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Autore: Naco    23/03/2009    2 recensioni
Un incontro, assolutamente casuale. E la ruota del destino comincia inesorabilmente a girare.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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- Questa storia fa parte della serie 'Mara e i suoi amici'
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VIII

Anche quella mattina fu il telefono a svegliarmi. Dov’era finita la mia buona abitudine di spegnere quel dannato apparecchio la sera, prima di andare a dormire? Mi chiesi mentre arrancavo alla ricerca del cellulare.
“Pronto?”
“Mara, sei tu?”
Non riuscivo ancora a capire bene di chi fosse la voce, ma in un barlume di lucidità constatai che non poteva essere mia madre, visto che aveva usato il mio nome e non quello stupido appellativo.
“Sono Giovanna, dal giornale.”
Oh. Ecco chi era. Non l’avevo riconosciuta perché non avevo mai avuto l’onore di ricevere una telefonata dalla direttrice in persona.
“Sì. Buongiorno.”
“Ti ho svegliata? Scusami tanto, ma avevo bisogno di parlarti con urgenza.”
Parlare con me, che scrivevo racconti d’appendice e qualche articoletto senza pretese di cultura locale, ogni tanto?
“Cosa è successo?”
“Puoi passare dalla redazione il prima possibile? E’ troppo lungo da spiegare al telefono.”
Oddio. Cominciavo ad essere davvero preoccupata.
“Arrivo.” E chiusi senza neanche attendere la sua risposta.
Mi preparai così in fretta che, dieci minuti dopo, ero già per le scale e mi stavo fondando giù, troppo agitata per aspettare l’ascensore. Cosa poteva essere accaduto di così grave da richiedere la mia presenza? A giudicare dal timbro di voce della direttrice doveva essere successo qualcosa di piuttosto serio. Avevo commesso qualche errore? Ne dubitavo, visto che il mio apporto alla rivista era davvero minimo.
“Buongiorno, signorina.”
La voce di Marcello mi arrivò improvvisa e mi fermai di colpo. Mi voltai verso l’uomo per rispondere al saluto e notai che aveva in mano un sacchetto piuttosto grande.
“Ha fatto già spese?” chiesi, indicandolo.
Lui abbassò lo sguardo: “Ah, questo? Sono per mia moglie. Non si è sentita molto bene, ieri, e il medico le ha prescritto queste medicine.”
“Ma… non è niente di grave, vero?” chiesi, senza lasciarmi ingannare dal suo tono tranquillo.
“Sì. Non si preoccupi, signorina!”
Lo osservai ancora un po’, per convincermi che non mi stesse nascondendo nulla; poi, un po’ più tranquilla, gli sorrisi: “Sto andando al giornale.”
“Così presto?”
Alzai le spalle: “La direttrice ha detto che vuole vedermi. Non so neanche io il perché.”
“Allora vada senza preoccuparsi di niente.” Mi incoraggiò lui, sorridendomi ancora.
Quasi abbastanza rincuorata, ripresi la mia corsa verso la redazione, con il cuore che accelerava i battiti man mano che mi avvicinavo alla meta.
Arrivai trafelata e mi fermai un attimo sulla soglia per riprendere fiato; la segretaria accorse veloce al mio fianco, preoccupata. “Oddio, Mara! Stai bene?”
“Sì, sì. Sono solo venuta di corsa e non ho fatto neanche colazione.”
Lei sgranò gli occhi: “E’ successo qualcosa?”
“Non lo so. La direttrice…”
La porta si aprì proprio in quel momento e mi ritrovai la signora Giovanna davanti.
“Mio Dio, Mara, ma che hai combinato? Hai una faccia!”
“B… Buongiorno, signora. Mi ha detto di fare in fretta, così sono venuta qui il prima possibile.”
Rise: “Ma non c’era bisogno di ridurti in questo stato! Dai, entra. Lidia, per favore, potresti andare al bar a prenderle qualcosa?”
Mi accomodai in ufficio, mentre le due donne alle mie spalle decidevano quale sarebbe stata la mia colazione. Non me ne importava niente, francamente: tutte le mie ansie e le mie preoccupazioni si facevano più forti di minuto in minuto.
“Allora…” la direttrice si era seduta di fronte a me, al proprio posto. Non era una stanza grande, quella, a mala pena c’era la sua scrivania e due poltrone di fronte; però, quando quella donna si accomodava, tutto, in lei, trasmetteva l’autorevolezza che solo una persona carismatica poteva avere e, persino quelle quattro mura spoglie, sembravano assumere tutt’altra fisionomia.
“Cos’è successo?” la interruppi.
“Mara, calmati. Non è successo nulla di grave.”
“Ma se al telefono mi ha detto di fare il più in fretta possibile!”
“Oh, quello?” sghignazzò “Beh, sì, ammetto di essere stata un po’ criptica. Però volevo darti subito la notizia.”
“Quale notizia?”
La signora Giovanna non rispose, ma mi passò un foglio di carta, invitandomi a leggere. Man mano che i miei occhi scorrevano la lettera e tutto il peso di quelle parole raggiungeva il mio cervello, una parte di me si convinceva che era soltanto uno stupido scherzo. Perché, assolutamente, quello che c’era scritto lì sopra non poteva essere vero.
Alzai la testa; la donna mi guardava al settimo cielo.
“E’ uno scherzo.” Spiegai.
Lei ci rimase male. “Certo che no! Ho controllato personalmente: la casa editrice esiste veramente. Certo, è un po’ piccola, ma ho scoperto che è abbastanza conosciuta e che alcuni autori da loro pubblicati hanno raggiunto anche una certa notorietà.”
“Mi sta dicendo che sul serio qualcuno ha letto i miei racconti sul giornale e vuole pubblicarli in un volume che dovrebbe essere messo in vendita?”
“Beh, sì, Mara. Ai libri di solito questo succede. Hai presente, quei negozi chiamati librerie? Servono a questo.”
Continuai a fissarla incredula, ma lei era troppo raggiante per poter comprendere il mio scetticismo. “Ho già contattato la casa editrice, e mi hanno lasciato un numero telefonico per te, a cui chiamare per chiedere tutte le informazioni che desideri. Adesso, sta a te decidere.” E mi porse un pezzo di carta con un numero mai visto. “Prenditi pure tutto il tempo che vuoi.”
Rilessi almeno una decina di volte la lettera che avevo in mano. Neanche una settimana prima, un’altra casa editrice – la terza a cui avevo mandato un manoscritto – rifiutava il mio romanzo, senza darmi uno straccio di spiegazione sul perché di questa scelta; adesso, invece, un’altra mi chiedeva se volevo pubblicare i miei racconti presso di loro.
Avrei voluto dire subito di sì; avrei voluto tornare subito a casa e spulciare nel mio computer per trovare qualcosa di bello da poter inviare. Eppure, avevo paura. E se alla fine mi avessero rifiutato? Se avessero cambiato idea, oppure notato che si erano sbagliati? Ero sempre stata dell’idea che non bisogna mai arrendersi alla prima avversità e che tutte le strade andavano battute; ciò nonostante, adesso che il mio sogno rischiava di diventare realtà, la paura di non essere capace mi coglieva con forza.

La lezione era alle 12.30, eppure, quella mattina, arrivai in facoltà un’ora prima. Anche dopo aver messo finalmente qualcosa nello stomaco, non mi ero sentita affatto meglio, e così ero andata a lezione senza neanche passare da casa. E infatti fu soltanto quando mi trovai sul treno che mi resi conto di non avere né i libri né i miei quaderni, ma solo il block notes che portavo sempre con me. Per tutta la durata del viaggio, continuai a pensare a cosa avrei dovuto fare, senza che le due parti contrapposte del mio cervello si decidessero a trovare una soluzione comune.
In quel momento, avevo bisogno di parlare con Ilaria e chiederle un consiglio: era l’unica che fosse a conoscenza dei miei tentativi falliti, oltre a mia madre, ma, a differenza della mia genitrice, sapeva darmi dei consigli in proposito.
Quando invece arrivai davanti all’aula, ovviamente ancora occupata dalla lezione precedente, ad accogliermi ci fu solo Enrico, a capo chino.
Vederlo in quello stato mi fece male: lui era un ragazzo allegro e solare, sempre pronto a fare battute, magari un po’ troppo dirette, a volte, ma mai con il desiderio di ferire qualcuno volontariamente.
Allora, finalmente, il mio cervello si convinse a smetterla di litigare con se stesso per preoccuparsi di qualcosa di molto più urgente. Senza neanche chiamarlo, mi diressi verso il distributore di bevande per prendere una cioccolata calda per entrambi.
La folla che si riversava verso i distributori alla fine delle lezioni era sempre immensa, ma io non avevo fretta, così mi feci da parte e attesi che la coda si riducesse. Osservai i ragazzi, per la maggior parte della triennale, che discutevano di esami che io avevo già dato e mi ritrovai a sorridere: anche io, alla loro età, avevo discusso degli stessi argomenti con i miei amici, con la stessa passione e preoccupazione.
Poi, tra tanti visi giovani e ignoti, notai i capelli brizzolati e il volto maturo di un uomo sulla cinquantina; lui si accorse di me e mi venne incontro, affabile.
“Sbaglio, o lei è la ragazza che l’altro giorno era con Hiroshi?” mi chiese.
“Sì. Buongiorno, professore. Sono Mara Facchetti.”
Lui annuì pensieroso; poi si guardò intorno e si avvicinò a me. “Le spiace se parliamo un po’?”
Ci avvicinammo alla finestra che dava sul cortile interno; accese una sigaretta e iniziò a fumare, forse per legittimare la nostra presenza lì: chiunque ci avesse visto, ci avrebbe potuto prendere benissimo per un’allieva che chiedeva consigli al suo docente, magari per la tesi; tuttavia, nessuno parve fare caso a noi.
“Io… so che non dovrei farlo.” Cominciò. Come premessa, non era molto felice. “Però ho sentito delle voci, in giro. Sa com’è, la facoltà è piccola e Hiroshi non è certo un ragazzo che passa inosservato.”
Capivo perfettamente. L’avevo sperimentata io stessa quella sensazione, stando accanto a lui.
“Ho saputo che è venuto a cercarla qui in ateneo.”
“Voleva solo ringraziarmi per averlo condotto da lei.” Misi le mani avanti, prima che iniziasse a sospettare qualcosa che non c’era.
“Non si preoccupi, non voglio indagare sul perché sia venuto. Hiroshi è abbastanza grande da decidere da solo della sua vita privata e io sono l’ultima persona che potrebbe dargli dei consigli. Intendevo… senza girarci intorno, lei sa che questo luogo non è esattamente adatto per lui, presumo.”
Oh. Lui credeva che io sapessi. E non poteva certo sapere che io, in verità, non avrei dovuto. Mi stava venendo mal di testa.
Feci cenno di sì con la testa, impercettibilmente.
“Lui non ci pensa, perché è convinto che qui in Italia nessuno lo conosca. Forse ha ragione, ma sono preoccupato ugualmente. Oltretutto, essendo, diciamo, particolare, attira comunque l’attenzione, che si sappia chi sia o meno.
“Insomma, diciamo pure che l’ateneo è l’ultimo posto in cui verrebbe di sua spontanea volontà, e non solo perché qui potrebbe incontrare me.”
C’era un che di amaro, nella sua voce, che colsi subito.
“Sì, ma non capisco…”
“Quel che intendo dire è che, se è venuto qui, di sua spontanea volontà, significa che lei per lui significa qualcosa: vi hanno visti anche in giro ieri sera, quindi tra voi due un legame di qualche tipo c’è.”
“Beh, non è che ci conosciamo così bene…”
“Non importa. Hiroshi è venuto qui per lei ed è uscito con lei. Lui non esce mai con ragazze, qui in Italia; quindi significa che, in un certo senso, tiene a lei.”
“Secondo me, ti telefonerà per sapere se sei tornata a casa sana e salva.”
Le parole di Luca continuavano a tormentarmi, ma in quel momento io le ricacciai indietro.
“Ed è per questo che posso chiederlo soltanto a lei.”
“Chiedermi cosa?”
“La prego” questa volta, il professore mi guardò dritto negli occhi “Benedetta ama suo figlio. Certo, so che ha sbagliato, e io ho sbagliato a portarla indietro nonostante avesse un bambino di cui occuparsi. Ma allora io ero un giovane innamorato e lei aveva così tanto bisogno di tornare a casa… la prego.” La persona che in quel momento mi stava parlando non era il professore che mi aveva verbalizzato l’esame sul libretto, ma un uomo come tanti, innamorato di una donna e preoccupato per lei “… lo convinca a parlare con sua madre. Lo convinca a perdonarla. Lei sa che ha sbagliato e si strugge di dolore. Ogni notte la sento piangere e non so come aiutarla. Ci provi, per favore.”
Non sapevo cosa dirgli. Come potevo spiegargli che non potevo aiutarlo perché io, Hiroshi, lo capivo? Che anche mia madre non aveva mai pensato a me e a mio padre, ma solo alla sua attività? Che ci lasciava per giorni, perché doveva preparare l’abito per questo o quella attrice? Che, quando mio padre si era sentito male, ero stata io a chiamare l’ambulanza ed ero rimasta con lui da sola, senza sapere bene cosa fare? Che erano stati gli zii, il giorno dopo, a venirlo a trovare in ospedale e non lei, che era irreperibile? Come potevo aiutarla, io?
“Io… non credo che ce la farei, professore. Lo conosco così poco…”
“Ascolti. Se riuscisse anche soltanto a convincerlo a incontrarla, sarebbe già tanto. Le chiedo solo di provarci.”
La fila al distributore si era finalmente diradata e anche il professore, con un cenno del capo, si allontanò verso le scale.

Quando tornai da Enrico, con i due bicchieri di cioccolata calda, lo trovai nella stessa posizione in cui lo avevo lasciato. Lo raggiunsi e gli misi la bevanda davanti, in modo che potesse vederla anche da quella posizione.
“Un po’ di zucchero fa sempre bene.” Lo salutai.
Enrico alzò la testa e prese la bevanda, annuendo a mo’ di ringraziamento. Mi accomodai accanto a lui, bevendo la mia a piccoli sorsi.
“Non è venuto.”
Non c’era bisogno di esplicitare il soggetto.
Guardai l’orologio: “Beh, Enrico, è ancora presto. Vedrai che arriverà.”
“Stamattina avevamo un’altra lezione e né tu né lui vi siete fatti vivi. Credevo che anche tu ce l’avessi con me.”
Oh. Mi ero così preoccupata per la chiamata della signora Giovanna che me ne ero completamente dimenticata.
“E Ilaria?”
“C’è, ma è andata in segreteria a fare non ho capito cosa. Mi ha chiesto di accompagnarla, ma non ne avevo voglia.”
Accidenti.
“Mara, ti chiedo scusa.” La veemenza con cui si voltò verso di me mi fece quasi perdere l’equilibrio “Sì, insomma, per come mi sono comportato ieri. Non è vero che sei noiosa.”
“No, Enrico, non ti preoccupare. Hai ragione, invece.” Era un rimprovero che anche mia madre mi aveva sempre fatto, quello, ma io a lei non avevo mai dato retta. Sentito da un amico, come sempre, assumeva un significato profondamente diverso. “Non è a me che devi chiedere scusa.”
“Lo so. E’ solo che… ho paura.”
Lo guardai sconcertata: “Hai paura? Di Luca?”
“Beh, sì. Probabilmente adesso lui mi odia e non riuscirei a sopportarlo.”
C’era un significato particolare in quelle parole che però non ero sicura fosse quello giusto; o forse, era semplicemente lui a non averlo notato.
“Ma no che non ti odia, anzi, è esattamente il contrario. E’ lui che pensa che tu lo odi.”
“E perché scusa? Perché è come me?”
“Magari perché non ti ha mai detto niente. O perché ti ha dato dell’idiota. O magari per tutte e due le cose.”
“Che io sia stato uno stupido, lo penso anche io, in questo momento.”
“Lo pensiamo un po’ tutti, veramente.” Scherzai.
“Ma pensa sul serio che potrei odiarlo? E’ un mio amico, cavolo! Posso capirlo benissimo: anche io ci ho messo del tempo prima di accettare la mia diversità; poi, quando mi sono reso conto che non c’era nulla di male, sono riuscito anche ad ammetterlo di fronte agli altri e mi sono sentito libero di essere me stesso.”
Era la prima volta che Enrico si apriva in questo modo con me, e ne rimasi sorpresa.
“Perché non le dici anche a lui queste cose?”
“E tu credi che mi darà ascolto?”
“Sì, se gli parlerai con il cuore.”
Scosse la testa: “La fai troppo facile, tu.”
“E’ facile. Te lo garantisco.”
Era facile, sì. Perché in quel momento, bastava chiudere il cervello e lasciare che fosse il cuore a parlare. E il cuore dell’altro avrebbe capito. Un po’ come quando, leggendo le opinioni altrui su un romanzo, ti trovi a pensare che anche tu le hai provate, quelle sensazioni, e che, allora, l’autore era davvero riuscito a trasmettere al lettore quello che voleva dire.
Anche per la signora Benedetta doveva essere la stessa cosa, pensai. Lo avevo avvertito io stessa, quel giorno; me l’avevano detto i suoi occhi, lo avevo sentito dalla sua voce rotta dall’emozione. Le serviva solo un’occasione, quella giusta, per poter esprimere quello che aveva dentro. E il cuore di Hiroshi, lo sapevo, l’avrebbe sicuramente ascoltata.
“Enrico, mi scusi un attimo? Vado un attimo via, torno subito!”
Lui annuì meccanicamente, anche se non ero sicura che avesse sentito davvero. Non aveva importanza: anche lui aveva bisogno di stare un po’ da solo per riflettere su quello che provava veramente, mi resi conto mentre mi dirigevo verso le scale che conducevano al primo piano.
   
 
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