ma avevo bisogno che sapesse. Doveva accettarlo, completamente, perché se così non fosse stato avrei solo guadagnato tempo.
Io volevo salvarlo, non allungare la sua agonia.
«La nostra immunità è un dono per i nostri fratelli Hadar. Noi possiamo condividerla. Possiamo condividere la resistenza alla decadenza tramite il nostro sangue»
Alexei distese ancora di più le labbra e sussurrò un «Ok» stentato. Io scossi il capo.
«Se fossi venuto da me anche solo tre mesi fa, sarebbe bastata una trasfusione regolare per salvarti la vita. Ora, se anche sanificassi il tuo sangue, cosa cambierebbe? I tuoi organi interni stanno marcendo»
«Bella imma... gine» disse Alexei, storcendo le labbra secche e pallide. Io salì alla testa e gli spostai i capelli su un lato, com’era solito fare lui, e ripresi a parlare.
«Ma c’è un altro modo. Un altro... un altro dono che possiamo condividere. Ma è rischioso per entrambi. E tu devi accettarlo, accettarlo interamente e completamente, perché se non lo fai prima o poi lo rigetterai, e allora sarà la fine per entrambi. Mi capisci?»
Lui annuì appena.
«Dobbiamo unirci in un matrimonio Hadar» dissi, seria e timorosa insieme.
Assurdamente, Alexei trovò la forza di ridere. Fu un suono gutturale e spezzato, che si spense quasi subito in tosse e gemiti di dolore.
«Non... dovrei essere io a... pro... proporre...»
«Non è come per gli umani. Gli Hadar intendono il matrimonio come un’unione tra anime oltre che tra corpi. Un’unione fisica e tangibile, non una vuota serie di parole e promesse. L’anima... esiste e non è altro che una forza, energia condensata. Ed è quell’energia a mandare avanti il corpo e la mente. Noi siamo un popolo che ha studiato come plasmare l’energia e usarla... usarla per sopravvivere. Per fare arte. Per commerciare. Come voi con plastica e metallo»
«Magia?» domandò lui, affascinato nonostante tutto.
«Non più di quanto lo sia la fusione nucleare o... o la corrente elettrica, o un microonde! L’energia è concreta come qualsiasi altra cosa, se la si sa osservare e lavorare. Solo che ci sono delle complicazioni. Dei rischi. Se ora io... se noi celebriamo delle nozze Hadar, ora, la mia energia e la tua si fonderanno in un’unica essenza. Potremmo scambiarci informazioni con la stessa facilità con cui le scambiano con noi stessi, e lo stesso varrebbe per malattie e debolezze. Come... come il materiale genetico dei fluidi corporei o le malattie sessuali, quando si fa l’amore, per capirci. Io sono sana e forte: potrei guarire la tua debolezza e quella del tuo corpo, perché tu saresti parte di me. E tu potresti fare lo stesso. Potrei usare la mia capacità di... di rigenerarmi in fretta, di vincere la morte e di curare me stessa per aiutarti a riprenderti, e allora anche il mio sangue potrebbe essere d’aiuto. Ma l’unione funziona anche al contrario: se io non dovessi riuscire a guarirti, se la mia energia non fosse abbastanza, moriremmo entrambi, consumati dalla tua debolezza, dalla tua morte. E comunque, se riuscissimo a salvarti, tu diventeresti molto simile a me. Saresti in parte Hadar, un alieno. Uno di quelli che stanno distruggendo il tuo mondo. E lo saresti per sempre, senza alcuna possibilità di tirarti indietro o di unirti a un’altra persona» spiegai concitatamente, abbassando il tono alla fine con un moto di insicurezza. Come poteva farmi paura il fatto che potesse rimpiangere questa scelta, un giorno? Come potevo essere così egoista da mettere il rischio di abbandono davanti alla sua vita?
«Puoi...? io sono già...» cominciò lui, ma lo fermai prima che lo dicesse. Prima che anche lui cominciasse a credere di non avere più speranze.
«Se ci sbrighiamo, forse.»
«Io non ho... anelli» disse lui, cercando ancora una volta di alzare le spalle e sorridendo. Io presi un respiro profondo, sentendo che non avrei potuto perderlo, non ora: lo stavo amando per non aver esitato, per aver ancora una volta avuto fiducia in me e nelle mie capacità.
Aveva accettato qualcosa che era possibile solo nelle mie parole, qualcosa che lo avrebbe privato della sua preziosa umanità, senza chiedere altro. C’era forse altra prova che potesse darmi della sua devozione?
«Me lo comprerai poi. Un bell’anello, di quelli che ti costano un braccio. Ma ora rilassati e sta zitto. Ho bisogno di concentrarmi: non l’ho mai fatto prima.»
Lui rise e chiuse gli occhi, esponendo alla luce il viso e le macchie scure che vi si allungavano.
Io presi una siringa e cominciai a cercare un buon punto in cui inserirla.
Non racconterò altro. Se avete mai celebrato le nozze Hadar sapete bene che è un momento talmente intimo che, a confronto, fare l’amore davanti a una folla assume lo stesso peso del bere una tazza di Drez in un bar. E, nel caso non abbiate ancora trovato una persona della quale vi fidiate abbastanza da concedergli la vostra stessa esistenza, immagino che non capireste comunque il significato dei gesti e delle parole, dei movimenti e del rituale. Posso solo dire che, per un istante, tenni l’essenza di entrambi nelle mani e fu insieme esaltante e terrificante: possedevo Alexei e me con un’intensità che non so spiegare, e avrei potuto plasmare le nostre esistenze – sogni, desideri, obiettivi – con un solo gesto, rendendoci degli esseri completamente diversi.
Poi tutto finì e io mi alzai, debole e nuova. Aprì la porta, decisa ad affrontare ora la folla che avrebbe desiderato assistere al miracolo, e risposi infine alle loro domande nascondendo quella poca forza che mi restava e traendo conforto dal respiro sempre più deciso di Alexei, e dalla vita rinsaldata che sentivo scorrere anche dentro di me.
Ci furono medici che vollero ripetere immediatamente gli esami e ufficiali smaniosi di carpire il segreto della mia cura e usarlo sulle altre cavie. Li ricacciai tutti, dicendo che ora non  avrei avuto la forza di parlare che un prelievo di sangue dal paziente era impossibile. Dissi che avrei spiegato ogni cosa appena mi fossi ripresa. Dissi che avevo tentato e avuto successo, ma che ancora non sapevo se sarebbe durata.
Poi mi feci portare una branda e chiesi loro di lasciarci soli, a riprenderci.
Prima di cedere alla stanchezza e al bisogno di ricostruire quella parte di me danneggiata dalla morte che avevo ricevuto da Alexei, mi allungai verso colui che ora era, senza falsità, l’altra parte di me e gli diedi un lungo bacio, assaporando la sensazione di sollievo che saliva da entrambi.
Dormii per circa due ore, il tempo massimo che i miei colleghi poterono sopportare di attendere. Quando si presentarono nella stanza, mi offrii di fare il prelievo ad Alexei e di portarlo al laboratorio.
«Voglio essere io stessa ad analizzare i risultati e studiare i risvolti della mia soluzione» dissi, ma la realtà era che chiunque avesse avuto a esaminare quel sangue avrebbe scoperto la verità.
Qualcuno doveva anche averci pensato, credo. I test furono ripetuti e i risultati discussi da tre diversi dottori nei giorni seguenti, che arrivarono alla stessa conclusione: il paziente sembrava essere miracolosamente guarito. Non c’era traccia di – e cito letteralmente – “alcuna sostanza sconosciuta nel campione ematico”.
Non poteva essere altrimenti, dato che quel sangue proveniva da una delle nostre riserve per le trasfusioni.
Quando venne il momento di spiegare, dissi che avevo provato a iniettare una miscela di farmaci e anticorpi che avrebbe dovuto combattere le principali tossine, sapendo che al peggio avrei accelerato la fine; mostrai loro le fiale che ritenevo più credibili e le azioni che avevo compiuto nelle cinque ore che avevo passato con Alexei, in una sequenza teoricamente logica e praticamente assurda.
Dovettero credermi. Come potevano spiegare altrimenti la guarigione miracolosa?
Mi dissero che avrei dovuto controllare anche gli altri militari con protesi, preparandomi a trovare una soluzione altrettanto brillante e meno invasiva se i problemi si fossero ripresentati: lo stato maggiore aveva in programma di vendere la tecnologia anche ad altri Paesi e, date le cifre che preventivavano, doveva essere almeno perfetta.
Pienamente convinta delle mie parole, io li assicurai che non avrebbero avuto problemi e che, già dal giorno successivo, avrei iniziato a lavorare. Parlai delle mie idee e inventai di sana pianta soluzioni che non potevano capire, quindi li congedai con gentilezza e fermezza. Con le mie utopie avevo strappato il permesso di portare Alexei con me fuori dal campo, quel pomeriggio, e l’avrei sfruttato.
Non cominciai mai a lavorare sulla cura.
Quella notte gli Hadar attaccarono. Sorpresero la città quando era più vulnerabile, all’alba: comparvero ad Est, sette piccole navi oblunghe nascoste dai raggi rossi del sole, e fecero piovere fasci di luce incandescente sulle strade, incendiandole.
Ricordo che ero con Alexei a letto quando la fine cominciò: avevamo fatto l’amore fino a cadere sfiniti l’uno fra le braccia dell’altra e riposavamo così, inermi e assurdamente sicuri. Poi una vampata di calore ci investì. I muri cominciarono a scottare e le persiane si incendiarono, accese dalla sola onda di impatto. Noi corremmo via, la pelle rossa e coperta di sudore che gridava, e scendemmo in strada nudi e lucidi.
Nessuno badò a noi. La gente scappava in tutte le direzioni, spintonandosi nel tentativo di salvarsi la vita. All’orizzonte una macchia di fumo si alzava, rossa e trafitta dal sole nascente, imbrattando la parte di cielo che copriva la base militare. Io presi a correre e Alexei mi trattenne, stringendomi il polso con la mano metallica e indicando il cielo con l’altra.
Allora li vidi e capii.
Le navi avevano individuato il forte e lo stavano radendo al suolo. Lampi di luce cadevano dall’alto, contrastati dal tuono sordo dei proiettili e dei missili che si levavano da terra. L’impatto delle armi creava strane ondate di vento caldo, che facevano danzare attorno a noi una polvere che sapeva di morte.
Rimanemmo fermi per un tempo irragionevolmente lungo; poi qualcuno ci urtò, facendomi perdere l’equilibrio. Caddi a terra, sentendo il fondoschiena scaldarsi e i piedi ustionati ringraziare, e Alexei si chinò e mi prese fra le braccia prima che potessi alzarmi da sola. Mi trasportò via, ignorando il mio muto grido a correre verso il forte, verso i difensori che conoscevamo e gli attaccanti da cui volevo tornare.
Non possiamo, continuò silenziosamente a ripetermi mentre mi trascinava verso uno degli ingressi ai rifugi e poi giù, lungo rampe di scale polverose e sottoterra, in gallerie buie e in disuso.
Qualcuno ci diede una coperta da dividere e una storia da ascoltare per dimenticare i tonfi e le vite che si consumavano sopra la nostra testa, ora dopo ora. Io ascoltai in silenzio ogni cosa, registrando dolorosamente ogni istante – per me sola, stavolta.
Pian piano i rumori scemarono. Aspettammo finché non parve assurdo rimanere ancora fermi e poi ci alzammo, seguendo la folla come due civili qualunque. Emergemmo solo per trovare una città ferita e semivuota: niente cadaveri, niente sangue, solo rovine e polvere.
Troppa polvere.
Taraz sopravvisse cinque settimane. I soldati rimasti istituirono un coprifuoco e trasportarono viveri e medicinali sottoterra, dove gli umani si sentivano stranamente al sicuro. Gli attacchi si ripetevano con la costanza di uno ogni due giorni, all’inizio: sempre più navi per raid veloci, che sfoltivano una popolazione già allo stremo, regalandoci polvere.
Altro deserto, inarrestabile.
Le foto degli scomparsi fiorivano numerose dopo ogni sortita: immagini di persone di tutte le età e le razze, ritratte nei momenti felici che avevano ritagliato in una vita di paura. Io le osservavo adornare i muri dei palazzi e le pareti della rampa per scendere nei rifugi, pensando che c’era una sorta di macabra bellezza in tutti quei volti persi, per sempre legati ai luoghi della vita e a un sorriso dimenticato. Intrappolati in un eterno momento felice.
E mentre noi ci estinguevamo, gli alieni aumentavano.
Poi accadde. Un attimo prima io e Alexei eravamo stesi l’uno accanto all’altra, a parlare di segreti e pericolo; un attimo dopo le pareti della casa esplosero in polvere e io mi trovai in strada, ferita e sola. Intorno a me, i raggi Hadar disegnavano arcobaleni intermittenti che segnavano la retina, stampandosi come fulmini sul nero della notte. Accecanti, violenti, feroci.
Alexei gridava. Mi disse di correre,  mi trascinò e poi mi spinse. Ricordo il calore della sua mano sulla schiena e poi solo la polvere e il rumore, il disorientamento e quella sensazione di paura che avevo imparato ad associare ad Agena.
Quando mi voltai, finalmente al riparo nel sottosuolo, Alexei non c’era più.  


Orbita di Saturno, 8° di Solaria,
24/10/2289

 
 
Vedo nella mia testa i ricordi, nitidi come se ancora vivessi in quel mondo. Rievoco immagini e colori, odori e suoni.
Emozioni.
Cercai Alexei con tutta la forza che avevo. Lo cercai per ventitré ore, sette minuti e cinquanta secondi precisi. E, in quel tempo, Taraz tirò il suo ultimo respiro.
La fine della mia ricerca coincise con la morte della mia città.
Calarono dal cielo, ancora. Scesero come una pioggia, centinaia e centinaia di Hadar coperti di tatuaggi serpeggianti e vestiti del tessuto blu elettrico dei soldati di Agena. Sfoderarono le armi e con un gesto delle dita distrussero Taraz, demolendola mattone dopo mattone.
Io scesi in campo, decisa a morire con lei. Che altro mi restava, ancora?
Agena mi aveva portato via Alexei.
Durai meno di un battito di ciglia: loro erano in tanti, troppi, e le loro armi erano nuove di zecca. Dovevano aver conquistato ben più di un giacimento di rame, per aver potuto assemblare tutto quell’arsenale. Gaia doveva essere caduta, alla fine.
E io con lei.
Venni circondata per pura forza di numero e decisi che non ne valeva la pena. Non era mai valsa, probabilmente. Allargai il braccio e sollevai la testa, pronta a unirmi alle forze che governavano l’Universo – e lo vidi.
Alexei.
Che mi veniva incontro, vestito di blu e con entrambe le braccia di carne tese verso di me.
Il mio cervello si spense. I connettori di biomateriale persero segnale e io rimasi al buio, incapace di comprendere. Docile, svuotata, sentii che Alexei spiegava cos’ero e mi tirava via, dicendomi che andava tutto bene.
Che sarebbe finita presto.


Orbita di Giove, 9° di Solaria,
24/10/2289


 
Tre balzi in sette minuti! Per l’Universo, finirà mai questo viaggio?  
 

Orbita di Marte, 10° di Solaria,
24/10/2289


 
Il comando mi avverte che mancano meno di venti minuti all’atterraggio. Sto male, ma sono forte – e devo finire. Me ne pentirò per tutta la vita, se non lo faccio.
Dunque, Agena, di nuovo. Un viaggio di due giorni-standard attraverso l’iperspazio, che tollerai solo grazie ad Alexei al mio fianco. Fui fortunata, sapete? Quando gli ufficiali Hadar verificarono la mia identità, riconobbero il mio servizio e assegnarono a me e Alexei una cabina in uno dei trasporti più piccoli e più tranquilli. Gli altri, quelli che ancora non avevano scelto, finirono ammassati nella grande nave-prigione, un trabiccolo di Cjera dura e quasi morta sul quale erano stipati solitamente carichi inorganici.
Non parlai molto durante la traversata. Il mio letto era di tessuto caldo e vibrante, il frutto dell’intreccio di materia ed energia grezza che era il vanto della mia genia, e io ero stanca e nauseata. Chiesi di dormire e fui accontentata.
Tornai su Agena con la stessa apatica tensione che si ha nei sogni. Osservai i lucidi edifici bianchi in Cjera e ascoltai il loro sommesso respiro, assaporando l’aria immobile e limpida dell’eterno tramonto del mio pianeta e tentai di immaginare la mia vita come lo era stata quattordici anni prima. Il bisogno di camminare annullato dalle passerelle nascoste, i quadri di comando che si aprivano nell’aria al solo tacco delle dita, i piccoli congegni da applicare al polso per materializzarsi altrove o chiamare a casa. Il sospiro elettrico e vibrante dell’aria, degli edifici, degli abiti e nostro, sincronizzato su un’unica frequenza.
E io, vestita di un’anonima tuta da lavoro. Ancora.
Chiusi gli occhi e andai d’istinto. Toccai il bracciale al polso di Alexei e sentii la vibrazione che annullava e ricostruiva ogni nostra più piccola cellula in un luogo lontano attraversarmi per meno di un secondo, prima che gli odori della città si trasformassero in quelli di un luogo chiuso da troppo tempo, impersonale e asettico.
Casa mia.
«Pensavo che vivessi su una luna, non su Agena» fu il solo commento di Alexei. Si era abituato alla sua nuova realtà con una naturalezza che mi spaventava, considerato il fatto che io, Hadar dalla nascita, non riuscivo a trovare la via di casa con altrettanta facilità.
«Vivevo. Il mio planetoide natale è stato distrutto quando ero piccola.»
«Dagli umani?» domandò con indifferenza lui, lasciandosi cadere su uno dei miei divani.
«Dai nemici del tempo. Quando si è così grandi la guerra trova sempre il modo di raggiungerti. E noi sembriamo attirarla come se fosse un insetto molesto» commentai, aspra.
Alexei si alzò di scatto, come rispondendo a un ordine, e si mise a gironzolare per casa, evitando il mio malumore. Io guardavo lui e il luogo che una volta era stato mio – bianco, lucido, pulito, inodore – e mi chiedevo come potevo sentire così tanto la mancanza di una stanza povera, scura e polverosa.
«Quindi ora questo posto è nostro» commentò Alexei, rompendo il silenzio che si era allargato. Doveva percepire anche lui la tensione, dato che si sforzava di essere allegro.
«Si, anche se non capisco perché. Mi davano per morta.»
«No. Non era una domanda, ma un’affermazione» rise lui, tornando verso di me con un sorriso sereno.
«Hai parlato con qualcuno per... per la riassegnazione?»
«Era il minimo che potessero fare per te. Sei stata preziosa per loro, e ancora non gli hai rivelato nulla di quello che hai imparato» Alexei mi avvolse con le braccia e affondò entrambe le mai nei miei capelli, stringendosi a me. Potevo sentire il suo cuore accelerare mentre la convinzione che tutto fosse a posto, finalmente, cominciava a farsi largo in lui.
«Non credo che ci fosse stata molta richiesta per questo posto. Sembra abbandonato da... da quando l’ho lasciato» provai a scherzare io. Alexei rise, ma non accennò a lasciarmi andare. Un nodo di tensione, elettrica e pesante come pietra, scese a livello del mio stomaco e io avvertì che c’era qualcosa che lui mi teneva nascosto, qualcosa che ancora lo preoccupava. «Che mi devi dire, Alexei?»
«Tra poco verranno qui e ti spiegheranno loro. Io non so molto più di te» mi disse, allontanandomi e abbozzando uno dei suoi strafottenti sorrisi umani.
Non gli riuscì che una misera ombra di quel vezzo umano, ma non mi sarei aspettata nient’altro, dopo le nozze.
«Combattevi per loro» dissi, pensando che fosse il momento buono per affrontare l’argomento.
«Era giusto così» tagliò corto lui, invece, muovendosi per girarmi le spalle e ripensandoci all’ultimo. Io rimasi in silenzio, aspettando che avesse il coraggio di andare avanti.
Non lo fece. Si limitò ad avvicinarsi ancora e prendermi il volto fra le mani, guardandomi come un fedele che stesse recitando una muta preghiera.
«Perché tutto mi sembra così estraneo?» sussurrai io, amareggiata. Alexei assunse un’espressione dispettosa e mi soffiò in faccia, un refolo che non aveva nessun odore.
Un altro briciolo della sua umanità persa.
«Scommetto che, dopo aver inaugurato questa casa insieme, non sentirai più tanto la mancanza dell’altra» attaccò, lasciando scivolare le mani lungo il mio collo e più giù ancora. «Se vuoi, possiamo cominciare anche ora» disse, malizioso, avvicinando le labbra alle mie. Non gli avrei detto di no, questo è certo: umano o Hadar, provavo sempre una forte attrazione per lui. Lo cinsi con il braccio e lo attirai a me nell’esatto momento in cui il trillo melodico del campanello di casa cominciava a squarciare l’aria.
«Maledizione» fede Alexei, staccandosi. Aveva di nuovo quello sguardo preoccupato, ora. Io feci per muovermi ma lui mi fermò, indicandomi con un cenno della testa e dell’anima di restare dov’ero. «No, tranquilla. È il tuo momento. E io non sono invitato» disse, spostandosi i capelli lunghi e scuri a sinistra della testa. Fu allora che lo vidi: la parte destra del capo, rasata, era coperta da una fitta tela di tatuaggi da impianto, che gli abbracciavano il collo e il primo tratto della spina dorsale. Anche la parte visibile del polso sinistro mostrava tratti di colore più scuro – i segni dell’intervento.
«Quando...» cominciai a domandare, ma le immagini della cattura di Alexei mi scorsero nella mente senza che io le avessi evocate.
Esplosioni. Polvere. Grida e un fascio di luce troppo calda. Gli occhi accecati, la gola in fiamme, il respiro rotto. Una stanza bianca. La paura, il gelo dell’ago nella vena, la pace.
Accettazione.
Ne stavo ancora venendo a patti quando entrò un Nobile. Lo riconobbi dagli occhi, gialli e brillanti, e dal colore rosso con cui erano marcati gli impianti; allora scattai in piedi, assecondando un impulso radicato.
«Riposo, soldato» mi disse il Nobile, perentorio. Aveva una voce alta, di quelle che fanno male alle orecchie, e un corpo troppo massiccio. Io mi lasciai andare su un divano e lui richiamò con un gesto nell’aria i comandi della casa, selezionò una sedia di energia e la acquistò senza battere ciglio, attende meno di un secondo che questa sorgesse dalle Cjera del pavimento.
«Le consegne sono sempre più lente in periferia» commentò il Nobile. Si sedette con un gesto flemmatico e misurato e lasciò che il fascio semitrasparente gli si assestasse intorno prima di riprendere. «Immagino che sia anche la disabitudine. Questo quartiere è rimasto vuoto per parecchio tempo.»
«Solo i soldati vivono da queste parti» convenni io, ragionevole – e poi decisi che non ne valeva la pena. Ero stanca. «Cosa siete venuti a offrirmi per il mio silenzio? Non una sedia e una casa da quattro soldi, spero.»
«Si spieghi, soldato» disse lui, il tono che voleva essere condiscendente e sorpreso, ma che sembrava solo seccato. Io decisi di ignorarlo e presi a seguire il filo del mio pensiero.
«Gli occhi, Signore. È tutto lì il trucco, vero? Gli occhi.» Spostai il viso in avanti, spalancando i miei. «Occhi verdi. Da cittadina comune, da provinciale, da figlia dei planetoidi minori. Ma non è solo questo, vero?»
Il Nobile non rispose. Aveva irrigidito la schiena, adesso, e assottigliato le palpebre, oltre le quali i suoi occhi gialli mi intimavano di tacere. «“Hai gli occhi di tua madre, bambina mia” mi diceva mio nonno da piccola. E io mi sentivo così triste per questo. Ogni volta che mi guardavo allo specchio pensavo a lei, all’entità familiare e misteriosa che mi aveva generato, e piangevo accorgendomi che non avrei mai potuto verificare di persona se quel che diceva il vecchio era la realtà o no. Non avrei mai conosciuto mia madre, perché mi era stata portata via dalla guerra.»
«Una storia senza alcun dubbio drammatica, soldato, ma non molto dissimile da quella di centinaia di altri Hadar. Dovrebbe questo darti diritto a un trattamento di favore?»
«Oh, no di certo. Doveva solo darmi la spinta giusta per scendere in battaglia, e così è stato. Il pensiero di quello che avevo perso mi ha spinta verso l’esercito e il miglioramento continuo, in una folle corsa per prepararmi a questa guerra. Ditemi, Signore, ce ne sono mai state altre prima?» Il Nobile fece per parlare, visibilmente a disagio, ma io sollevai la mano e lo bloccai, intimandogli con quel gesto di tacere e mettendoci tutta la rabbia che avevo. «No. Lasci stare. Sarebbe una verità a metà, e io ne so anche troppe. Non mi interessa. Voglio solo che sappia che la smania della guerra mi è passata, ma che ho ancora tanto odio dentro. Perché io ho visto mia madre alla fine, Signore. Lo sa questo, vero? L’ho vista e le vostre bugie non mi hanno permesso di riconoscerla in tempo per gettarmi fra le sue braccia e lasciare che mi dicesse chi sono veramente. Ma mi sono resa conto, adesso... ho capito. E lei non sa quanto mi sta costando trattenermi dal saltarle alla gola e prendere la sua vita come trofeo.»
«Dove abbiamo sbagliato?» domandò secco il Nobile, fissandomi come una bestia pericolosa, la paura che gareggiava con l’ira sul suo viso.
«Crede davvero che risolverò ancora i vostri problemi per voi? No, non funziona più così. Prima voglio che mi raccontiate cosa avete fatto a me e a tutti gli esseri umani che avete catturato. Voglio sapere di quale scelta parlava Alexei. E, se sarà così sincero da meritarsi il privilegio di uscire da questa stanza incolume, voglio una garanzia. Protezione, benefici, denaro. Per me e Alexei» dissi, risoluta. L’altro non batté ciglio, come se non si fosse aspettato niente di meno.
«Il tuo fidanzato è al sicuro. Noi non uccidiamo i nostri simili.»
«No. Ma tutti vi sono simili alla fine, vero?»
«Touché» disse il Nobile, chinando il capo in un segno di resa. Poi sogghignò, accavallando le gambe con tranquillità. «Sai che questa parola ha origini umane? Uno dei tanti vocaboli coniati da una delle razze che ha abitato quella roccia spersa in un sistema solare desolato. È nata in un luogo sconosciuto, quella parola, e ha viaggiato di bocca in bocca fino a diventare di uso comune. Poi qualcuno da un altro luogo, da un’altra tribù, l’ha sentita e trovata piacevole, così l’ha portata con sé nella sua casa. E così è stato ancora e ancora: altre case, altre tribù, altro viaggi, finché c’erano abbastanza persone che ne conoscessero il significato da renderla universale. Ossia senza più un’anima. Tante influenze l’hanno spogliata, depredata, resa gioco per le masse... e il tutto senza che se ne rendesse conto. O che ne soffrisse. Ha avuto fama di gloria e ha viaggiato ancora, talmente tanto lontano che viene ancora usata da una razza diversa, secoli dopo che la tribù che l’ha ideata è stata cancellata e dimenticata. È tutto questo per cosa? Per non rimanere una goccia fra le altre. Per evolversi. Per migliorare»
«Ma una parola non ha volontà sua.»
«Nemmeno un neonato. Ma il suo scopo resta comunque quello di migliorarsi. Evolvere, crescere: due sinonimi. E se una sola parola può pesare talmente tanto da inserirsi in una cultura radicata e accrescerne la capacità di comprensione reciproca, allora cosa può fare un essere vivente e senziente?» cominciò a spiegare, assumendo l’atteggiamento seccante di un professore costretto a rispondere alle domande di una bambina particolarmente tarda. «Voi siete il nostro esperimento più riuscito. Siete la dimostrazione che due mondi diversi possono fondersi e migliorarsi a vicenda, contribuendo alla stessa grandezza in nome di un’ideale di patria e sicurezza.»
«Bel modo per dire che avete rapito dei bambini umani, gli avete fatto il lavaggio del cervello e li avete mandati a combattere contro i loro fratelli e la loro stessa madre.»
«Gaia non è mai stata vostra madre. Il grembo che vi ha generato e dimenticato può essere una madre anche solo paragonabile a quella che vi ha accolto, nutrito, amato e protetto?»
«Che ci ha mentito. Quanti nonni amorevoli ci sono nella mente dei vostri esperimenti? Quante notti passate nella paura della guerra, quanti rimpianti, quanta muta nostalgia di un pianeta buio che non è mai esistito? È amore, questo? È protezione? Come potete anche solo pensare che si possa amare una madre che non ci ha mai accettati per quelli che siamo?» la mia pazienza stava decisamente finendo, minata dalle dure rivelazioni e dal tono accondiscendete del Nobile.
«Agena vi ha accolti...»
«E trasformati senza chiederci se fosse quello che volevamo. Avete cambiato la posizione del nostro cuore, per l’Universo! Avete aggiunto un dito alle nostre mani e manipolato il nostro patrimonio genetico perché diventassimo la brutta copia di voi Nobili. I veri Hadar, i veri alieni. Ma gli occhi... Gli occhi non avete voluto cambiarli, vero? Senza quelli come avreste potuto riconoscere le copie dagli originali?»
«È stato questo, il nostro errore? Gli occhi?» il tono del Nobile era diventato improvvisamente stizzito. Senza volerlo l’avevo messo di fronte a un fallimento della sua genia e questo sembrava essere intollerabile, per lui.
«Che avete fatto agli altri esseri umani?» ne approfittai io, continuando a colpire.
«Quello che ora tu mi rimproveri. Gli abbiamo dato una scelta: vivere come rinnegati su un pianeta che sta morendo o scegliere di evolversi e dimenticare. E sai cos’è accaduto, soldato? La legge fondamentale dell’Universo ha trionfato ancora. Meno dell’un per cento degli umani ha deciso di rimanere tale. Gli altri si sono uniti a noi e sono rinati, evoluti e forti. Hanno deciso di scordare la loro casa e di abbracciare quella menzogna su cui tanto sputi. Ora hanno un passato migliore che li rende compagni, figli e genitori migliori. Esseri che guardano al futuro e al proprio miglioramento invece che a vivere fino a domani. E cosa c’e di male in questo?»
Niente, pensai. Ha ragione.
Ma non ero pronta a capitolare, non ancora.
«E Alexei?»
«Era già un Hadar. Tu l’hai fatto diventare tale, usando senza saperlo un processo che è molto simile a quello che ha trasformato te, un tempo. Noi abbiamo solo dovuto rimetterlo in sesto. Ora ha un braccio che non lo ucciderà e un corpo in grado di fargli superare tutte le più ambiziose sfide che potranno mai venirgli in mente. E ha te, ancora: tutto quello che è successo su Gaia è rimasto, solo la sua percezione di sé è cambiata. Ora, per quanto ne sa, lui è sempre stato un Hadar. E ti ha sposata non per salvarsi la vita, ma per amore. Non lo trovi più romantico e vero ora?»
Si.
Ma non potevo darglielo a vedere.
«Come avete fatto a trovare la base militare di Taraz? Perché so che era ben nascosta» dissi con tono duro, cercando di mostrarmi ancora battagliera e di trovare una falla nella ragionevolezza che il Signore Hadar mostrava.
«Lo sai» mi disse il Nobile, piantandosi un dito all’altezza dello sterno. «Energia. Quando hai celebrato le nozze Hadar, hai sviluppato un tipo di energia che ogni figlio di Agena sa riconoscere. Seguire le tracce, poi, è stato automatico»
«Perché anche nella testa di Alexei c’è il Drez?» tentai ancora, cercando di trovare altrove un combustibile che mantenesse acceso il fuoco della mia rabbia.
«Serve a stabilizzare la trasformazione. È in effetti l’unico motivo per cui inseriamo una componente emozionale forte nel vostro passato: ogni Evoluto deve assumere il Drez regolarmente, per evitare regressioni spontanee.» Io corrucciai la fronte e strinsi le labbra, ma non lo interruppi. Dovette prenderlo come un invito, dato che proseguì. «Tare genetiche. Errori comuni. La natura tende a limitarsi, a volte, ma l’Universo le è superiore e la combatte. La volontà, però, deve aiutarlo.»
Lo capivo. Ero stata educata ad accettarlo, dopotutto.
Il Nobile lo intuì e vidi sul suo volto l’espressione di chi sappia di aver vinto. «Credo che tu ora possa capire perché me ne sono rimasto qui ad ascoltarti. E perché sono sicuro che verrai con me, ora.»
«Dove?»
«In una delle nostre cliniche. Dobbiamo valutare quali danni ha provocato in te l’astinenza» tagliò corto e si alzò, indirizzando un gesto alla sedia, che si disattivò lasciando dietro di se solo un piccolo cerchio al suolo: la sua sorgente.
«E poi?» chiesi io, con un groppo alla gola.
«Poi ti offriremo un lavoro. Un bel lavoro, molto simile a quello che hai svolto su Gaia. Ufficiale Scientifico, con un grado maggiore e una nuova, bella uniforme, completa di una spada del metallo che preferirai.»
«Ora ne avete a sufficienza, immagino» constatai, non così amaramente come avrei voluto.
«Già. E tu ci aiuterai a trovare modi sempre migliori per utilizzarlo. Evoluzione!» tuonò il Nobile, estasiato.
«La mia memoria?»
«È fondamentale ai nostri piani. Non ti toccheremo, a meno che non sia tu a volerlo.»
«Anche Alexei lo diceva» commentai, e poi cominciai a ridere. Fu liberatorio. Scacciò via i dubbi e mi schiarì la mente, lasciando che quel mondo una volta mio riprendesse a scorrere in me. «E le mie richieste?»
«Sarai parte dell’élite. Potrai comprare da sola tutto quello che vorrai. E per la protezione... Noi Hadar siamo tutti figli della stessa energia. L’Universo e i tuoi fratelli baderanno a te come è sempre stato e come sempre sarà, finché tu e la tua genia sarete dei nostri.»
«D’accordo» dissi solamente. Il Nobile si rilassò visibilmente, arrivando addirittura a sorridermi bonario, alla fine. Mi fece strada e attese paziente che salutassi con un bacio Alexei, poi mi prese per mano e attivò il congegno trasportatore al polso.
Sentii una vibrazione e chiusi gli occhi, scacciando nel profondo quella parte rabbiosa e impaurita di me che mi gridava di non farlo. Che diceva che, se alla resa dei conti non fossi più stata una dei loro, nessun Hadar avrebbe mosso un dito per salvarmi la vita.
E se la privazione del Drez mi avesse cambiata troppo da rendermi instabile o pericolosa, mi sibilava nelle orecchie quel piccolo demone, per colpa delle nozze Alexei avrebbe subito il mio stesso destino.  

 

 
Piccolo spazio-me: i credits > m-a-t-h-e-s 

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