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Autore: giambo    29/02/2016    6 recensioni
In un universo alternativo, privo di saiyan e scimmioni vari, come sarebbe stata accolta la nascita di Goku da parte del suo (poco) socievole padre e dei suoi (poco) simpatici compagni?
Genere: Commedia, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bardack, Goku, Radish, Seripa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Note dell'autore:

 

Allora, parto subito con il dire che erano anni che avevo questo progetto in testa, ma che solo nelle ultime settimane ho potuto realizzarlo. È una storia un po' strana, in cui ho usato personaggi con cui non ho una grande dimestichezza, ma spero che il risultato sia comunque gradevole da leggere.

Ho usato il nome Goku, e non Kakaroth, in questa storia più che altro per comodità (che nome sarebbe, in un mondo reale, Kakaroth? Neanche Freezer sarebbe così crudele da appioppare ad un'innocente creatura un simile nome). Quindi, nonostante tutti gli altri saiyan avranno i loro nomi originali, per Goku ho fatto un'eccezione.

Riguardo il personaggio di Gine, invece, dico subito che non è di mia invenzione, ma che appartiene a Toriyama. In uno special di un paio di anni fa, infatti, l'autore di Dragon Ball disegnò una mini storia, che parlava proprio dei genitori di Radish e Goku, tra cui la loro madre, una saiyan di nome Gine. Non mi dilungherò su quale sia la storia di questa saiyan (non è il momento), basti sapere che è facile da trovare in internet la loro storia, e che fu da lei che Goku ereditò il proprio carattere dolce e gentile.

Bene, ed ora ho proprio finito. Come sempre, ricordo che qualsiasi recensione, sia positiva che negativa, è ben accetta.

Un saluto! E buona lettura!

Giambo

 

 

 

Saiyan's Family

 

 

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Panbuukin sbadigliò profondamente, seduto comodamente sul suo divano, mentre rimestava con una mano in un sacchetto di patatine. Quello era il momento della giornata che adorava di più, ed aveva tutta l'intenzione di goderselo fino in fondo: le due ore scarse che dividevano la fine del suo turno di lavoro con la cena.

Con sguardo annoiato, l'imponente uomo cominciò uno zapping frenetico, zigzagando tra programmi di vario genere, mentre si riempiva la bocca di schifezze salate. Nonostante non ci fosse un solo programma decente in televisione, Panbuukin era estasiato, come sempre, nel vedere l'altissima definizione del proprio schermo, uno degli ultimissimi modelli messi in vendita. Normalmente, munirsi di un simile gioiellino, grande più o meno come l'intera parete del suo salotto, gli sarebbe costato l'equivalente di tre stipendi, ma la generosità, anche se un po' riluttante, in verità molto riluttante ma lui li aveva presi per sfinimento, facendoli infine capitolare, dei suoi amici aveva voluto che diventasse il regalo per festeggiare il suo ventottesimo compleanno, appena un mesetto prima. Da allora, guardare la televisione era diventato un vero e proprio piacere, anche nel caso di un documentario sulla stagione riproduttiva delle scimmie del Borneo.

Questa è vita! pensò, mentre sprofondava ancora di più sul divano sfondato. Avrebbe dovuto cambiare anche quello, ma non c'era fretta. Poteva sempre chiedere un divano nuovo ai suoi amici per il prossimo compleanno.

In quell'istante però, proprio mentre pensava di gustarsi qualche video vietato ai minori sul suo schermo gigante, il telefono squillò. Trattenendo a stento un'imprecazione, il corpulento moro si alzò, una vena che pulsava pericolosamente sulla tempia. Lo sapevano tutti che in quelle ore della giornata non dovevano azzardarsi a disturbarlo, pena una scarica di insulti, cazzotti e calci che avrebbe scandalizzato un camionista.

La sua irritazione non fece che aumentare quando vide sul display del cellulare il nome di quel bellimbusto di Toma. Preparandosi già la sfilza di insulti da riversare contro il fastidioso scocciatore, Panbuukin aprì la conversazione schiacciando con malagrazia lo schermo del proprio dispositivo, già pronto a fare sfoggio di tutto il proprio repertorio contro l'amico.

“Cosa vuoi?” ringhiò prima ancora che l'altro potesse fiatare. “Sappi che qualsiasi cosa dirai, la risposta sarà no!”

“Vedo che anche oggi il tuo buon umore non si è minimamente scalfito.” constatò la voce dall'altra parte.

Un ringhio di pura rabbia risalì dalla gola dell'uomo, mentre i suoi baffi vibravano, quasi attendessero il momento il cui sarebbe scoppiato definitivamente.

“Ascoltami bene, razza di scocciatore della peggior specie. Se entro tre secondi non mi dici cosa diavolo vuoi, giuro che ti ammazzo nella maniera più dolorosa che conosco!”

Il tono della voce di Toma non si scompose minimamente.

“Mi serve un passaggio... ora, riesci a darmelo?”

“Ah! Lo sapevo che sei sempre il solito scroccone! E mi spieghi perché non usi il tuo mezzo di locomozione?”

“Sai cosa significa mezzo di locomozione? Sono commosso...”

“Ti ammazzo.”

“L'hai già detto.”

“Ciò non toglie che lo farò, prima o poi.”

Udì l'amico ridacchiare. Sentendosi preso per il culo, fece per chiudere la conversazione, quando l'altro, forse capendo di star tirando troppo la corda, gli spiegò la situazione. Panbuukin strabuzzò gli occhi, mentre le patatine che aveva appena mangiato presero a ballargli nello stomaco.

“Come... adesso?! Credevo che prima di un paio di settimane non sarebbe accaduto nulla!”

“Se aspetti che il marmocchio attenda i tuoi comodi, stai fresco!”

“D'accordo, razza di scocciatore! Verrò, anche se non capisco perché tocca a me portare il tuo schifoso culo in giro per la città.”

“Perché Seripa è ad allenarsi, quindi attualmente sono appiedato.”

“Questa storia la sento un po' troppo spesso per i miei gusti.” borbottò l'altro, mentre cominciava già a mettersi qualcosa di decente addosso con l'unica mano libera che aveva al momento. “Appena riesco ad infilarmi un paio di pantaloni ti passo a prendere.”

“Sei un amico.”

“Ovviamente mi ripagherai il favore offrendomi qualcosa da mangiare alla prima occasione.” sentì uno sbuffo irritato dall'altra parte della linea e la cosa gli procurò una malsana sensazione di piacere: quello stronzetto di Toma era anche troppo scroccone per i suoi gusti.

“A proposito, immagino che Bardack sia già lì. Hai provato a sentirlo?” aggiunse dopo, sperando che, almeno questa volta, l'amico scegliesse di comportarsi con un atteggiamento più maturo di quello di un arrogante bimbetto di sette anni.

Toma sospirò, dando vita ai peggiori sospetti di Panbuukin.

“Purtroppo non risponde al telefono. Adesso proverò a chiamare Toteppo, magari lui ne sa di più.”

Il corpulento moro sospirò, grattandosi la nuca, mentre indossava la giacca, pronto per uscire di casa.

“Che dici, stavolta riusciamo a farlo ragionare?”

 

 

Pugno, parata, calcio, pugno, presa, calcio, pugno.

Seripa tenne la guardia alzata, mentre un immaginario avversario tentava di afferrarla al collo. Parò il colpo, usando subito dopo una presa di judo per stenderlo a terra. Senza perdere tempo, usò la gamba sinistra per sferrare una mossa di Taekwondo dietro di sé, colpendo dritta al petto un secondo nemico. Infine, per concludere, effettuò una complicata combinazione di mosse di braccia: un misto tra box, karaté, e jiu jitsu dall'elevato coefficiente tecnico, ma tremendamente efficace, contro un enorme sacco in fondo alla parete. Il risultato fu che, al termine dell'allenamento, il sacco si ruppe, inondando di sabbia il pavimento della palestra.

La donna si asciugò il sudore della fronte con un braccio, mentre recuperava fiato. Nel silenzio della sala, si udì il solitario applauso di un uomo.

“Impressionante, come sempre del resto.”

“Tieniti le lusinghe per altri.” replicò prontamente Seripa, cominciando ad uscire dalla sala. “Diventi patetico così, Zarbon.”

L'altro non replicò, limitandosi a sorridere mentre la mora gli passava davanti, senza degnarlo di uno sguardo.

“Mi domando perché non partecipi più a qualche competizione. Una con le tue capacità fisiche e tecniche potrebbe vincere qualsiasi tipologia d'incontro.” aggiunse l'uomo, un tono mellifluo tra le labbra.

“Non mi piace perdere tempo con quelle garette da due soldi.” replicò lei, cominciando ad asciugarsi il sudore con un asciugamano, mentre rivolgeva il proprio sguardo al telefono. Il suo dispositivo segnalava ben tre chiamate perse da parte di quel buono a nulla del suo compagno. Nonostante constatare, per l'ennesima volta, che Toma possedesse l'autosufficienza di un bambino di tre anni fosse frustante, almeno aveva una scusa per non perdere tempo con quel bellimbusto di Zarbon, campione di arti marziali miste che si allenava nella sua stessa palestra, per non parlare di quel cerebroleso di Dodoria, che lo seguiva sempre come un cagnolino. In quel preciso istante, quasi gli leggesse nel pensiero, Toma richiamò.

“Pronto?” esordì, con voce monocorde, una volta nello spogliatoio femminile.

“Ehilà! Com'è andato l'allenamento?” proruppe la voce allegra del suo compagno dall'altra parte.

“E' andato come sempre. Che cosa vuoi?” replicò la mora.

“Zarbon cosa ha detto stasera? Si è prodigato in qualche altro insulto?”

“Niente di nuovo da parte del damerino. Cosa vuoi?”

“Beh, ecco...” Toma sembrò andare un attimo in difficoltà, con somma irritazione della compagna.

“E piantala di tergiversare! Digli le cose, e soprattutto smettila di dirmi che devo andare piano!” la giovane donna poté udire, in sottofondo, la voce irritata di quel bestione di Panbuukin. Comprese che, se quel ciccione si era mosso durante la sua sacra pausa prima di cena, qualcosa di grosso bolliva in pentola.

“Insomma, mi volete dire cosa diavolo state combinando voi due?” dichiarò, leggermente esasperata dal livello intellettivo estremamente basso del compagno.

“Gine è all'ospedale.” fu infine la secca frase di Toma, che evidentemente aveva deciso di mandare a quel paese la delicatezza ed il tatto. “Ha cominciato ad avere le prime doglie un'oretta fa circa.”

Seripa strabuzzò gli occhi, domandandosi come diavolo faceva quell'imbecille del suo uomo ad essere così serafico in un momento come quello.

“E me lo dici così?! Su due piedi?! Ma un pizzico di tatto mai, eh?!”

“Ma se sei stata tu a dirmi di non tergiversare!”

“A volte mi domando cosa ti passi in quella testa capelluta.” replicò la donna. “Mi auguro che Bardack sia all'ospedale.”

“Beh...” l'esitazione nel tono di Toma le fece capire che quel buzzurro sociopatico del loro amico ne stava combinando un'altra delle sue.

“Cioè, fatemi capire: sua moglie sta partorendo in ospedale il suo secondogenito, e quel mentecatto pompato non è lì con lei?!” la voce di Seripa aveva assunto un'inquietante somiglianza con quella di un lupo affamato.

“Tesoro, cerca di stare calma...”

“Non azzardarti a chiamarmi Tesoro, e soprattutto non osare dirmi che devo stare calma!” la voce della mora ormai era un ringhio pressoché continuo ed inarrestabile. Toma sapeva che, in quelle condizioni, l'unico modo per sopravvivere alla sua furia era quello di starle alla larga, un centinaio di miglia come minimo.

“Chi c'è lì con Gine, ora?!” abbaiò subito dopo la donna. Causando un dolore indicibile all'orecchio del fidanzato.

“Toteppo... è stato lui a dirci che Bardack non si è ancora fatto vivo. Noi lo stiamo raggiungendo.” rispose il moro, massaggiandosi il padiglione dell'orecchio con una smorfia.

“Toteppo?! Quella sottospecie di gorilla è l'unico conforto che ha Gine?!” il tono di guardia era stato superato, o per meglio dire disintegrato, ormai da parecchio, e Seripa non era altro che un ammasso concentrato di muscoli, rabbia e voglia di sangue: quello di Bardack per l'esattezza.

“Dimmi che sai dove si trova quel bastardo misantropo.” esordì subito dopo, il tono di voce diventato incredibilmente calmo, fin troppo. Toma ebbe paura: avrebbe di gran lunga preferito continuare a sentirla urlare. Quella fase della rabbia di lei non aveva la più pallida idea di come interpretarla.

“Ehm... Toteppo ci ha detto che, molto probabilmente, dovrebbe essere in ufficio... insieme a Radish.”

“Bene.” replicò subito la mora, mettendosi in spalla lo zaino, ed uscendo dallo spogliatoio senza neanche cambiarsi. “Vado, lo ammazzo e poi arrivo in ospedale anch'io.”

“Ehm... sei sicura che vuoi andare? Forse non è il caso...” provò a mediare l'uomo.

“Vaffanculo.” fu la secca risposta di lei, mentre rispondeva al saluto di Zarbon con il dito medio della mano libera. “Se non hai le palle di ricordare a quel sociopatico i suoi doveri, allora toccherà a me farlo.” e senza aspettare la risposta del compagno, mise giù, uscendo dalla palestra a passo di marcia.

Toma ripose il cellulare nella tasca, con la sgradevole sensazione di aver appena condannato il suo migliore amico a morte certa.

“Allora? Che ti ha detto?” chiese Panbuukin, mentre sfrecciava per le strade ad una velocità che definire irregolare sarebbe stato un vergognoso eufemismo.

“Che va a recuperare Bardack e poi arriva in ospedale.” fu la secca risposta dell'amico, mentre riprendeva a sudare freddo a causa dello zigzagare tra le auto del corpulento moro.

“Allora è spacciato. Direi che possiamo tranquillamente affermare che Gine è vedova.” fu la serafica risposta dell'altro.

Vorrei evitare di lasciare anche Seripa vedova. Pensò Toma, mentre l'amico imprecava contro coloro che osavano suonargli contro, a causa della sua 'leggerissima' velocità oltre il limite.

 

 

Nella stanza si udì distintamente il cupo rombare di qualcosa di profondo, come se un vulcano stesse risvegliandosi dopo lungo tempo. Il brontolio risalì lentamente verso l'alto, dove uscì infine sotto forma di un ringhio inumano.

Radish fissò di sottecchi il suo vecchio, osservando con indifferenza il mosaico di nervi e vene che si stagliava nitido sulla fronte di quest'ultimo. Il bambino sbadigliò, domandandosi quando quello strazio avrebbe avuto fine. Ormai erano ore che si trovava lì, seduto su quella sedia, ad annoiarsi a morte. Aveva provato a fare qualcosa, ma non appena osava muovere un muscolo, suo padre gli lanciava un'occhiata che, e di questo era sicuro, neanche il peggiore mostro che riusciva ad immaginare sarebbe stato capace. Comprendendo che quel pomeriggio il suo vecchio non era di buon umore, Radish si era messo buono buono seduto, pronto però a spifferare ogni cosa a sua madre non appena fossero tornati a casa.

“Ti ho sentito lamentarti!” sbottò in quel preciso istante Bardack, gli occhi fissi sullo schermo del computer, nel tentativo di decifrare quell'ammasso di numeri, calcoli e lettere che gli si accavallavano nella mente, in un turbinio confuso.

“Ho sbadigliato!” si difese il bambino, grattandosi la folta chioma di capelli. “E poi ho fame! Non potresti sganciarmi qualche soldo per le macchinette?”

“Non ho spiccioli!” ringhiò l'uomo, mentre il desiderio di buttare fuori dalla finestra quell'arnese infernale che aveva sotto gli occhi si faceva sempre più forte.

Radish non replicò, limitandosi a borbottare un “vecchio taccagno!” che fece ingolfare il sistema nervoso di Bardack. Quest'ultimo ingoiò insulti a divinità varie ed eventuali, non fosse altro per evitare che il figlio assumesse il linguaggio di uno scaricatore di porto alla tenera età di cinque anni.

Brutto pidocchio ingrato... pensò, mentre le sue dita fremevano dalla voglia di riempire di scappellotti il moccioso. Tuttavia, sapendo che in quello stato d'animo lo avrebbe finito per ammazzare di botte, preferì ingoiare anche quella, annotandola nella ormai chilometrica lista mentale dei motivi da far pagare a quel piccolo bastardo. Alla fine, preferendo un'ammaccatura sul tavolo che un'accusa di omicidio colposo, Bardack sfogò la propria rabbia contro il mobile, battendo più volte il pugno, il tutto sotto lo sguardo serafico del bambino, ormai avvezzo alle lotte del suo vecchio contro il suo peggior nemico: il computer.

“Maledetto aggeggio infernale!” abbaiò sottovoce, mentre le vene sulla sua fronte diventavano sempre più nitide.

“Vuoi che ti dia una mano, pà?” si offrì Radish, sperando così di poter tornare a casa prima.

Bardack gli lanciò un'occhiata che definire disgustata sarebbe stato estremamente riduttivo. Lui che si faceva aiutare da quel microbo bastardo di suo figlio? Avrebbe preferito una castrazione chimica piuttosto che dare a quel moccioso la soddisfazione di saperne più di lui su qualcosa.

“No!” abbaiò, mentre riprendeva a cliccare tasti a caso sulla tastiera, nella speranza che qualcosa accadesse. “E' tutto sotto controllo.”

“Mi spieghi perché hai voluto portarmi in ufficio con te di sabato pomeriggio?” chiese, sbadigliando spudoratamente, Radish. “Di solito non lavori oggi.”

“Beh, stavolta sì!” replicò sulla difensiva l'uomo, chiedendosi da quando un bambino di appena cinque anni fosse così intelligente e sveglio.

Il figlio lo fissò di sottecchi per circa un minuto, per poi grattarsi le cavità nasali senza alcun ritegno.

“E' per via della pancia della mamma?” chiese, cercando, senza riuscirci molto, di nascondere la sua preoccupazione.

Bardack non rispose subito. Cercò di escogitare un piano di difesa, colpito sul vivo, mentre suo figlio lo fissava, continuando a scaccolarsi.

“Certo che no!” rispose infine, sperando di riuscire a sviarlo con poco. “Da dove l'hai tirata fuori questa?”

“Prima parlavi della mamma con zio Toteppo al telefono.” replicò il bambino, ammirando il risultato del suo scavo con enorme soddisfazione personale. Il tutto mentre Bardack si domandava quale razza di divinità fosse stata così crudele da affibbiargli un simile ficcanaso come figlio. Se alla tenera età di cinque anni era così, il moro non osava pensare come sarebbe diventato crescendo.

La verità era che Bardack non voleva andare all'ospedale. Odiava ammetterlo, e probabilmente lo avrebbe negato fino alla morte, ma riteneva che lui non fosse portato per quelle cose. Quando era nato Radish, cinque anni prima, l'uomo si era sentito inutile, scaraventato da destra a sinistra, mentre i medici assistevano sua moglie, trattandolo come un demente ritardato. Poi, alla fine di tutto, avevano preteso di ficcargli in braccio quel fagottino maleodorante ed urlante, aspettandosi che sorridesse come un ebete, quando invece sapeva benissimo che, con l'arrivo di quel mostriciattolo, la sua vita era appena giunta al termine.

No, Bardack non sarebbe andato all'ospedale. Sia perché l'idea di avere un altro satanasso in miniatura tra i piedi gli faceva venire i sudori freddi, sia perché non voleva ripetere l'orribile esperienza dell'altra volta. Sua moglie sarebbe stata bene, o almeno continuava a ripeterselo, e in quanto al bambino che stava arrivando...beh, aveva tutta una vita davanti per sopportarlo. Il suo orgoglio, o quello che ne restava dato che ormai erano frequenti le volte che doveva ingoiarlo per far contento quella pulce di Radish, aveva una sua importanza, e non aveva nessuna intenzione di perderlo definitivamente.

Così, per evitare tentazioni, quel giorno aveva portato Toteppo e Gine all'ospedale, aveva scaricato l'amico e la moglie con la grazia di un camionista, ed era tornato a casa a recuperare Radish, ancora a letto per il pisolino pomeridiano, chiudendolo in ufficio e tornando ad occuparsi della cosa che odiava di più dopo darla vinta a suo figlio: il lavoro al computer.

Si era sempre domandato cosa ci fosse di sbagliato nel lavoro che aveva prima. Magari non intascava moltissimo, ma almeno gli piaceva, gli dava soddisfazione, lo rendeva un uomo. Ora invece aveva anche uno stipendio quasi raddoppiato, per la gioia di quell'esoso di suo figlio, ma ogni giorno era una lotta frustrante contro il suo acerrimo nemico. Quell'aggeggio infernale sfuggiva da ogni sua logica, e non erano rare le volte che, in preda alla disperazione, ingoiava l'orgoglio per chiamare Toma o Panbuukin, molto più esperti di lui in informatica. Ormai erano quasi quattro anni che lavorava lì, eppure ancora certe cose non era riuscito a digerirle, scatenando in lui pericolose crisi isteriche, tipo quella di cui era preda in quegli istanti.

“Non stavo parlando della mamma. Lei è a casa.” mentì spudoratamente. Radish preferì non indagare oltre, anche perché ormai aveva parecchia fame. Decidendo di muoversi, in barba agli ordini del suo vecchio, il bambino capelluto si diresse verso la giacca di suo padre, cominciando a frugare nelle tasche dell'abito.

“Ed adesso cosa diavolo stai combinando?!” sbraitò l'uomo, fissando con orrore le dita del bambino, ancora sporche di caccole, impregnargli le tasche.

“Ho fame. Vedo se hai degli spiccioli.” rispose tranquillamente il piccoletto, senza interrompere la sua ricerca.

Bardack non disse nulla, il cervello completamente ingrippato. Il suo istinto gli suggeriva di alzarsi e di non far toccare terra a quel piccolo pidocchio bastardo a suon di calci nel sedere. Mentre il sangue gli ingrossava le vene del collo, facendolo assomigliare ad un toro pronto a partire alla carica, la porta del suo ufficio si aprì di botto, facendo entrare, con suo sommo orrore, Seripa.

Deglutendo vistosamente, il moro si trattenne dall'assalire il figlio. Anche quest'ultimo si fermò, osservando, con un sorrisetto sul volto, la figura familiare della zia acquisita.

“Zia Seripa!” dichiarò il bambino, correndole incontro. Quest'ultima, ancora vestita con pantaloncini corti e maglietta senza maniche, rivolse un sorriso al piccoletto, accarezzando la sua lunga e folta chioma.

“Ehi, Radish!” lo salutò la donna. “Dimmi un po', conosci delle parolacce?”

Il bambino sollevò il mento con fare fiero.

“So dire brutto babbeo.” rispose, gustandosi l'eccitazione di dire quella parola proibita.

“Allora ti consiglio di uscire.” proseguì la mora, fissando con fare non propriamente amichevole Bardack. “Perché ora ne devo dire parecchie al papà.”

“Hai qualche monetina, zia?” chiese subito il bambino, speranzoso. “Il mio vecchio dice che non ha spiccioli, ma io non gli credo.”

Sotto lo sguardo accusatore di Seripa, il moro non poté fare altro che incassare, annotandosi di fargliela pagare anche questa a quel piccolo approfittatore.

“Il portafoglio è nella tasca superiore destra.” dichiarò con voce sofferente, quasi gli costasse tantissimo darla vinta a Radish, cosa che era vera in effetti. Pregustandosi tutte le schifezze che si sarebbe potuto prendere con l'intero portafoglio del suo vecchio, il bambino uscì dall'ufficio, con aria odiosamente soddisfatta.

Una volta uscito, nella stanza cadde il silenzio. Bardack tornò a fissare l'ammasso confuso di cifre e lettere sullo schermo del pc, sapendo benissimo cosa volesse da lui la migliore amica di sua moglie.

“Alza il culo e vestiti!” fu il comando perentorio di quest'ultima.

L'uomo preferì non dire nulla, digrignando i denti, e stringendo i pugni. Sapeva bene come sarebbe andata a finire, ormai conosceva Seripa da troppi anni per sperare di cavarsela, ma il suo orgoglio di uomo gli ordinava di resistere, di non calare i pantaloni davanti a quella furia in gonnella.

“Non mi hai sentito?” dichiarò con voce ringhiosa la mora, le mani che prudevano dalla tentazione di prendere a schiaffi quell'imbecille misantropo. “Muovi quel culo e vieni con me all'ospedale!”

“No!” ribatté Bardack, in un ultimo, disperato tentativo di resistenza. “Ho da fare.” mentì spudoratamente, incrociando le braccia.

Emettendo un versaccio esasperato, Seripa avanzò con fare deciso, piantando i propri occhi neri, screziati di viola, a pochi centimetri da quelli dell'uomo.

“Adesso stammi a sentire, razza di imbecille senza cervello!” abbaiò la donna, le mani che si contraevano dalla voglia di picchiarlo. “Tu verrai con me, con le buone o con le cattive, ed assisterai tua moglie mentre ti regala un altro bellissimo bambino! Mi sono spiegata?”

Dire che Bardack stesse per esplodere sarebbe stato riduttivo. Emettendo un ringhio pari a quello di una toro in calore, l'uomo digrignò i denti, le vene del collo in procinto di scoppiare. L'idea di essere costretto a ripete l'esperienza dell'altra volta gli piaceva quanto farsi grattare i genitali da un gatto, ma anche i pugni di Seripa erano un valido argomento di persuasione.

“Allora? Vuoi alzarti? O devo prenderti per un orecchio come si fa con i bambini, brutto buzzurro?!” rincarò la dose quest'ultima.

Alla fine, odiando il mondo e qualsiasi divinità presente in esso, Bardack cedette. Maledicendo qualsiasi cosa il suo sguardo incontrasse, il moro si alzò, afferrando la sua giacca con la grazia di un bufalo, ed infilandosela con la stessa delicatezza.

“Ero sicura di riuscire a farti ragionare.” esordì la mora, fissandolo con un sorrisetto beffardo sulle labbra.

“Ti ammazzo.” ringhiò lui.

“Me lo dici così tante volte che ormai dubito che possa essere una minaccia concreta.”

“Un giorno lo farò!” borbottò l'uomo, uscendo dall'ufficio, dopo aver spento con un pugno il suo computer.

Poi, una volta fuori, impallidì nel vedere quante merendine Radish era riuscito a comprare nell'arco di poco più di un minuto.

Brutto figlio di...

 

 

Una volta arrivato in ospedale, con Seripa dietro di lui, neanche fosse un secondino, Bardack vide i propri amici di una vita seduti in corridoio, fuori dalla sala parto.

“Ah, vedo che c'è l'avete fatta!” esclamò Toma, salutando l'amico con una mano.

“Vai al diavolo te e la tua donna!” fu la secca replica dell'altro, sedendosi distante da tutti, in preda ad una rabbia cosmica contro l'universo intero.

“Ciao, zio Toma!” dichiarò Radish, pappandosi la terza barretta al cioccolato della giornata, le dita unte di caramello ed altre sostanze appiccicose. “Come stai?”

“Bene, campione!” replicò l'uomo, arruffandogli la chioma con una mano. Anche Panbuukin e Toteppo salutarono il piccolo, in qualità di zii acquisiti, dando vita ad una scena così sdolcinata che Bardack fu certo di ammalarsi di diabete da un momento all'altro.

“Bell'amico che sei!” berciò in direzione di Toteppo, il quale, stringendosi nelle spalle, dichiarò che non gli avevano lasciato molta scelta a riguardo.

Il padre di Radish emise un verso dalla gola simile a quello di un bufalo spazientito, preferendo non aggiungere altro. Anche perché il solo vedere coloro che si definivano suoi amici attorniare e viziare quel concentrato di capelli e malvagità di suo figlio gli faceva venire l'itterizia.

Bardack e Toma erano amici fin dall'infanzia. Avevano fatto le elementari e le medie insieme, diventando inseparabili. Il primo era un concentrato di bastardaggine pura, capace di far venire i capelli bianchi anche all'insegnante più severo, mentre il secondo era il classico belloccio svogliato, che contava più sul caso che sullo studio per andare avanti.

A partire dal liceo, a questo duo si erano aggiunti Panbbukin e Toteppo, dando vita al quartetto più folle e rompiscatole della città. Non passava giorno che non ne combinassero una, mentre il loro libretto disciplinare acquisiva sempre più note, acquisendo l'aspetto di una macabra sinfonia.

Ma era stato al college che le cose erano cambiate.

Toma, sempre pronto a passare da una ragazza all'altra, come un'ape passa da un fiore all'altro, si era invaghito di Seripa. Quest'ultima era conosciuta per essere un vero e proprio demonio, sia a causa del carattere non propriamente dolce, sia a causa delle sue abilità nelle arti marziali miste, di cui era praticante fin da bambina. Alla fine, dopo mesi di corteggiamenti andati male, di proposte respinte a suon di pugni, e di inviti declinati con sonori 'vaffanculo', la ragazza aveva deciso di dare una chance a quel belloccio senza cervello, scoprendo due cose: era effettivamente un idiota, ma allo stesso tempo riusciva ad essere serio quando occorreva.

Fin qui nulla di male per Bardack. Anzi, aveva sperato che l'amico la smettesse di fare il puttaniere con una tipa come Seripa al suo fianco che lo sorvegliava. Le cose, tuttavia, erano precipitate quando aveva fatto conoscenza di Gine, la migliore amica di Seripa .

 

Piacere! Io sono Gine!”

...”

Ho detto: piacere...”

Nessuno ti ha chiesto nulla!”

 

L'inizio non era stato dei migliori. Bardack aveva cominciato ad entrare in quella fase del suo pensiero, che continuava tutt'ora, in cui odiava tutto e tutti, ritenendo il mondo un posto pieno di cerebrolesi che meritavano solo il suo disprezzo. Gine all'inizio gli aveva solo rafforzato quell'idea: le era sembrata soltanto una gallina sorridente e zuccherosa, che dispensava ovetti di pasqua tutt'attorno a lei. Poi, con il tempo, e con i pugni di Seripa, aveva deciso di dare una chance a quella ragazza palesemente innamorata di lui. Alla fine, come aveva fatto con Seripa, aveva dovuto ricredersi: Gine era sì dolce e gentile, ma aveva anche un carattere forte, che non si piegava di fronte a niente. Senza neanche accorgersene fino in fondo, Bardack si era ritrovato immischiato in una storia con lei. Tempo un anno dopo la fine del college, ed aveva scoperto di essere in procinto di diventare padre, con tutte le fregature che ne conseguivano.

L'uomo sospirò, facendo schioccare disgustato la lingua sul palato, quando vide Toma dare i soldi a Radish per prendersi l'ennesimo dolcetto alle macchinette dell'ospedale. Da quando quella piccola peste era nata, Toma e gli altri si erano auto-nominati suoi zietti acquisiti, viziandolo da morire, e dandogliela sempre vinta.

“Dovresti essere meno scorbutico con tuo figlio.” gli disse, con calma serafica, l'amico, vedendo la sua espressione omicida.

“Crepa!” replicò il moro, digrignando i denti. Successivamente, gli puntò l'indice destro contro. “Non vedo l'ora che anche tu abbia dei maledettissimi marmocchi, così finalmente vedrai quanto è divertente avere simili pustole in mezzo alle palle!”

“A me sembra un bambino adorabile.” osservò Seripa, fissando Bardack con espressione arcigna.

“Aspetta di averlo perennemente addosso, pronto a sputarti fuori le richieste più assurde ed orribili del cosmo.” borbottò l'uomo.

“Smettila di brontolare come una vecchia zitella! Piuttosto, perché non entri a dare un po' di conforto a tua moglie?” lo rimbeccò la donna, spostandosi dietro l'orecchio sinistro una corta ciocca di capelli neri.

Bardack gli lanciò un'occhiata alquanto strana: un miscuglio di rabbia, insofferenza verso il mondo, odio incondizionato verso qualsiasi creatura vivente e, incredibilmente, paura. Sapendo di aver appena mostrato una debolezza a quel demonio in gonnella, il moro cercò disperatamente di ritornare ad essere impassibile, fallendo miseramente.

“Cos'è, non mi dirai che, grande e grosso, te la fai sotto alla vista di un po' di sangue?” lo provocò lei, snudando un sorriso maligno.

Rimuginando sulle vendette più atroci e dolorose possibili, e sprizzando odio da ogni poro della pelle, Bardack si alzò e, dopo aver rivolto sguardi tracimanti di propositi sanguinari ad ogni persona presente nel corridoio, si diresse verso la porta verde davanti a lui, preparandosi mentalmente ad essere trattato come l'ultimo degli imbecilli.

Tuttavia, proprio quando stava per aprire, con la grazia di un camionista, il portone della sala, da quest'ultima uscì fuori un giovane infermiere, con la mascherina indosso, ed il camice sporco di sangue. Il moro non poté far altro di sentire un groppo in gola, prevedendo che, se quel tipo era sporco di sangue, qualcosa non doveva essere andato per il verso giusto.

“Chi di voi è il marito della signora?” chiese l'infermiere, scrutando prima l'uomo che aveva davanti agli occhi, e poi il gruppetto seduto sulle seggioline dietro di lui.

“Sono io.” borbottò Bardack, sudando freddo per la paura. “Cosa c'è?”

L'altro lo fissò, in silenzio, per circa una decina di secondi, l'espressione del volto coperta dalla mascherina. Il moro si sentì semplicemente un idiota, mentre aspettava che quell'altro si degnasse di dire qualcosa.

“Beh, signore... io...” vedendo il tono esitante dell'altro, Bardack pensò al peggio, perdendo definitivamente il controllo.

“Cosa stai cercando di dirmi, eh?!” sbraitò improvvisamente, afferrando per la collottola l'altro. “Che mia moglie è morta?! Che il moccioso non è sopravvissuto?! Che sono crepati tutti e due?!”

“Ma veramente... io... volevo...” l'infermiere provò disperatamente a fermare il moro, ma quest'ultimo era ormai partito definitivamente, sfogando il malumore di quell'orribile giornata su quel povero disgraziato, strattonandolo come se fosse un pupazzo.

“Ascoltami bene, razza di saputello della malora, se a mia moglie è successo qualcosa, giuro che vi ammazzo tutti! Hai capito?! Vi riempio di calci fino alla fine del mondo, luridi incapaci!!”

“Signore! Sua moglie sta bene! STA BENE!!!” urlò l'altro, ormai completamente sconvolto dallo sguardo folle e spiritato di Bardack, il quale, non appena comprese il messaggio, si bloccò di colpo, la bocca semiaperta, ed il volto ancora chiazzato di rosso dalla rabbia.

“Come ha detto?” riuscì a balbettare infine.

“Sua moglie ed il bambino stanno bene. È... a-appena diventato padre di un... un bel... maschietto.” ansimò l'infermiere, il volto pallido a causa dello shock.

Sentendosi improvvisamente un idiota, Bardack mollò di colpo l'uomo, desiderando ardentemente che il terreno sotto i suoi piedi si spalancasse per inghiottirlo. Almeno non avrebbe dovuto affrontare le espressioni dei suoi amici, i quali, non appena si girò, fecero moltissima fatica a nascondere le risate, camuffandole con colpi di tosse falsissimi. Probabilmente, se avesse avuto il potere di uccidere con un'occhiata, Bardack li avrebbe già sterminati tutti dal primo all'ultimo.

“Le faccio... strada?” propose timidamente l'infermiere, temendo un altro scoppio di rabbia da parte del neo padre.

“Ehi, Bardack.” osservò Seripa, un sorrisetto sulle labbra. “Ti vedo un po' nervoso. Vuoi una camomilla?”

“Solo se fatta con il tuo sangue...” replicò l'altro, il volto rosso per la vergogna, mentre cominciava a seguire l'infermiere lungo i corridoi dell'ospedale.

Durante il tragitto, tentò di calmarsi. Diavolo, non era una femminuccia con squilibri ormonali! Com'era possibile che la venuta di quel marmocchio lo turbasse così tanto? Specie ora che aveva avuto conferma che sua moglie stava bene.

E piantala! Ordinò mentalmente al proprio cuore, che non sembrava volergli dare ascolto, visto che proseguì nel suo incessante martellare da un punto impreciso della sua gola. Dovresti suonare una marcia funebre, non questo tambureggiare da checca isterica!

Scosse la testa, passandosi una mano sul volto. Non sapeva come comportarsi. Probabilmente non l'avrebbe ammesso mai con nessuno, ma era... soddisfatto? Felice? Sollevato? Non era facile dare una definizione al tumulto di emozioni che gli si agitava nel petto, ma di sicuro era una sensazione positiva.

Arrivò davanti alla porta della stanza di Gine. L'infermiere si congedò velocemente, lasciandolo solo. Solo con i suoi pensieri, i suoi turbamenti, e le sue emozioni. La cosa lo urtò. Non era sicuro di potersi fidare delle sue emozioni in quegli istanti, ed era quasi tentato di chiamare Seripa, giusto per aver qualcuno da dover odiare, in modo da rimanere sé stesso.

Andiamo, Bardack! Di cosa accidenti hai paura?!

Forse di essere felice? Di dovere ammettere che essere di nuovo padre gli avrebbe trasformato il cuore in un palloncino leggero, pronto a scoppiare di felicità non appena avrebbe preso per la prima volta suo figlio tra le mani?

Fece un profondo respiro. Poi, dopo essersi promesso di andare da uno psichiatra alla prima occasione buona, perché doveva essere impazzito per pensare certe cose, si decise ad entrare.

La prima cosa che vide furono gli occhi di lei. Neri, profondi, gli stessi occhi che ogni sera aveva bisogno di osservare per addormentarsi senza pensieri per la testa.

La seconda cosa fu il sorriso. Le labbra di lei erano incurvate in un sorriso morbido, tenero, un'espressione che Bardack le aveva visto rivolgere fino a quel momento solo a Radish.

Bene, chissà che il marmocchio diventi un minimo più educato, ora che avrà concorrenza.

La terza cosa che i suoi occhi notarono infine, fu il volto di suo figlio. Un faccino rosso, paffuto, con gli occhi chiusi, ed un paio di ciuffi neri a contornare il tutto. Dormiva beato tra le braccia di lei, che lo cullava con adorazione.

Schiarendosi la gola, l'uomo entrò nella stanza, annunciando così la sua presenza. Il sorriso di lei divenne più marcato nell'osservare il suo uomo.

“Sapevo che saresti venuto.” esordì, gli occhi velati da una patina di stanchezza. Eppure, brillavano di gioia, una luce così vivida che raramente il marito le aveva visto.

“Seripa ha insistito che venissi, anche se non capisco perché.” borbottò lui, andando a sedersi nella sedia posta affianco al letto. Con un cenno del capo indicò il bambino, incrociando le braccia.

“Come sta?” era chiaramente turbato dalla visione di quel frugoletto di carne, ma non l'avrebbe mai ammesso, neanche alla moglie.

“Bene. Esattamente come me, se mai la cosa dovesse interessarti.” lo rimproverò la donna, con tono dolce. Non era veramente arrabbiata. In fondo, sapeva che suo marito si trovava a disagio quando si trattava di mostrare i propri sentimenti.

“Era la mia seconda domanda.” borbottò il moro, alzando gli occhi al soffitto. “E la terza è quando potrai uscire da questo posto.”

“E' presto per dirlo. I medici dicono che dovrò restare qui minimo altri tre giorni.” rispose la mora, mentre sfiorava dolcemente una guancia paffuta del figlio.

“Quindi, in parole povere, io dovrò fare da balia a Radish per altri tre giorni.” concluse trucemente l'uomo. “Mi devi un favore enorme. E prega che anche quel coso non diventi stronzetto come Radish!”

“Non è un coso!” replicò Gine, sfoderando un'espressione feroce e combattiva. “Si chiama Goku!”

Lui la guardò stralunato.

“Come?”

“Ho detto che si chiama Goku.”

Ci mise alcuni istanti ad assimilare la notizia.

“Hai...” si schiarì la gola, cercando di non alzare la voce. Anche in quelle condizioni, sua moglie l'avrebbe bastonato a sangue se avesse svegliato il neonato. “Hai scelto il nome senza interpellarmi?”

“L'ho fatto io, quindi decido io.” gli occhi di lei squadrarono freddamente il marito, mettendolo sulla difensiva. “Mi auguro per te che non vorrai discutere questo punto.”

“Figurati! Sai cosa me ne frega...” in realtà gliene importava eccome del nome del figlio, ma sapeva per esperienza che sfidare sua moglie poteva essere pericoloso, molto pericoloso.

Rimase lì, i successivi cinque minuti, a fissarla, mentre coccolava il bambino, sul volto un'espressione così caramellosa che, ne era sicuro, avrebbe finito per prendersi il diabete sul serio alla fine.

“Ehi... non gli farà male rimanere avvolto in tutte quelle coperte?” chiese dopo un po', stufo di essere stato messo da parte.

Lei stava per aprire la bocca, stizzita per l'ignoranza in materia del moro, quando la porta si aprì, rivelando ai coniugi il volto sorridente di Seripa.

“Ehi, Gine!” sussurrò, il sorriso sempre più largo quando vide il fagottino che l'amica teneva in mano. “Possiamo entrare?”

Gine si limitò ad annuire. In punta di piedi, uno dopo l'altro, gli amici di Bardack fecero in loro ingresso nella stanza, osservando con curiosità il loro nuovo nipotino.

“E' minuscolo.” borbottò Panbuukin. “Radish era più robusto a quell'età.”

“Ha solo poche ore, imbecille!” sbottò Seripa, lanciandogli un'occhiata iraconda. “E' veramente un amore! Sono sicura che diverrà bello come la mamma!” aggiunse dopo, strizzando l'occhio con fare complice all'amica.

“Però!” fischiò sottovoce Toma, squadrando il visetto paffuto del neonato da dietro l'enorme spalla di Toteppo. “Sembra la tua copia sputata, Bardack. È brutto quasi quanto te!”

“Avete finito?! Volete anche dargli un voto, già che ci siete?!” replicò sgarbatamente il padre, guadagnandosi un'occhiata di rimproverò dalla moglie.

“Fa silenzio! Così lo sveglierai!” lo rimbeccò Gine.

“Io? Ma se questi idioti...”

“Zitto!”

“Mamma?” in quell'istante, da dietro le gambe di Toma, sbucò la folta chioma di Radish, il visetto affilato perplesso. “Mamma?”

“Sono qui, Tesoro.” rispose Gine, guardandolo con affetto.

Ridacchiando, Toma fece spazio al bambino, che poté così avvicinarsi al letto, osservando con perplessità il bambino che la madre teneva tra le braccia.

“E questo chi è?” chiese con fare sgarbato.

“E' il tuo nuovo fratellino.” rispose la donna con tono zuccheroso.

“Non mi piace!” replicò immediatamente il piccolo, squadrando il nascituro. “E' brutto! Sembra un rospo!”

“Allora ha preso tutto da te.” gli rispose il padre, dandogli un buffetto sul naso. “Piantala di fare il petulante, e fai finta di essere contento per tua madre.”

Subito dopo, l'uomo si fece piccolo sotto gli sguardi accusatori di Seripa e della moglie.

“Come si chiama? Avete già deciso il nome?” chiese Toma, nel tentativo di stemperare la tensione.

“Evita il plurale...” borbottò Bardack, incrociando le braccia.

“Si chiamerà Goku.” rispose Gine, un sorriso ricolmo di gioia sulle labbra.

Il gruppo accolse quel nome con sobria gioia, iniziando a tempestare di domande la futura madre. Il tutto mentre Bardack e Radish, venivano lasciati in disparte.

“Beh, moccioso.” esordì il padre, mettendo una mano sulla testa del figlio. “Questo cambia tutto, no?”

“In che senso?” chiese il bambino, mordicchiandosi un'unghia.

“Ora hai un fratello minore a cui badare.” replicò l'uomo, dopo avergli tirato uno scappellotto perché la smettesse di mangiarsi le unghie. “Dovrai cominciare ad essere più responsabile.”

“Sembra una cosa noiosa.”

“Lo è.”

“Ed allora perché devo farlo?” borbottò Radish, incrociando le braccia.

L'uomo sospirò, notando solo allora come fosse così simile a lui nel modo di atteggiarsi.

“Nella vita ci sono moltissime cose non ci va di fare.” spiegò, mentre osservava Seripa prendere in mano suo figlio, lo sguardo ricolmo di tenera gioia. “Eppure, se vuoi considerarti un vero uomo, dovrai sempre farti carico dei tuoi impegni, e rispettarli.”

“E che cosa ci guadagno ad essere un vero uomo?”

“Che potrai fissare in faccia gli altri senza vergogna.” replicò Bardack. Successivamente, diede una pacca sulla nuca al figlio, spingendolo in avanti. “Ora vai, e comincia ad essere un bravo fratello maggiore!”

Chi l'avrebbe detto? Quel marmocchio mi da ascolto. Pensò, sbuffando, quando vide Radish andare ad accarezzare, seppure con espressione arcigna, il piccolo Goku tra le braccia di sua zia. Forse non era così stupido e bastardo come pensava, ma preferiva metterlo di nuovo alla prova in futuro, prima di emettere una sentenza definitiva.

Non seguì il figlio, preferendo che fossero i suoi amici di una vita ad attorniare la moglie. In fondo, lui avrebbe avuto tutta la vita davanti per condividere con lei quella sensazione, quella gioia leggera e diffusa che, da quando era nato il suo secondogenito, gli aleggiava in petto. Non sapeva se odiarlo o meno per questo. Forse era meglio prima vedere che razza di donna gli avrebbe portato in casa, tra una ventina d'anni, per poi decidere se fosse il caso di detestarlo oppure no.

Incrociò le braccia, sospirando, mentre guardava Toma, il suo amico di una vita, accarezzare le guance di Goku, il nuovo membro di quella strana, assurda famiglia.

Benvenuto tra noi... piccolo moccioso.

Forse non era ancora il momento di dichiarare game over.

 

 

FINE

  
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