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Autore: Shomer    27/03/2009    6 recensioni
Aspettavo giorno e notte che qualcuno mi desse la chiave che avevo in tasca.
« Non posso certo uscire di qui, senza chiave », dicevo allo specchio fissando me stessa.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Destroyed

Cercavo di strappare la mia vita troppo stretta e di uccidere di nuovo tutte le mie cellule morte.
Intanto alla radio mandavano una canzone che non avrei dovuto ascoltare, perché mi ricordava terribilmente scene del passato che volevo mandar via. Guardavo il fumo del piccolo falò e pensavo.
«No, secondo me non ci arriva, il fumo, fino a quella luce. Scompare prima» dissi, e la luce del lampione illuminava i miei pantaloni sporchi di terra e di bibita gassata alla frutta.
«No che non scompare» lui alzò gli occhi che erano di pietra e di cielo e non sorrise. «C’è, anche se tu non lo vedi.»
Annuii, ma rimasi della mia idea.

Sentivo un vuoto al livello della testa e pensavo che la mia cassa toracica non facesse altro che stringersi, che se non potevo essere io la prima allora nessuno aveva il diritto di esserlo e che i miei capelli fossero troppo poco dritti, troppo gonfi e che il profumo di pesca avrebbe dovuto sapere di qualcos’altro.
Nel mentre le mie orecchie fischiavano e ricordavo quello che mi disse qualcuno, qualche millennio prima.
«Quando ti fischiano le orecchie significa che qualcuno ti sta pensando, o ha appena fatto il tuo nome.»
«E’ una cosa stupida» avevo risposto e lui o lei aveva scrollato le spalle e si era girato o girata dall’altra parte.

Vedevo in continuazione le spalle delle persone e gridavo qualcosa di incomprensibile, anche se dentro la mia testa quelle parole rimbombavano nel nulla e rimbalzavano su loro stesse.
Aspettavo un segno di qualunque tipo da persone che non avrebbero dovuto contare nulla, e poi mi dicevano “ciao”.
«Ciao» rispondevo senza guardare nessuno negli occhi, e poi se ne andavano lasciandomi sola con le mie domande.
«Dov’è il segnale? Qual è il segnale? Perché non c’è?»

Aspettavo giorno e notte che qualcuno mi desse la chiave che avevo in tasca.
«Non posso certo uscire di qui, senza chiave» dicevo allo specchio fissando me stessa.
Lui mi guardava dall’alto della sua statura e non c’era nessun lampione che illuminasse i suoi occhi di pietra e di cielo, quella volta.
«Ma perché non la prendi da sola, la chiave?»
«Non posso, non posso. Dammela tu.»
«Ma non posso neanche io.»
Intanto le mura grigie con qualche crepa si stringevano e l’unica finestra era posta troppo in alto. Gli avevo chiesto se potesse farmi salire sulle sue spalle, così magari sarei riuscita ad uscire.
«E’ troppo alta» mi aveva risposto, e comunque lui non voleva uscire da quella stanza perché diceva che non era vero che le mura si stavano stringendo.
«Come fai a dirlo, se non ci provi neanche?»
«E tu come fai a dire di non poter prendere la chiave, se non metti neanche la mano in tasca?»
Sentivo l’aria comprimersi nella stanza e speravo che le pareti scoppiassero. Cercavo di respirare regolarmente e ogni tanto il cuore mi batteva in modo strano. Faceva il rumore di una macchina che si mette in moto e mi infastidiva.

Spesso mi dicevano che ero assente. La verità era che non volevo farmi travolgere dal mondo esterno. Il problema era che mi aveva travolto abbastanza. Avevo girato per tanto tempo nel ciclone senza sapere di essere lì. Me ne accorsi solo una volta che, risputata fuori senza troppi complimenti, atterrai sul cemento armato pieno di insetti sbattendo violentemente la testa contro un palo.
«Ahia!» esclamai, e nessuno mi rispose.
Guardavo il cielo e pensavo che avrei potuto raggiungerlo semplicemente saltando. Quando saltavo, però, i miei piedi ritornavano sempre per terra e mi dicevo che avrei dovuto impegnarmi di più.
«Ma non è possibile» mi disse un giorno, lui. «Non puoi saltare così in alto.»
«Ah, no?»
«No» rispose, e il suo tono mi convinse.

   
 
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