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Autore: Mannu    20/02/2016    0 recensioni
Un altro quando, un altro dove: in un mondo animato dalla forza del vapore Veruska è una giovane domestica accompagnatrice da poco diplomata in cerca del suo primo impiego. Non esita a salire a bordo di un bellissimo treno che la porta verso una movimentata avventura che non avrebbe mai sospettato di poter vivere.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Veruska'
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Schmeisser (Vollversion)
Der fünfte Teil

Quella settimana proseguì ricca di avvenimenti. Il giorno seguente, un martedì, si presentò alla porta la nuova cameriera. Maria: un'immigrata italiana che a parte qualche piccolo problema di pronuncia e una fastidiosa venerazione per la Beata Vergine e San Gennaro si mostrò subito un valido elemento. Piccoletta, pettoruta e robusta non si spaventava di fronte ai lavori pesanti che anzi, portava a termine con solerzia mettendo in cattiva luce l'altra rancorosa cameriera, Karin. Questa avrebbe fatto volentieri uso del coltello che la sua cara amica Inga aveva sventolato sotto il naso di Veruska, ma era troppo vile per farlo davvero. Maria si guadagnò le simpatie di Veruska quando affrontata Karin a muso duro il giovedì seguente, gliene disse quattro digradando da un tedesco un po' incerto all'italiano e finendo col napoletano stretto, incomprensibile ma ugualmente efficace. Karin, da quella persona con poca spina dorsale che aveva già dimostrato di essere, abbassò la testa e cominciò a lavorare al punto che il signor Hirsch notò la differenza.
Il venerdì Veruska lo trascorse dividendosi faticosamente tra i suoi doveri e la perlustrazione della villa alla vana ricerca di una traccia qualsiasi di Eric Schmeisser. Venne meno la corrente elettrica dopo cena, ma fu solo per pochissimi minuti. Maria fu più lesta di Veruska nell'accendere una candela.
Sabato il sole dardeggiò da mattina a sera, nel cielo nemmeno un nuvola. La temperatura si alzò di parecchio e i giardinieri lavorarono con le maniche della camicia arrotolate fino sopra i bicipiti.
Domenica mattina Veruska, Maria e Karin lavorarono febbrilmente: il signor Hirsch aveva ordinato che tutta la servitù pranzasse nel cortile dietro la villa, in un grande spiazzo vicino agli alloggi della servitù stessa. Durante il pranzo mantenne la parola data e annunciò a tutti la promozione di Veruska. Era la prima per importanza dopo il signor Hirsch e la signora Besen. Tutti le fecero i complimenti e la applaudirono, poi si dedicarono al dolce: una Sacher torte che fu portata con una certa pompa dai due cuochi.
Poi, come ogni domenica pomeriggio, la servitù fu lasciata in libertà.
Maria e Karin approfittarono della cortesia di Lord Schmeisser che ogni domenica metteva l'auto a disposizione di chiunque intendesse recarsi in città. Si partiva dopo pranzo e il rientro era previsto subito dopo l'ora di cena. Le accompagnarono due dei giardinieri più giovani, un cuoco e lo sguattero. Veuska si sentiva troppo stanca: rimase a sbarazzare la grande tavolata avendo deciso che sarebbe rimasta alla villa per riposare e godersi il sole caldo e la quiete della collina. Aiutò Franz, il cuoco rimasto, a smontare e riporre il tavolo dopodiché si rinfrescò, prese il suo libro e si addentrò un poco nella prima parte del parco, quella più curata dai giardinieri.
Qui le siepi erano potate con geometrica maestria, le aiuole curate e fiorite, le statue delle fontanelle erano pulite e candide. Perfino i pesci rossi nelle vasche sembravano passarsela molto bene: pasciuti e vivaci, giocavano a rincorrersi guizzando di tanto in tanto in superficie.
Veruska si recò nel labirinto di basse siepi verdissime che circondava una larga vasca circolare dove pigri giochi d'acqua producevano un rinfrescante e tranquillizzante sciabordio. La vasca era circondata da un orologio floreale: si poteva dire l'ora, con una certa approssimazione, a seconda della porzione di aiuola che schiudeva i petali. In quel mentre le dalie gialle stavano cedendo il passo a un tripudio di gerani di un rosa accesissimo.
Si dedicò al suo libro, una storia romantica di amor cortese tra cavalieri senza macchia e damigelle dal cuore puro. Diverse struggenti pagine le scorsero tra le dita quando dovette interrompere per l'emozione. Appoggiò meglio la schiena alla panchina e offrì il viso ai caldi raggi del sole, chiudendo gli occhi per non rimanere abbagliata e lasciandosi andare all'immaginazione e alle più dolci fantasie.
Passi pesanti sulla ghiaia la riportarono in fretta alla realtà.
- Perdonate, magistra...
Jean, il capo dei giardinieri. Un uomo robusto, bruno come il cuoio, con una zazzera di capelli grigi e bianchi che sfuggiva da sotto il berretto verde bosco. Come sempre indossava i pantaloni da lavoro, la pettorina ben stretta con le tasche sformate dal peso degli attrezzi, la camicia blu con le maniche arrotolate a mostrare i bicipiti tesi, grosse scarpe spesse e sporche, adatte ai lavori pesanti. In una mano teneva un candido ombrello parasole, nell'altra la pesante pietra forata atta a sostenerlo.
- Ho pensato che forse avreste gradito un po' d'ombra di tanto in tanto.
Veruska sorrise all'anziano giardiniere che la trattava con ancor più deferenza del solito. Quel titolo, poi! Dove l'aveva pescato?
- Non sono magistra di nessuno, Jean. Metta pure l'ombrello dove crede, mi sposterò io.
- Ma certo, signora.
In un battibaleno l'ombrellone fu posizionato e aperto in modo da offrire ombra fino a metà della panchina.
- Non vorrebbe sedersi un minuto, Jean? - l'uomo si bloccò lì dove le parole di Veruska l'avevano colto: già incamminato verso un nuovo lavoro.
- Dopotutto è un giorno di riposo oggi, no? È domenica – lo incoraggiò vedendolo titubante.
Jean si accomodò, goffo come un orso, a rispettosa distanza da lei. Lo ringraziò per il pensiero gentile, aggiungendo che un ombrellone le avrebbe fatto comodo di lì a poco. Il sole era davvero caldo.
Cercò di mettere il vecchio operaio a suo agio complimentandosi con lui per come il parco e i giardini di Villa Schmeisser erano tenuti, e facendogli domande che lo invogliarono a chiacchierare di piante e fiori. Jean pian piano si sciolse e, forse complice il vino bevuto a pranzo, si lasciò portare verso altri argomenti.
Dopo meno di mezzora seppe che il giardiniere era un veterano della villa, al servizio degli Schmeisser da oltre trent'anni.
- Non è sempre stato così – le rispose quando gli fece notare l'assenza di un tocco femminile nella villa, parlando in generale. Jean ribatté d'aver conosciuto la Signora, la consorte di Lord Schmeisser: Eva Kraun, figlia del barone Franz-Ferdinand Kraun. Jean pronunciò quei nomi con il massimo rispetto e gli occhi lucidi. Divagò un poco narrando disordinatamente delle sontuose feste alla villa dove i coniugi Schmeisser erano soliti avere sempre almeno un centinaio o più di invitati.
- Poi la Signora si ammalò e morì – aggiunse curvando le spalle in avanti come se rivivesse il dolore di quella perdita – e nulla fu più lo stesso. Lord Schmeisser si chiuse sempre più in se stesso, il Signorino ebbe l'incidente e perfino la sua amata Janine se ne andò tragicamente di lì a pochi anni.
Sospirò così profondamente che Veruska ebbe la sensazione che perfino le lontane montagne turchesi avessero sospirato con lui.
Non riuscì a fargli dire altro: sentendosi in colpa per aver destato in lui ricordi così tristi lo trattenne ancora un poco cercando di riparare con argomenti più leggeri, poi lo congedò.
Trascorse il pomeriggio leggendo e riposando, concedendosi persino un leggero sonnellino. Tale era la quiete e la pace del giardino.
Il sole era giunto poco oltre la metà della sua discesa verso le verdi colline quando Veruska decise di sgranchirsi un po' facendo una passeggiata. Si allontanò ulteriormente dalla villa esplorando il giardino così sapientemente mantenuto dai giardinieri. Raggiunse il limitare dove le siepi erano tagliate a due metri e passò sotto l'arco festoso di bouganville viola. Sotto i suoi piedi il selciato bordato di ghiaia bianca si interruppe sostituito dal morbido terreno verde d'erba rigogliosa, tagliata all'altezza migliore. Nuovi profumi e colori la avvolsero mentre si beava della natura che sembrava d'un tratto riprendersi i suoi spazi: aboliti i geometrici confini delle siepi, sparite le fontanelle e i sentieri puliti e delimitati da piante di bordura, a Veruska parve di essersi inoltrata in uno dei boschi fatati di cui aveva letto nelle pagine del libro che ancora teneva tra le mani. Troppo pratica e realista per mettersi a sognare a occhi aperti l'incontro con un bel cavaliere in armatura da parata, si inoltrò tra gli alberi ben tenuti esplorando tranquilla e placida, rincuorata dalla luce del sole che non aveva difficoltà a giungere fino al terreno. Di tanto in tanto si voltava indietro per controllare che si vedessero ancora le pallide mura di Villa Schmeisser.
Quasi non si accorse che il terreno cominciava a digradare e a diventare più aspro. Rami caduti, foglie secche, tappeti di aghi di pino rossicci e punteggiati da qualche scura pigna qua e là. Frulli d'ali sempre più vicini e l'erba che si faceva più alta e umida per la pioggia caduta abbondante nei giorni precedenti. Era palese che quella parte del parco fosse poco frequentata dai giardinieri e che la sua passeggiata terminava lì. Tornò sui suoi passi, o così credette di fare. Quando pensò di trovarsi in vista della villa si rese conto con spavento che non era affatto così. Il luogo le era familiare ma evidentemente si trattava di un inganno della sua memoria. Che sciocca, si rimproverò. Troppo svagata e con la testa fra le nuvole! La consapevolezza di essersi smarrita le morse il petto ma non volle arrendersi subito. Con calma ma cercando di mantenere un buon passo cercò di ritrovare la via smarrita. Si affidò dapprima alla sua memoria e al suo senso dell'orientamento, che però l'avevano appena tradita entrambi. Poi fece appello agli espedienti narrati nei libri divorati nella sua fanciullezza e che ancora oggi prediligeva, ma la posizione del sole nel cielo rimase un enigma e no, non si era proprio ricordata di portare con sé un gran gomitolo di filo da svolgere passo dopo passo per poter ritrovare la via nel labirinto. A stento si rincuorò al pensiero che il mostruoso minotauro era solo un antico mito.
Il sole si abbassava a velocità sorprendente ora che la pungeva la fretta e l'ansia di rientrare. Verranno a cercarmi, pensò vedendo le ombre allungarsi sempre più, in fuga dal sole al tramonto. Verranno sicuramente, mi cercheranno con torce elettriche chiamandomi a gran voce, si augurò vedendosi cinta d'assedio dalle prime ombre della sera che le scivolavano addosso come inchiostro.
Stanca per il lungo tratto percorso a piedi, infreddolita per l'umidità del sottobosco, appoggiata al tronco di un albero per vincere la pendenza del terreno, Veruska giunse a un passo dallo sconforto. Ancora poco e sarebbe stato così buio tra gli alberi che a stento avrebbe potuto distinguere mani e piedi. C'erano alberi ovunque attorno a lei, e fruscii spettrali tra le loro chiome. Il terrore dei pipistrelli montò improvviso dentro di lei rischiando di gettarla nel panico: non ci aveva pensato fino a quel momento.
Calma, si disse. Sono figlia di un'era moderna e i vampiri esistono solo nei libri. Si guardò intorno: non vedeva più nulla, nessuna luce, nessun punto di riferimento. Nulla. Qualsiasi direzione era indistinguibile da un'altra. Qualcosa le volò sopra la testa facendola gemere per lo spavento come una bambina. Si chinò, le mani tra i capelli, e non poté vedere da dove erano sbucate all'improvviso le luci.
Il classico sibilo di un'auto a vapore, le luci dei fari che tagliavano veloci il buio sotto di lei, oltre gli alberi. Pochi istanti e si trovò a guardare con gioia le rosse luci di posizione, occhi brillanti e un po' diabolici che si allontanavano da lei. C'era una strada poco più sotto.
Rischiando una brutta storta a una caviglia a ogni passo Veruska discese in direzione della strada che non poteva vedere, ma che doveva esserci per forza. Quando finalmente le suole delle sue scarpe si posarono senza preavviso sull'asfalto, sorpresa e sollevata sospirò profondamente. La luna non era ancora sorta ma alla luce delle stelle, non più fermata dal tetto delle fronde degli alberi, riuscì a vedere la strada nel buio. Stanca e con le gambe indolenzite si incamminò ugualmente di buona lena. Non aveva la più pallida idea della sua destinazione, ma da qualche parte quella strada sarebbe pur arrivata. E, se fosse stata fortunata, avrebbe potuto chiedere aiuto fermando il prossimo veicolo di passaggio.
Fu la luce a distrarla dai suoi propositi. La vide chiaramente aumentare poco a poco al di là di una curva. Vi giunse col petto che rimbombava per i battiti del cuore esultante. Un edificio industriale di mattoni rossi, tutte le finestre erano illuminate. Ferveva dell'attività al suo interno, evidentemente. Si sentiva un forte ronzio elettrico in alto nell'aria, qualcosa sfrigolava. Mentre si dirigeva sempre più decisa grazie alla luce che le illuminava meglio la via, si trovò a passarvi sotto. Cavi elettrici, alta tensione. C'era una cabina elettrica lì vicino che alimentava i macchinari dell'edificio.
Con gli occhi tracciò il percorso verso la porta che le pareva di intuire nella faccia che l'edificio industriale le rivolgeva. I suoi piedi però si rifiutarono di muoversi. Le ginocchia si piegarono e tutto il corpo si chinò in avanti acquattandosi istintivamente. Nonostante le ombre aveva scorto del movimento. Due figure erano già presso la porta con fare sospetto. Proprio mentre le guardava quelle aprirono la porta ed entrarono nell'edificio. Grazie alla luce che proveniva dall'interno vide chiaramente i due uomini col pastrano.
Se ne stette lì inginocchiata allo scoperto, protetta solo da un velo di buio minacciato dalla luce elettrica che pioveva dalle vetrate del grande capannone. L'unico posto dove avrebbe potuto trovare aiuto e rifugio aveva ora un'aria minacciosa, inquietante. Era giunta proprio in procinto di qualche evento, qualcosa stava per consumarsi entro quelle massicce mura di mattoni. Tremava, non solo per il freddo. Non poteva certo starsene lì fuori ma nemmeno ficcare il naso in affari che non la riguardavano.
Decise che avrebbe aspettato un momento migliore e magari avrebbe chiesto aiuto a chiunque fosse uscito da quella porta. Si avvicinò: era inutile starsene piantata lì in mezzo nella penombra. Ma una volta nei pressi della porta furono le voci a farle cambiare idea.
Le riconobbe subito: erano quelle dei due misteriosi visitatori che avevano discusso col Signorino. Stavano di nuovo alzando la voce. Un'altra voce nota stava rispondendo loro, pacatamente. Eric Schmeisser, non c'erano dubbi.
Veruska non seppe giustificarsi nemmeno con se stessa. Fu il suo intuito a dirle che una situazione di pericolo si stava creando oltre quella parete, e che Eric Schmeisser era minacciato. Non esitò oltre e aprì la porta con cautela.
- È finita, Schmeisser. Consegnerà i progetti a noi, immediatamente!
- No! Non vi impadronirete anche di questo – fu la calma risposta dell'uomo. Veruska non poteva vedere niente: un tramezzo di mattoni forati cementati da calce e mai intonacati le sbarrava la vista verso l'interno del capannone, ben illuminato da molteplici lampade elettriche. Il tramezzo era alto circa tre metri e non arrivava certo al soffitto, che svettava altissimo sopra la sua testa ricco di tralicci, scale, passerelle, rotaie, condotte di scarico del vapore che si facevano strada verso il tetto e passatoie per cavi elettrici che serpeggiavano ovunque. Catene e pulegge per sollevare grandi carichi penzolavano da un carro ponte che aveva qualcosa di pesante agganciato ai verricelli più potenti. Robustissime catene triple erano in tensione ad angoli innaturali, ma il tramezzo le impediva di vedere di che macchinari si trattasse.
Si fece forza e si sporse di pochissimo per sbirciare.
Erano proprio i due uomini che erano stati alla villa quella settimana. Le offrivano il fianco e fronteggiavano decisi Eric Schmeisser.
Ritto in piedi.
Su gambe di acciaio e ottone.
Paralizzata dall'orrore e dalla sorpresa, non poté fare a meno di osservare quella straordinaria e spaventosa figura. Eric Schmeisser se ne stava ritto in piedi, la camicia bianca sporca di grasso e sudore, le maniche arrotolate sopra i gomiti tese intorno a massicci muscoli. Attraverso la camicia sbottonata si intuiva il petto ampio e poderoso. Sul viso stanco e lucido di sudore spiccavano profonde occhiaie scure, la barba chiara e sporca, lucidi occhi febbrili e la mascella larga e decisa. Aveva segni di nerofumo sulla fronte e gli tremavano le labbra.
Si appoggiava a una comune stampella e i moncherini delle gambe stretti nei pantaloni cuciti appositamente erano infilati in due protesi meccaniche: un intrico di molle, pistoni e tiranti che gli occhi di Veruska non riuscivano a cogliere del tutto.
La giovane ebbe la presenza di spirito di trattenere il fiato e di ritrarsi al riparo lentamente: i tre erano a pochi metri da lei.
- Non ci costringa ad agire, Schmeisser: non opponga resistenza. Noi rappresentiamo l'autorità del Kaiser!
- Possibile che non capite? Il Kaiser e tutta la nazione ricaveranno molto di più da tutto questo se verrà usato per ciò che io ho progettato!
- Adesso basta, Schmeisser! Nel nome del Kaiser August Gustav von Richter III, prendo possesso del suo progetto, del prototipo da lei costruito e di tutto ciò che si trova dentro e fuori questo edificio! Le ordino di collaborare!
Veruska si sporse appena in tempo per vedere l'uomo con la barba a punta estrarre una pistola brutta e squadrata da sotto il pastrano, e spianarla contro Eric Schmeisser.
Ancora una volta fu il suo istinto a decidere per lei. Senza nemmeno sapere esattamente cosa stava facendo, vinta dall'impulso protettivo nei confronti del giovane Schmeisser, saltò fuori dal suo nascondiglio e si gettò a mani tese sul braccio che impugnava la pistola.
Vi fu un rapido parapiglia: Veruska era terrorizzata dalle armi e a stento riuscì a opporre resistenza. I due uomini ebbero ragione di lei in poche mosse, ma lo scompiglio da lei creato ebbe risultati sorprendenti.
- Sua Maestà Vittoria, Regina d'Inghilterra vi porta i suoi omaggi e ringrazia sentitamente!
Veruska trattenuta a terra per le braccia dall'uomo più massiccio alzò lo sguardo imitando i due agenti del Kaiser. Su una passerella prossima al soffitto c'era l'autista di Lord Schmeisser, sorridente. In mano stringeva un tubo dorato: certamente si trattava di qualcosa di importante. Così importante che l'agente armato di pistola esplose contro la spia britannica tre colpi in rapida successione. Nessuno di questi andò a segno.
- Attenzione!
Veruska ebbe le mani libere, ma non il tempo di gioire.
Era così grosso che ai suoi occhi era passato inosservato.
Un enorme automa metallico alimentato da motori elettrici e reso potente da cilindri azionati dal vapore cominciò a muoversi, prigioniero delle catene dei verricelli che lo mantenevano in posizione eretta. Aveva braccia lunghissime e gambe tozze, era irto di meccanismi di ogni genere: valvole che si aprivano e scaricavano l'eccesso di pressione, ruote dentate sporche di grasso bruno, cinghie multiple avvolte e incrociate su pulegge cui si accoppiavano nere catene di trasmissione larghe quanto una mano. Era chiaramente incompleto.
Era comandato da Eric Schmeisser, che se ne stava alloggiato nel centro dello smisurato essere di metallo.
Tutto sommato il minotauro esiste, pensò Veruska dandosi della stupida un attimo dopo.
Uno dei bracci avvinto dalle catene dei paranchi si alzò tra gemiti elettrici e soffi di vapore per poi calare con straordinaria e inattesa velocità. Lo strattone che diede alle catene si trasmise alle rotaie del carro ponte che si piegarono. Il pesante congegno di sollevamento si inclinò insieme alla passerella scelta dalla spia inglese come via di fuga. Per sostenersi e non cadere da quella vertiginosa altezza quello fu costretto a lasciare cadere il cilindro di metallo che sparì alla vista tra i macchinari posati con ordine sul pavimento del capannone.
Il minotauro di Schmeisser nel frattempo si era liberato del tutto. Non era in grado di sostenersi sugli arti inferiori quindi cadde in avanti, a quattro zampe. Essendo gli arti superiori più lunghi delle possenti gambe, riusciva a mantenere una posizione quasi eretta.
- Via! Tutti via! - sbraitò il giovane Eric alzando un braccio e menandolo a mo' di martello contro l'agente del Kaiser che gli stava puntando contro la pistola. Quello dovette ripararsi per non perire schiacciato.
Strisciando a quattro zampe, terrorizzata dal caos che stava vedendo e dal frastuono di metallo che cigolava, dai colpi che martellavano il pavimento di cemento e dal rumore orribile dei motori di quel minotauro meccanico, Veruska si era trovata con le spalle al muro. La paura le aveva paralizzato il cervello e strillò come un ossesso quando le rotaie del carro ponte, danneggiate irreparabilmente, stridendo insopportabili cedettero di schianto sotto il peso delle attrezzature di sollevamento.
Molte volte aveva letto delle imprese del dio Thor che col suo Mjolnir era in grado di affrontare qualunque minaccia, certo del potere del tuono. Quando il coro di lamenti delle lamiere che si deformavano sofferenti e cadevano dal soffitto culminò nello schianto del carro ponte, fu come se Mjolnir si fosse abbattuto su quel capannone. Il pavimento vibrò, il tuono cancellò il grido dalle orecchie di Veruska e le rimbombò dentro polmoni, stomaco e ventre, lasciandola impotente. Nemmeno la pioggia di calcinacci e schegge di mattone la indusse a togliersi da dove aveva irragionevolmente trovato rifugio, terrorizzata come un piccolo topo in trappola.
Invulnerabile, il mostro meccanico spazzò via il tramezzo di mattoni con un unico colpo del braccio sinistro. Vedere il suo riparo precedente finire in briciole con quella facilità aiutò Veruska a scuotersi.
L'aria si stava riempendo di polvere di cemento e dal soffitto continuavano a cadere briciole di mattone. Tossendo la giovane domestica sgattaiolò ancora a quattro zampe senza una meta precisa. Voleva andarsene: il cemento vibrava a ogni passo del minotauro e lei non avrebbe voluto trovarsi sulla sua strada per nulla al mondo. Riuscì a rizzarsi in piedi e a rendersi conto di ciò che stava succedendo. Il mostro era lontano: si udì un colpo d'arma da fuoco, assordante. Ne vide anche la vampa: il braccio meccanico sinistro scattò subito in quella direzione ma centrò in pieno un pilastro di mattoni.
Veruska fu colta dal terrore. Il braccio si ritrasse vistosamente danneggiato, ma il pilastro aveva subito un danno grave. Pesanti mattoni cominciarono a cadere dall'alto dove si era creata una frattura. Il massiccio sostegno strutturale si era piegato sotto il colpo e stava per cedere. Il carro ponte cadendo aveva urtato il pilastro adiacente lesionandolo. Dovendo ora sostenere del peso aggiuntivo, anche quello cominciò a cedere rapidamente.
Una mano piccola e forte la afferrò per il braccio, tirandola con decisione.
Maria!
Aveva con se il tubo metallico, impolverato e acciaccato.
La trascinò tra macchinari e attrezzature, guidandola con sicurezza verso una grande porta schiusa di poco. Era lo scivolo di carico del capannone, dove i camion venivano a caricare e scaricare. Sgattaiolarono via in fretta e furia dalla porta carrabile: alle loro spalle l'intera struttura stava scricchiolando. All'interno instancabile il minotauro si agitava nella sua furia cieca e distruttiva.
Mentre ancora correvano un tuono potente rotolò in un crescendo assordante dietro di loro. Veruska si voltò in tempo per vedere più della metà del grande edificio accartocciarsi su se stesso in un nube di polvere illuminata dall'interno dalle azzurre e gialle scariche elettriche dell'alta tensione in corto circuito. Il terreno tremò, le luci si spensero.
- Peccato... in fondo erano tutti dei bravi guaglioni – sospirò Maria, già domato il fiatone per la corsa fatta.
- Il Principe di Savoia sarà contento – disse poi agitando il tubo metallico.
Veruska obbedì un'ultima volta al suo istinto. Strappò il cilindro metallico dalle mani di Maria, lo usò per colpirla in viso più forte che poté e corse via come il vento, nel buio.
   
 
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